La suggestione proveniente dall’articolo di Mario Nanni sul recente confronto parlamentare tra Schlein e Meloni è troppo forte perché io non la raccolga, aggiungendo qualche chiosa in merito alla seconda.
Diversamente dai politici di professione, noi cosiddetti intellettuali non abbiamo perso del tutto il senso del “ridicule”, cioè l’attitudine a cogliere nelle cose il lato paradossale, disturbante, più o meno fuori luogo, anzi,-per dirla con Pirandello, fuori di chiave. Un potere, quello del senso del ridicolo, che gli uomini di potere non hanno. Eppure dovrebbero considerarlo ogni volta che aprono la bocca o preparano il corpo e la mente alle loro prolusioni, anzi esternazioni. Come già rilevava Leopardi, terribile (awful) è la potenza del ridere e lo è tanto più se cade su qualcosa di serio, grazie al contrasto che crea e a me pare che il livello del discorso riguardante la cosa pubblica sia regredito verso quelle forme di infantilizzazione che il grande Recanatese assume – per deriderle- nelle sue “prosette satiriche”, cioè nelle Operette morali.
Ora, cosa può essere per noi di più grande momento che la politica? Lo è per tutti i cittadini di questo Paese. E dico volutamente Paese perché le mie orecchie sono stanche di sentir declinare la nostra comunità sempre ed esclusivamente come Nazione. Quanto più poetico e foneticamente dolce il vocabolo paese, come insegna la letteratura del nostos, del ritorno a casa! La radice pag, inoltre, è associata a pak, che è radice di pace. Dovrebbe bastare per prediligerne l’uso.
Un altro vezzo della nostra premier mi sembra degno del senso del “rire” leopardiano: la sillabazione dei concetti che vuole evidenziare verbalmente, come parlasse a una scolaresca della scuola primaria. A proposito di regressione infantile nella comunicazione! Quest’ultima, secondo la famosa teoria elaborata da Roman Jakobson, si articola secondo sei funzioni fondamentali: referenziale, fàtica, emotiva, metalinguistica, conativa e poetica.
Referenziale (preminente nei comuni fenomeni di comunicazione e che si ha quando il messaggio denota cose reali e si orienta in modo oggettivo, senza descrivere o sollecitare emozioni (come non pensare a Draghi, così restio al movére?); Emotiva (quando la comunicazione è incentrata sul mittente, ne esprime lo stato d’animo come produttore di messaggio accentuando elementi formali quali l’intonazione, le interiezioni o le ripetizioni. Conativa (quando la comunicazione è incentrata sul destinatario per cercare di imporre le proprie scelte e certi scopi attraverso l’uso di modi imperativi, esortativi, interrogazioni retoriche e strategie del genere). Tralascio le altre funzioni perché non fanno al caso nostro, anche se certe accentuazioni fonologiche caratterizzanti l’eloquio meloniano potrebbero ricondursi a quella poetico-connotativa. Dallo schema emerge con forza che il nostro premier comunica utilizzando soprattutto la funzione emotiva e conativa, con il risultato (da politica di lungo corso) di far impallidire i contenuti oggettivo-referenziali, i “temi” cosiddetti urgenti, i quali vengono di volta in volta sommersi da elocuzioni ad effetto, escursioni di tono che vanno dal basso-grave all’acuto-stentoreo, al morbido-seduttivo, il tutto accompagnato da un ampio repertorio mimico-facciale e gestuale che intensifica le funzioni stesse del comunicare.
Un’altra forte risorsa di quest’ars dicendi è la teatralizzazione, in parte insita nella presenza di un pubblico, di una platea che aderisce a ogni manifestazione verbale di chi fa politica, ma che, nel nostro caso, è esplicitata da una ricorrenza stilistica di chiara derivazione teatrale: il Signori miei, intercalato nel corpo frastico della comunicazione come una sorta di mantra ipnotico. Ars scaenica! quella cui anche il Pirandello romanziere inclinava per intrinseca vocazione drammaturgica, tanto da inserire nel corpo del racconto (novelle e Il fu Mattia Pascal) monologhi intercalati per l’appunto dalla locuzione Signori miei.
L’intento del grande siciliano era “umoristico”, cioè conoscitivo: togliere la maschera al reale, svelarne le contraddizioni, superando la fenomenologia delle cose. Consapevole dell’eterodossia del suo pensiero, per convincere il lettore che la vita è teatro (la grande pupazzata) Pirandello adottava spesso questa formula, come invito a seguirlo nelle sue dimostrazioni, ad accogliere la sua logica paradossale, a strappare il cielo di carta.
Nel suo argomentare lo scrittore si avvale di mezzi tecnici altamente retorici, quale veicolo di ciò che è stata definita una vera “rivoluzione culturale” (Barilli): come persuasore dell’anti-doxa egli deve ricorrere a stratagemmi tipici dell’oralità, anche nella scrittura. La funzione conativa nelle sue “orationes” è travolgente perché egli deve persuadere delle sue opinioni, insistendo con vigore e pazienza, fondendo insieme tutti i generi della retorica tradizionale: deliberativo, giudiziario e laudativo.
Ma la doxa di cui si fa promotrice e di cui ci vuole persuadere la nostra premier, di quale rivoluzione cultural-sociale sarebbe manifesto? Di quale “rivelazione” etico-politica che non sia di tipo regressivo-restaurativa? E allora perché assumere quella postura e quella dizione sermocinanti che facilmente la espongono al rischio della caricatura? A meno che lei non si senta all’altezza di Pirandello-Moscarda, cioè di fare per prima la caricatura di sé, stirando i tratti del volto, distruggendo ogni decoro della propria immagine, ogni sua versione privilegiata, per aprirsi a tutta le altre, al fine di perdere ogni possibile identità. No, la fluidità non rientra nel programma della Destra al potere. Una destra definitoria, perentoria, aforistica. La lezione di Pirandello le è sconosciuta. OVVIAMENTE.
Caterina Valchera – Docente, filologa