Fin dalla prima legislatura repubblicana, sono state presentate mozioni di censura a questo o a quel ministro. Il primo ad essere preso a bersaglio dalle sinistre, se ben ricordo, fu il ministro della Difesa Randolfo Pacciardi, un repubblicano tutto d’un pezzo. Antifascista dalla testa ai piedi, combattente in Spagna a sostegno della Repubblica, aveva agli occhi delle sinistre un duplice difetto. Innanzitutto, era sì antifascista, ma sapeva di che pasta erano fatti i comunisti. E non ne faceva certo mistero. E poi aveva il torto di ricoprire un dicastero, per l’appunto quello della Difesa, che soprattutto i comunisti vedevano come un pugno in un occhio. Perché loro e gli utili idioti fiancheggiatori erano dei pacifisti, favorevoli a una distensione che favoriva le mire espansionistiche di Stalin e compagnia cantante.
La censura, come dice la stessa parola, è una nota di biasimo. Un buffetto che però poteva far del male. Eh sì, perché allora e per molto tempo ancora lo scrutinio segreto imperversava nelle aule parlamentari. E andava in scena il ballo in maschera dei soliti franchi tiratori. A onor del vero, le siffatte mozioni non hanno fatto di solito grandi danni. Ma avrebbero potuto farli. Se solo una fosse passata, le opposizioni di sinistra – visto e considerato che la fame vien mangiando, come si dice – avrebbero chiesto le dimissioni del malcapitato ministro.
Ma lor signori dovettero fare i conti con un tipino che si chiamava Amintore Fanfani. Non solo è stato per sei volte presidente del Consiglio, una in meno dell’inossidabile Giulio Andreotti. Ma è stato per ben tre volte presidente del Senato. Come a suo tempo Cesare Merzagora, un uomo che per un nonnulla piantava baracca e burattini. Al punto che ogni volta che Fanfani era eletto nuovamente presidente del Senato, tutti – dal segretario generale all’ultimo commesso – esclamavano: “È tornato il Presidente!”. Quasi che i tappabuchi tra una sua presidenza e l’altra fossero delle nullità assolute. Facendo loro torto. Orbene, Fanfani, anche grazie al suo fiuto politico da segugio, avverte il pericolo di siffatte mozioni e corre ai ripari. Come? È presto detto: pone la questione di fiducia sul rigetto delle sullodate mozioni, e il gioco è fatto. Perché si voterà non più a scrutinio segreto, come consentivano i regolamenti parlamentari, ma per appello nominale. La forma più teatrale di scrutinio palese. Con il risultato che la maggioranza parlamentare dirà una serie ininterrotta di no alle mozioni di censura.
A questo punto, le opposizioni alzano ancora di più l’asticella. Non si accontentano delle mozioni di censura, che pestano acqua nel mortaio. Ma pretendono di più. E cioè mozioni di vera e propria sfiducia nei confronti di un singolo ministro. A questo punto studiosi e politici si pronunciano pro o contro. Chi dice di no invoca l’articolo 94 della Costituzione, che parla solo di mozioni di sfiducia nei confronti del governo. Dopo tutto ai governi si richiede unità e omogeneità. E non possono essere trattati alla stregua di salami da tagliare a fettine. Ma anche chi si schiera per il sì invoca a sua volta la Legge fondamentale della Repubblica. E precisamente il capoverso dell’articolo 95, che suona: “I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri”.
L’allora presidente del Senato Francesco Cossiga, confortato dal parere espresso a maggioranza dalla Giunta per il regolamento nella seduta del 24 ottobre 1984, opta per questa seconda scuola di pensiero. Ma, da buon democristiano, concede tutto e mai. Dice sì alle mozioni di sfiducia a un singolo ministro, ma aggiunge che allora devono valere le regole prescritte per le mozioni di sfiducia all’intero gabinetto. Regole, queste, poi codificate dai regolamenti della Camera (art. 115) e del Senato (art. 161). Del resto, l’articolo 94 della Costituzione parla chiaro. Stabilisce che la mozione di sfiducia deve essere “motivata e votata per appello nominale”. Una polizza di assicurazione sulla vita così stipulata a favore dei ministri presi a bersaglio. E infatti nessuna mozione di sfiducia ha colpito il bersaglio. Tranne una. Quella nei confronti di Filippo Mancuso, ministro della Giustizia ai tempi del governo Dini. Ma l’eccezione alla regola si spiega. Mandando gli ispettori a Milano per vederci chiaro sull’operato dei magistrati, Mancuso si pone in rotta di collisione con il governo del quale faceva parte. Un governo il cui indirizzo politico era tutt’affatto diverso.
Il guaio è che la Costituzione prevede che il capo dello Stato nomina i ministri su proposta del presidente del Consiglio, ma non ne contempla la revoca. Un’apparente assurdità che si spiega con i nostri governi di coalizione. Stando così le cose, il governo usò il surrogato della mozione di sfiducia al singolo ministro per sbarazzarsi del bizzoso ministro. Che fece fuoco e fiamme. Contestò il voto del Senato. Sollevò conflitto di attribuzione alla Corte costituzionale. Che però gli diede torto e finì con le pive nel sacco.
Nei giorni scorsi, in omaggio alla regola consolidata, le mozioni di sfiducia nei riguardi dei ministri Matteo Salvini e Daniela Santanché hanno fatto un buco nell’acqua. È però dubbia la legittimità di tali mozioni perché si riferiscono in definitiva a comportamenti che ben poco hanno a che vedere con l’articolo 95 della Costituzione, per il quale – come si è detto – i ministri sono responsabili “individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Perciò le predette mozioni sono state giudicate sì ammissibili dal presidente della Camera Fontana. Ma, per così dire, con lo scappellotto.
Paolo Armaroli – Docente di Diritto pubblico comparato e di Diritto parlamentare. Già deputato. Saggista