Cofferati: “C’è una emergenza economica. Finora è stata in parte occultata, in parte trascurata”

Intervista a tutto campo all’ex segretario generale della Cgil. I rapporti con Berlinguer, D’Alema, Lama, ricordi e riflessioni dal rapimento Moro al caso Stellantis: “Nella politica dell’auto un’ipotesi di riorganizzazione del sistema produttivo e di sostegno alla crescita non c’è: è un limite molto grave. Bisogna cambiare orientamento”
Sergio Cofferati ad una manifestazione contro la riforma costituzionale nel 2016 - Foto Bianchi / LoDebole / LaPresse
Inizierei con una domanda personale. Lei che ricordo ha del personaggio Berlinguer? Lo ha conosciuto di persona ed in quale occasione?

Berlinguer era segretario del partito al quale io ero iscritto in quegli anni, quando  avevo cominciato a lavorare a Roma nel sindacato dei chimici della Cgil. In alcune circostanze c’era un rapporto informativo, Sia ben chiaro che l’autonomia era sacra, ognuno decideva nel suo campo senza interferire su quello dell’altro, ma le informazioni venivano scambiate direttamente per cui si facevano riunioni delle varie aree, nella fattispecie dell’area comunista, con la presenza anche del segretario generale o dei responsabili del settore quando i temi erano molto delicati e importanti. Nella normalità delle situazioni ho avuto occasione di partecipare ad attività e riunioni con la presenza del segretario generale del mio partito che chiedeva, sempre con molta cautela e con molta parsimonia nell’uso delle parole, le informazioni che potevano tornare utili per il suo lavoro a chi ne svolgeva un altro come quello del sindacato. Berlinguer era un uomo che aveva una grande attenzione e una grande sensibilità per i problemi delle persone che lavoravano qualunque fosse poi la loro collocazione geografica.

Si ricorda un episodio in particolare?

Eravamo all’inizio degli anni ’80 ed una cosa che mi colpì molto fu l’incontro che Berlinguer chiese  – io all’epoca ero alla segreteria nazionale dei chimici – per essere informato sullo stato delle trattative con Montedison nel mezzo di una crisi drammatica che coinvolgeva la chimica italiana sia al nord che al sud. Berlinguer  al termine della riunione si fermò ad ascoltarci. Noi gli descrivemmo la situazione di molti territori coinvolti da questa crisi, soprattutto nel mezzogiorno… penso a Brindisi a Priolo oppure nel quadrilatero del nord-est, Marghera con Mantova Ferrara e Ravenna. Io gli raccontai tutto con molta attenzione con abbondanza di particolari e lui alla fine non commentò nulla, ci chiese soltanto se avevamo intenzione di chiedere al governo la pregiudiziale nel negoziato che si stava facendo e noi gli rispondemmo di no. Lui ci salutò e ci ringraziò e noi ce ne andammo. La pregiudiziale era stata la chiave che aveva ostacolato ed incancrenito il confronto tra il sindacato e la Fiat , io penso che lui fosse convinto che non era proprio il caso di riproporla. Ed infatti noi non l’avevamo proposta.

Una conferenza di Enrico Berlinguer alla fine degli anni '70 - Creative Commons
Una conferenza di Enrico Berlinguer alla fine degli anni ’70 – Creative Commons
Il sequestro Moro. Moro, nella Dc e non solo, era il migliore alleato di Berlinguer e nel 1978 il suo rapimento pose un’ ipoteca serissima sulla praticabilità del compromesso storico. Il Pci fu più realista del re e si schierò immediatamente e senza tentennamenti con il fronte della fermezza. Secondo lei, invece di quella scelta granitica non sarebbero state possibili posizioni un po’ più sfumate?

No, sarebbe stato un errore perché bisognava combattere il terrorismo con tutta la determinazione del caso per evitare che alla morte di persone che erano state uccise e ad altre follie che venivano proposte si aggiungessero alla discussione anche elementi di debolezza o di tentennamento, prospettati da qualcuno. Ma io credo che il partito e Berlinguer abbiano tenuto una una posizione giusta e rigorosa che chiuse degli spazi sui quali probabilmente il terrorismo faceva conto.

Berlinguer dedicò la parte centrale della sua vita politica alla proposta del compromesso storico elaborata dopo il golpe in Cile del 1973 e basata sulla consapevolezza che in Italia  la sinistra non avrebbe mai potuto governare solo con il 51% dei voti. Questo programma, illustrato in tre articoli pubblicati su Rinascita, sembrò avvicinarsi alla sua realizzazione dopo le regionali del ’75 con una grande avanzata del Partito comunista e le elezioni politiche del ’76, quando il Pci arrivò al 34% dei voti. Quando finisce questa fase, secondo lei?

È una fase che vive un periodo di grande attenzione da parte dell’opinione pubblica ed ovviamente anche delle forze politiche interessate, poi non si realizza perché il centrodestra agisce affinché questa convergenza progressista, chiamiamola così, non prendesse corpo. Dico progressista perché anche nella Dc era vasta l’area delle persone che guardavano ai rapporti politici senza pregiudiziali e senza senza sbarramenti. Poi il sostanziale rallentamento di questo processo nel cambiamento anche dei rapporti internazionali ne vanificò e ne ridusse progressivamente l’efficacia e dunque lo portò ad una stasi.

Secondo lei il duro sciopero del metalmeccanici del 2 dicembre 1977, quando si capì che gli operai gradivano il Pci di lotta ma non quello di governo non ebbe una parte nel far cadere l’ipotesi del compromesso storico? lo chiedo perché il 4 dicembre uscì su Repubblica la famosa vignetta di Forattini che ritraeva Berlinguer in vestaglia e con la tazza di tè in mano, disturbato dalle voci di piazza.

È un argomento di cui si parlò, perché fu anche una pratica caricaturale nella quale Forattini era bravissimo: ma con la realtà non aveva molto a che spartire. D’altro canto un partito che aveva le dimensioni del Partito comunista ovviamente aveva un rapporto con il mondo del lavoro e dall’altra parte anche con la borghesia, perché anche nella borghesia erano presenti culture comportamenti e adesioni ai processi di sviluppo e di crescita della sinistra riformista, qui e in tutta Europa. Io non credo che ci sia stato nessun effetto particolare sullo schieramento politico in seguito ad alcuni momenti di confronto o di discussione anche aspri .

Lama e la svolta dell’ Eur. In un’intervista a Repubblica del 24 gennaio 1978, intitolata “Lavoratori stringete la cinghia”, il segretario della Cgil Lama per sconfiggere la disoccupazione propose una politica salariale molto contenuta e la limitazione della cassa integrazione a un anno salvo casi eccezionalissimi. A metà febbraio la Cgil lanciò la famosa svolta dell’Eur, chiedendo ai lavoratori moderazione salariale e promettendo come contropartita un programma di investimenti che avrebbe dovuto garantire l’occupazione. Si trattava della – contestata – politica dei sacrifici, da perseguire al fine di promuovere la ripresa economica del paese. Lei allora come aveva valutato queste proposte? Ed oggi le trova attuali?
Luciano Lama
Luciano Lama

Dovremmo pensare al momento storico ed a come la proposta  di un’organizzazione politica e sindacale abbia la sua ragion d’essere nella storia di un paese. Essa non è riproponibile in quanto tale in fasi e momenti successivi, il paragone tra oggi e ieri non regge ed addirittura può produrre elementi di confusione. Io credo che in quel momento fosse indispensabile un rilancio economico perché il paese stava pericolosamente arretrando sul versante della capacità di creare ricchezza e contemporaneamente servivano politiche redistributive corrette ed efficaci.

In fondo il cuore della trattativa tra le parti, sia nei luoghi di lavoro che nei contratti nazionali o nelle politiche nazionali, ha sempre avuto in Cgil un carattere di ridistribuzione con un’attenzione particolare per i più deboli che poteva anche portare un rallentamento degli effetti redistributivi per le fasce più protette.

Pensiamo, ancora oggi, al valore del tema solidarietà, cioè l’intervento che i più forti mettono in campo a vantaggio dei più deboli per aiutarli a risalire la china, lì c’è il cuore di un’idea di politica economica e sociale. Anche all’epoca era così, esistevano alcuni settori storici delle attività industriali dove il sindacato garantiva comunque livelli adeguati di protezione mentre ne esistevano altri che stavano nascendo o che avevano un prodotto con meno valore aggiunto. Dove la redistribuzione non era sufficiente bisognava avere strumenti di solidarietà dati dalle leggi e  contemporaneamente un orientamento adeguato da parte di chi svolgeva la rivendicazione, nasce così anche lo Statuto dei lavoratori del 1970  perché avere una rappresentanza e una protezione che partisse proprio dai più deboli per arrivare poi ovviamente a tutti.

Lama e Berlinguer. Secondo lei che rapporto aveva Lama con Berlinguer? Ricordo l’ episodio del 17 febbraio del ’77, quando il segretario della Cgil  dovette lasciare la Sapienza in seguito alla contestazione degli autonomi. Lama lo visse come uno dei momenti di maggiore solitudine perché non ebbe la solidarietà che si sarebbe aspettato, e molti anni dopo nel suo libro Intervista sul mio partito (1987) si disse amareggiato anche dalla freddezza di Enrico Berlinguer. In quel libro Lama disse anche detto di aver appreso dalla stampa che  il Pci si ritirava dalla maggioranza di solidarietà nazionale. Lei cosa ne dice?

Lama e Berlinguer erano due persone che avevano grandissima intelligenza e grandissima capacità operativa, più di quanto forse sia apparso in quei momenti storici; avevano anche, come altri del gruppo dirigente sia della CGIL che del Partito Comunista, opinioni diverse e in qualche circostanza anche divaricanti espresse con grandissimo rispetto dei propri interlocutori.Questa è una cosa che forse è mancata negli anni e nei decenni successivi.

Ecco, questa qualità delle relazioni e dei rapporti era anche percepita da chi poi aveva un ruolo molto più lontano dal centro nel partito o nel sindacato. Era le devo dire un clima che ho sempre considerato molto positivo e molto bello, e ciò anche quando le discussioni portavano divaricazioni di opinioni e a contrasti che sul profilo del merito non erano di poco peso.

Per esempio anche ai tempi del referendum sulla scala mobile del 1985 Lama come sindacalista non era entusiasta del referendum promosso dal Pci perché lo vedeva come una spaccatura pericolosa ed una potenziale sconfitta. La Cgil era divisa anche se, quando ci fu l’appello finale al voto sul referendum, Lama si presentò in televisione assieme al socialista Del Turco che era segretario generale aggiunto e ognuno dei due spiegò chiaramente il proprio punto di vista .Sì una parte della Cgil considerava un errore il referendum, questo però non portò ad atteggiamenti equivoci o controproducenti. Anche la Cgil si impegnò direttamente, io fui mandato in Sardegna dove in quelle settimane ero il responsabile della campagna elettorale . All’epoca io ero ancora nella segreteria dei chimici ed andai proprio in Sardegna perché la gran parte delle Industrie locali erano nell’area della chimica, dai minatori a Ottana o al petrolchimico e alle raffinerie.

I rapporti con la sinistra da segretario della Cgil. Lei che rapporti ha avuto da segretario della Cgil con i leader del Pds / Ds? Pensavo in particolare a Massimo D’Alema…

Ma i rapporti erano rapporti buoni, molto leali anche quando le opinioni erano divergenti. Consideri ad esempio l’anomalia però positiva del rapporto con la sinistra radicale avendo lavorato in Cgil per anni insieme a Fausto Bertinotti, certo avevamo elementi molto forti di distinzione e di dissenso ma anche rapporti di amicizia personale rilevantissimi. L’affetto che io ho sempre avuto per Fausto e viceversa ha aiutato anche a gestire momenti difficili, dove il merito ci divideva e lo stesso valeva anche per il mio partito sia con D’Alema che con Veltroni, che pure erano molto diversi tra di loro. Le relazioni e i rapporti sono stati positivi ancor prima anche con Occhetto, non ci sono mai stati divergenze che producevano comportamenti negativi. Penso anche all’accordo del giugno 1992, che pure produsse rotture piuttosto rilevanti nel nostro mondo, il tutto avvenne e con grande rispetto reciproco anche quando la differenza di valutazione era seria perché l’ accordo del 31 giugno del ’92 fu molto pesante per le organizzazioni sindacali, e in particolare per la Cgil.

Lei fa riferimento all’accordo sulla disdetta della scala mobile quando Trentin firmò azzerando la scala mobile dicendo che lo faceva per salvaguardare l’ unità sindacale?

Esatto.

Bisogna ricordare che già nel 1978 Lama aveva parlato di ridimensionamento della scala mobile, quindi nel 1985 c’era stato il referendum contro il taglio di tre punti voluto da Craxi; posso capire la battaglia politica ma dopo tanto clamore e solo a 7 anni di distanza Bruno Trentin firma l’accordo e si dimette lasciando la Cgil per mesi senza segretario.

Ma no, mesi no, tre settimane. Comunque le concedo un mese, l’accordo è del 31 di luglio  le dimissioni di Bruno sono del primo del primo di agosto e nella prima settimana di settembre c’è la direzione la direzione della Cgil ad Ariccia nella quale si discute e si combina alla fine il ritiro delle dimissioni da parte di Bruno.

Sciopero generale, manifestazione di Cgil e Uil a Torino - Foto Marco Alpozzi/LaPresse
Sciopero generale, manifestazione di Cgil e Uil a Torino – Foto Marco Alpozzi/LaPresse
Giungiamo all’oggi. Lo sciopero generale proclamato dalla Cgil e dalla Uil  per il 29 novembre ha avuto successo ed il segretario della Cgil Landini ha chiarito in un’ intervista con il Corriere cosa intendesse per rivolta sociale. Lei come vede la situazione del paese in questo momento di dura contrapposizione? Ed oggi, secondo lei, ha ancora qualche spazio l’idea della concertazione che lei ha sempre sostenuto? ed infine secondo lei qualcuno pensa ancora all’ unità sindacale?

Io credo che ci sia un’emergenza sul piano economico che è stata in parte occultata e in parte trascurata, nel caso Stellantis per fare l’esempio più rilevante. È lì davanti agli occhi di tutti noi. Oggi parliamo di Stellantis pensando alla produzione di automobili, ma guardiamo a tutta la componentistica che sta dentro e intorno all’automobile. Io ho lavorato per tanti anni in un’azienda che produceva anche pneumatici: si può immaginare che se non si fa l’auto non si fanno neanche le gomme per dirla nella maniera più banale possibile. Dunque c’è un problema economico che va affrontato con un’ipotesi di crescita e di sviluppo che va discussa qui per poi pretendere che anche l’Europa assuma orientamenti coerenti con questa esigenza.

Pensiamo anche alla Germania con Volkswagen che si trova nella stessa situazione e sostanzialmente per le stesse ragioni. Nella politica dell’auto un’ipotesi di riorganizzazione del sistema produttivo e di sostegno alla crescita non c’è, questo è un limite molto grave e di conseguenza credo sia utile mutare orientamento. Il sindacato è giusto che lo chieda anche con  gli strumenti tradizionali che sono il confronto e la lotta, ovviamente essi  possono essere collocati in un quadro di concertazione. Però ci vuole disponibilità sia del sindacato che non dovrebbe avere difficoltà, ma soprattutto dal governo e mi pare che quello attuale non sappia proprio di che cosa si tratta.

Ma in fondo anche il primo governo Berlusconi non aveva le idee chiare in merito e poi cammin facendo ha cambiato opinione e non si è mai sottratto negli anni successivi al confronto preventivo, prima delle decisioni operative, con le organizzazioni sindacali. Questo aiuterebbe anche alla riorganizzazione dei rapporti interni tra le tre confederazioni.

Un’ ultima domanda. Secondo lei il Green Deal per come è impostato anche a livello europeo non pone un’ipoteca forte sul futuro dell’Industria dell’automobile?

No, pone l’esigenza di produrre nel rispetto dell’ambiente. Non c’è una contraddizione in sé tra il Green Deal e il sistema industriale, ma va approfondito il modo col quale devono essere messi in sintonia e in coerenza l’uno con l’altro.

Gianluca RuotoloAvvocato

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