Alla vigilia delle elezioni presidenziali del gennaio scorso era opinione comune che ai vertici dello Stato nulla sarebbe stato, di lì a poco, come prima. Sergio Mattarella non vedeva l’ora di lasciare il Quirinale. Lo aveva detto e ridetto con un’insistenza perfino eccessiva. Ma il Capo dello Stato sa bene che è sempre meglio far seguire alle parole i fatti. Ed ecco il suo peregrinare per la Capitale come un cittadino qualsiasi alla ricerca di un appartamento in affitto per il dopo Colle. Ecco il contratto di affitto finalmente firmato dopo aver girato Roma in lungo e in largo. Ecco gli scatoloni già predisposti al Quirinale in procinto di partire per la nuova abitazione e per Palazzo Giustiniani, dove si trovano gli uffici dei senatori di diritto e a vita.
Ma perché tanta insistenza da parte della suprema magistratura dello Stato? Per diversi motivi, c’è da supporre. Per cominciare, Mattarella si è fatto un po’ di conti. Si è detto: “Ho ottant’anni suonati, tre figli e nipoti. Il Quirinale man mano che passa il tempo mi appare una gabbia in cui mi sento prigioniero. E allora basta. Anche io, come i miei concittadini, ho il diritto di godermi a modo mio la cosiddetta terza età”. Così ha pressappoco parlato il padre, il nonno.
Ma poi, quel che più conta, ha detto la sua il professore di diritto parlamentare e dintorni. E così si espresse all’incirca il cattedratico: “Il mandato del Capo dello Stato dura sette anni. Ma solo perché è un organo più di garanzia che di governo. Sennonché con l’andare degli anni il presidente della Repubblica in determinate occasioni ha svolto una funzione tendenzialmente di governo. E allora sette anni possono essere considerati perfino troppi. Figurarsi quattordici anni in caso di bis. A Parigi il Capo dello Stato è la stella fissa del potere esecutivo. Ma con una riforma costituzionale del 2000 questa stella brilla non più per sette anni ma solo per cinque, salvo rielezione. Come è appena capitato a Macron. Certo, Napolitano ha concesso il bis perché tirato per la giacchetta. Ma una rondine non fa primavera. E allora basta. A Palazzo non resterò un minuto di più, perfino se per il 3 febbraio questo Parlamento in seduta comune composto anche di gente scappata di casa non dovesse eleggere il mio successore”.
Dal Quirinale a Palazzo Chigi, anche da un punto di vista chilometrico, il passo è davvero breve. Non era scontato che Mario Draghi restasse presidente del Consiglio. A ragione o a torto, molti pensavano che fosse destinato a succedere a Mattarella. Però mai e poi mai i peones gli avrebbero dato disco verde. Lo scrutinio segreto è una manna per i franchi tiratori. E il timore di molti grandi elettori era che con Draghi al Quirinale si sarebbero spalancate le porte alle elezioni anticipate perché sarebbe stato problematico individuare il suo successore a Palazzo Chigi. E, da che mondo è mondo, non si è mai dato il caso di tacchini che reclamino l’anticipo delle feste di Natale, quando finiranno immancabilmente in pentola.
Ora Draghi è sì, con quella faccia da incallito giocatore di poker, un uomo a sangue ghiaccio. Ma non si poteva escludere che, in preda a un’improbabile crisi di nervi per non aver ottenuto il Quirinale, piantasse per tigna baracca e burattini per il gusto di lasciare tutti in braghe di tela.
Così non è stato, per nostra fortuna. Dopo una settimana di passione a Montecitorio, dopo un inutile girotondo che ha gettato ridicolo sulla nostra beneamata classe politica, tutto è restato come prima. Mattarella al Quirinale, Draghi a Palazzo Chigi. Per nostra fortuna, comunque la si pensi, perché le spinte centrifughe saranno compensate con gli interessi dalle spinte centripete rappresentate dalla inossidabile coppia ai vertici dello Stato.
Come ho sostenuto in un recente mio libriccino che ha avuto una certa fortuna, Draghi ha in Mattarella un ombrello che lo ha riparato e lo riparerà sempre più dalla pioggia di chi, per piantare qualche bandierina di partito, sarebbe disposto a mandare tutto quanto a quel paese.
L’ombrello, del resto, funziona a meraviglia. Draghi è uscito dal cilindro di Mattarella, che ha aggiunto la propria personale fiducia a quella parlamentare. Tanto vasta quanto variegata, e perciò inquieta. Anche i fatti di questi giorni lo dimostrano ampiamente. C’è un’eterna propensione italica a dire e a non dire, ai sì ma, all’armiamoci e partite. Lor signori statunitensi e inglesi, si capisce. Il partito della pace sì ma delle armi no sta facendo proseliti tra un distinguo e un altro.
A tale Pagliarulo, presidente di un’Anpi i cui soci per ragioni di età i partigiani li hanno visti solo in fotografia e al cinema, si aggiungono Giuseppe Conte, che per non sbagliare abbraccia tutti i colori dell’arcobaleno, a riprova che non si è camaleonti per niente, e Salvini, che da quando la Meloni nei sondaggi lo ha surclassato, sembra aver perso il ben dell’intelletto.
Draghi e Mattarella, se Dio vuole, sono di tutt’altra pasta. Il presidente del Consiglio ha fortemente voluto due decreti legge sull’Ucraina. E a quei componenti del Consiglio dei ministri tormentati da dubbi amletici, ha replicato alla sua maniera: “Il governo va avanti”.
E Mattarella non ha esitato un istante e ha, con piena condivisione, emanato i predetti decreti legge. Che il suo sì riguardasse non solo la legittimità del provvedimento ma anche il merito, quasi una sorta di sanzione regia, lo prova l’eccellente intervento al Quirinale del 22 aprile scorso in occasione dell’incontro con gli esponenti delle associazioni combattentistiche e d’arma, nella ricorrenza del 77° anniversario della liberazione.
Mattarella ha tracciato un ineccepibile parallelo tra la resistenza italiana all’invasore e la resistenza del popolo ucraino all’aggressione russa. Ha invitato a ricordare “la rivolta in armi contro l’oppressore”. Una rivolta che fu innanzitutto morale ma non solo, perché ci fu una “difesa strenua del nostro popolo dalla violenza”.
E ancora: “Un’esperienza terribile; che sembra dimenticata in queste settimane, da chi manifesta disinteresse per le sorti e la libertà delle persone”. Tante le sottolineature degne di nota. Basterà questa: “La pretesa di dominare un altro popolo, di invadere uno Stato indipendente, ci riporta alle pagine più buie dell’imperialismo e del colonialismo”. Evviva la sincerità.
Draghi si recherà presto a Kiev per confermare il pieno sostegno dell’Italia a Zelensky. E Mattarella, l’ombrello di Draghi, è all’unisono con il presidente del Consiglio. È confortante per chi ha una certa idea d’Italia che ai vertici dello Stato ci siano personalità degne del nostro Risorgimento.
Paolo Armaroli – Professore ordinario di Diritto pubblico comparato, Docente di Diritto parlamentare, già deputato.