Nei giorni scorsi, quasi due anni dopo la chiusura delle indagini, il gup Ileana Ramundo ha rinviato a giudizio per disastro colposo e altri reati 13 dei 18 indagati per l’incendio, senza vittime né feriti, ma con richieste di risarcimento per decine di milioni di euro agli inquilini rimasti senza casa, che il 29 agosto 2021 aveva distrutto i 18 piani della Torre dei Moro a Milano.
La notizia, che vedeva coinvolti importanti costruttori e progettisti lombardi, tra i quali la famiglia Moro e il suo entourage, è stata ovviamente ripresa da gran parte dei giornali, e ha finito per fare ombra a un’altra notizia, emersa nel corso delle schermaglie tra accusa e difesa, e obiettivamente molto più importante, o meglio, impressionante.
Diciamo che non è proprio come nel proverbiale, ‘tutti a osservare il dito e nessuno la luna’, perché in questo caso la luna è enorme, sì, ma anche il dito è ingombrante. Però, bastava allontanarsi di un passo e, nel fotogramma del processo ai presunti responsabili, a vario titolo, del rogo, ci sarebbero entrati tutti e due: il dito, cioè, appunto, l’annuncio del rinvio a giudizio; e la luna, cioè la conferma che i materiali killer, responsabili del rogo di Viale Antonini, sono gli stessi, per tipo e marca, che hanno mandato in fumo il complesso di 14 piani a Valencia, dove a febbraio i morti sono stati 10, e con discreta certezza, anche se da dimostrare, anche la Grenfell Tower di Londra, dove nel 2017 persero la vita 72 persone, tra le quali i giovani architetti italiani Gloria Trevisan e Marco Gottardo.
Che sia passata quasi inosservata, è senza dubbio paradossale, perché delle due è quella che invece merita la massima attenzione, dal momento che riguarda decine di migliaia di persone sulle quali incombe la medesima sorte, in Italia, e all’estero: morire avvelenati dai gas che sprigionano dalle plastiche bruciate dei loro appartamenti, come è successo, appunto, a Valencia e a Grenfell, e se non a Milano è stato solo perché in piena estate, di domenica, e di pomeriggio, la Torre era quasi vuota.
Tutto nasce, spiegano gli esperti, dall’impiego dei pannelli come elementi per le cosiddette vele, soluzione di gran moda sia per arredare le facciate, sia per creare, a distanza di circa un metro dalle pareti esterne, una ventilazione passiva, in grado di raffreddare l’edificio d’estate e riscaldarlo d’inverno.
Proprio questo effetto ‘tiraggio’ nell’intercapedine, combinato con l’estrema combustibilità del materiale plastico di pannelli troppo sottili, che abbassano anche la temperatura di fusione dello strato di alluminio, può, però, trasformare un mozzicone di sigaretta, o un corto circuito, in una strage. Soprattutto quando, tra le tante qualità disponibili, la scelta degli architetti, dei costruttori e dei fornitori, sotto gli occhi distratti di chi, nel pubblico, dovrebbe controllare i lavori, cade sui prodotti più economici e scadenti, come sarebbe accaduto a Milano.
Secondo la pm Marina Petruzzella, i 13 rimandati a giudizio, pur consapevoli del rischio e dei precedenti, avrebbero impiegato i pannelli Larsen PE della Alucoil: ora non risultano più in catalogo, ma al tempo c’erano, ed erano senza dubbio i peggiori della casa. La stessa azienda spagnola, nelle istruzioni allegate, sconsigliava ipocritamente di adoperarli negli edifici di non più di due piani, anche se poi sapeva benissimo dove e in che modo venivano utilizzati, come rivela la fitta corrispondenza con gli agenti di vendita italiani (tra l’altro, richiesto del perché proprio quei ‘due piani’, qualcuno degli indagati avrebbe risposto con ammirevole cinismo che è l’altezza massima che si ritiene possa permettere agli inquilini di salvarsi calandosi dall’esterno).
Del resto, che le caratteristiche ignifughe dei pannelli fossero pari a quelle di un cerino bagnato di benzina appariva chiaro dalla cinetica del fuoco sia a Milano, sia a Valencia, sia a Londra: in tutti e tre i casi, e in molti altri nel mondo più lontani dai riflettori occidentali, ma ben noti alle esperti, si osservano le fiamme diffondersi da un piano all’altro passando dall’esterno, e con una velocità tale da vanificare ogni soccorso.
Ma se fino a ieri si poteva parlare di solidi indizi, la conferma definitiva che anche nel caso dei palazzi bruciati a Valencia le vele erano realizzate coi Larsen PE, e non con i tanti altri epigoni in commercio, arriva adesso da una fonte di cui non si può dubitare: a dirlo sono stati, nei giorni scorsi, gli stessi legali italiani della Alucoil. Nel tentativo, in verità un po’ goffo, di alleggerire la posizione dei due manager spagnoli da loro difesi, facendo notare agli inquirenti milanesi la scarsa considerazione data dai colleghi spagnoli, almeno finora, al fattore pannelli, nel rogo di Valencia, li hanno chiamati per nome e cognome: Larsen PE. In questo modo, senza volerlo, hanno ammesso la verità: una marca, una causa, un effetto, le fiamme che divampano e bruciano in poche decine di minuti fino all’ultimo centimetro cubo, senza che nessuno possa farci niente.
Quanto alla tragedia di Grenfell, per poter fare due più due, o meglio tre, bisognerà aspettare almeno fino al 2028, ultima delle numerose scadenze fissate dalla Corte del Regno Unito con una cautela parruccona che sembra irridere il numero delle vittime e le richieste di giustizia. Ma al di là delle questioni giudiziarie, l’aspetto fondamentale di questa storia ha che fare con il banale diritto dei cittadini di vivere in case sicure e non in trappole destinate ad ardere come pagliai. Un fatto che tutti diamo per scontato, ma che la Procura milanese ha smentito fin dai primi passi dell’inchiesta, quando la semplice lettura degli archivi clienti e delle chiavette usb sequestrati ai distributori italiani della Alucoil ha permesso di identificare decine di edifici italiani arredati con i famigerati Larsen PE.
L’elenco comprende: il Data Center Aruba di Ponte San Pietro a Bergamo; il palazzo E3 Est, in piazza Gae Aulenti a Milano; la Acef Azienda Chimica Farmaceutica di Fiorenzuola d’Arda; la nuova sede della Transfer Oil di Parma; il quartier generale della Moda Srl Twin Set a Carpi; il Nuovo Terminal Crociere di Civitavecchia; il Breaking Hotel al casello di Giulianova Marche; il Nuovo Terminal Aeroporto di Aosta; il CNS Report Nuovo Stadio Juventus; l’Engineering Ostiglia; il progetto Focchi Cantori di Quattro Ospedali in Toscana; il Guala Closures Group di Alessandria; Italmontaggi Arredo Casa di Cornedo Vicentino; il My Hotel a Bologna; lo Sky Line Le Fontane Shopping Center di Catanzaro.
Due anni fa, il sostituto procuratore Marina Petruzzella ne aveva informato per iscritto le procure interessate e la direzione generale dei vigili del fuoco. Nel frattempo, a dimostrare che non si trattasse di protagonismo allarmista da parte del magistrato, i soliti pannelli Larsen PE avevano causato incendi, per fortuna non distruttivi, ma tali da disporne lo sgombro immediato, all’ospedale San Filippo al Ponte e all’Una Hotel di Varese, peraltro unica città in cui il Prefetto aveva già dato disposto controlli e smantellamenti delle coperture più pericolose. Davanti al silenzio degli altri, c’è da chiedersi dove finisca la tradizionale inerzia delle istituzioni e dove cominci, invece, il timore di scoprire che i materiali killer sono molto più diffusi di quel che pensiamo e che i vari bonus casa, con i loro cappotti di polimeri sintetici, possano aver peggiorato di molto la vulnerabilità al fuoco delle nostre abitazioni. Filiberto Lembo, docente di tecnologia del restauro all’università Roma Tre e perito della Procura di Milano, lo ripete e lo scrive da tempo nei suoi libri: ”Non è azzardato sostenere che in Europa almeno un incendio al giorno è causato da questi materiali edilizi o scadenti, o fuorilegge, o illegalmente certificati da agenzie compiacenti’. Ma è azzardato, allora, immaginare che il prossimo bonus sarà quello per le scale antincendio?
Ulteriore articolo in merito: Incendio Valencia, c’è un filo che lo lega ai roghi di Londra e Milano
Maurizio Menicucci – Giornalista, autore di inchieste, documentari televisivi