Vorrei tornare a riflettere su un tema suscitato su questa rivista da Luigi Tivelli a proposito dell’assenza di “maestri”, di vere guide politiche nel panorama- piuttosto desolante- offerto dall’attuale classe dirigente.
Doverosa premessa all’insegna della perplessità: possiamo ancora chiamarla così? Dirigo in latino significa tracciare, segnare un percorso, oppure allineare, raddrizzare. Nessuna di queste definizioni mi pare conveniente, visto che la suddetta classe procede senza tracciare percorsi che siano stati prima definiti sulla base di costruzioni teoriche altrettanto solide e dichiarate.
In assenza di una teorizzazione forte, di una magistralità etico-politica che appare non solo declinante ma definitivamente tramontata, nel vuoto di pedagogia civile dell’Italia odierna, si procede in ordine sparso, a suon di strategie dettate dalla contingenza, affidate a spot, propaganda, autoincensamento. Per di più senza rispettare i principi basilari della retorica classica, che invece era altamente rispettosa della vita della polis, ma rispondendo piuttosto a forze pulsionali, a istinti- talora primitivi- e indulgendo a discorsi fanciulleschi o narcisistici.
Non basta spiegare questo degrado con la fine delle vere leadership, con l’assenza di personalità politiche in grado di “dirigere”. Ancora più inconsistente poi è la pretesa che i soggetti attuali- spesso straparlanti- possano minimamente assolvere alla funzione di “educare” le nuove generazioni e condurle verso un vero interesse per la cosa pubblica. Solo a pensarlo suona grottesco e non basterebbe la penna di Gadda per dirlo adeguatamente.
Il discorso politico si è ridotto a puro esibizionismo, in alcuni casi autoreferenziale come uno spettacolo senza pubblico, o volgarmente plateale. Questi aspetti di declassamento del valore della politica sono avvertiti soprattutto dai giovani, la cui sensibilità è più vibrante, naturalmente più reattiva e meno viziata dall’assuefazione e dal cinismo degli adulti. Il loro allontanamento- così deplorato- dalla vita della polis è dovuto alla percezione di non esserne i referenti privilegiati o i destinatari più promettenti, al sentimento di distanza da quel mondo che li guarda dall’alto come un drone, specie se si mobilitano per cercare ciò che Canetti definiva la “scarica” della massa.
Ecco, i giovani suscitano interesse, o meglio paura, esclusivamente quando “manifestano”, quando tornano a partecipare, quando innescano conflitti e si riappropriano dello spazio urbano, che oggi è tutto (museo, caos, violenza, spazio iper-turistico) tranne che polis. A questo deficit educativo da parte dei rappresentanti politici si associa quello di guida e di esemplarità svolto dentro le pareti domestiche in conseguenza di quella che Massimo Recalcati, sulla scia di Lacan, definisce l’evaporazione dei padri: l’abdicazione cioè non al ruolo di principio repressivo (ghigliottinato dalla rivoluzione del ’68), ma a quello di simbolo della legge gettata nella psiche umana come esperienza del limite al desiderio.
Solo attraverso questo fondamento educativo il figlio potrà affrontare la ferita narcisistica e avviare una costruzione di crescita e di sensibilizzazione alla vita collettiva e al bene pubblico. Anche nella Paideia greca- pur nell’elitarismo di una civiltà eminentemente aristocratica- il focus del progetto educativo era la costruzione di un cittadino libero; la formazione era improntata a quello che potremmo chiamare l’umanismo dell’Ellade, cioè la definizione della vera forma dell’uomo. Il progetto paideutico greco muoveva non dal singolo, ma da una prospettiva meta-individuale sorretta da un’idea al di sopra dell’uomo-gregge.
Si trattava non semplicemente di un metodo educativo, ma di un obiettivo antropologico-culturale e di un fine socio-politico da perseguire lungo tutto il corso della vita. La rinuncia a questo progetto ( l’a-paideusìa) era considerata la causa di ogni fallimento sia personale che collettivo. E i padri che per avarizia non investivano sull’educazione dei figli risparmiando sui precettori, anche in età ellenistica verranno fortemente criticati, Plutarco li accuserà di indifferenza politica, oltre che familiare, riaffermando la connessione, già sostenuta da Platone, tra oikonomìa (ordine domestico) e ordine politico.
I padri svaporanti o svaporati di oggi e più in generale le famiglie pretendono invece di scaricare sulla scuola tutto il “pacchetto” educativo, come mossi dall’intento di esternalizzare anche la funzione di guida morale e politica esercitata di solito intra moenia. Si può svolgere in classe – e lo si deve fare sempre di più- tutta l’educazione civica del mondo, ma questo non basterà a educare alla cittadinanza attiva senza l’affiancamento di un lavoro in tal senso da parte delle famiglie, soprattutto in questi tempi di degrado del discorso politico e di fragilità nel rapporto tra pedagogia e politica.
La graduale, inesorabile delegittimazione della seconda le ha fatto perdere ogni fascino agli occhi del mondo giovanile, trascinando con sé anche la perdita di prestigio delle istituzioni educative. Solo ricostruendo la connessione tra paideia e polis, la civiltà occidentale contemporanea potrà rifondarsi nelle forme di un umanesimo moderno; solo ricollocando al centro della circolarità pedagogica l’umanizzazione della vita contrastando il circolo libidico-consumistico, la vita collettiva potrà essere di nuovo orientata e orientante. Solo rivalorizzando nella teoria e nella prassi i quattro pilastri della paideia indicati con passione vera da Jacque Delors (imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a vivere insieme, imparare ad essere) la Polis potrà sperare nella sua sopravvivenza.
Caterina Valchera – Docente, saggista