Il potere di esternazione del Capo dello Stato rappresenta un’attività nient’affatto estemporanea, ma una prerogativa che i costituzionalisti fanno discendere direttamente dalla Costituzione, in particolare dall’art.87, che consegna al Presidente della Repubblica il fondamentale compito di rappresentare “l’unità nazionale”.
Si tratta, se così si può dire, di una sorta di canale dialogico aperto con il popolo e diretto al coinvolgimento dei cittadini nell’attività presidenziale che dev’essere costantemente orientata a garantire il funzionamento delle istituzioni. Naturalmente ogni Presidente ha il suo stile, la sua cifra personale e la sua capacità empatica nelle esternazioni: abbiamo avuto in passato l’interventismo paleotelevisivo di Pertini e l’aplomb notarile di Leone, le picconate di Cossiga e l’approccio neo-patriottico di Ciampi, ognuno ha saputo interpretare con la sua personale sensibilità il ruolo che la Costituzione gli assegnava.
Anche Mattarella ha adoperato, e numerose volte, lo strumento dell’esternazione caratterizzando gli interventi per l’attenzione al catalogo dei principi fondamentali della Costituzione. Il Presidente ha sempre parlato in un’ottica che potremmo definire di “pedagogia democratica”, espressione cara al filosofo e pedagogista americano Dewey ma accolta da Calamandrei e Moro nel dibattito costituente per significare il dovere di chi è nelle istituzioni di esercitare con l’esempio e con l’ammaestramento un continuo richiamo ai principi fondativi dello Stato democratico.
Come altrimenti inquadrare l’intenso discorso di Brescia, nel cinquantenario della strage di piazza della Loggia, se non come un esempio di quell’accorato esercizio deweyano, denso di richiami alla responsabilità di ognuno nel farsi argine di fronte alla violenza fascista?
In questa stagione politica che sembra galleggiare sull’entropia della storia repubblicana adottando, come in un romanzo orwelliano, il sistema del conteggio del tempo politico a partire dall’arrivo dei vincitori, Mattarella ha detto quel che la Costituzione dice e che veniva ricordato da Moro – riferimento culturale e politico del Presidente – in un grande discorso alla Costituente del 13 marzo 1947: la nostra Carta è antifascista. Non “a-fascista”, come pure intendevano alcuni costituenti della destra liberale, ma deliberatamente “anti”, per affermare non solo “i valori di libertà e di giustizia sociale negati dal regime mussoliniano”, ma anche per scolpire principi che avrebbero dovuto prescindere dal contesto storico per affermarsi come essenza stessa della democrazia costituzionale.
L’intervento a Brescia del Presidente, ricco di pathos e di dolore per le vittime e le loro famiglie nella prima parte – con la scansione dei nomi di tutte le persone uccise dalla furia terroristica – diventa ammaestramento alle giovani generazioni nella seconda parte, facendo registrare una contabilità delle parole – chiave che racconta attraverso la semantica il suo progetto “pedagogico”.
La parola più ricorrente è “Democrazia”, che ricorre 12 volte, seguita da “Repubblica” (8 volte), da “Cittadini” e “Istituzioni” (7 volte), da “Verità”(6 volte) e da “Neofascisti-Eversione terroristica” (5 volte). Mattarella ricorda la strage di Brescia non per mero dovere della memoria collettiva, che pure è parte essenziale della storia sociale di un popolo, ma per dire che la democrazia e lo Stato sono più forti quando i principi sono condivisi dai cittadini: quegli anni settanta difficili furono anni di grandi conquiste sociali, di “grandi speranze ed idealità”, ma anche di violente reazioni da parte di chi vi si contrapponeva: “spinte eversive, tensioni violente, strategie destabilizzanti, talvolta con la complicità occulta e spregevole di uomini che violavano i doveri di fedeltà alla Repubblica”.
Il Presidente usa parole “forti” soprattutto per descrivere i traditori dell’ordine costituzionale, chi aveva (ma vale anche per l’oggi) responsabilità nell’ambito delle istituzioni democratiche e invece suo nemico: “Lo Stato democratico era il bersaglio dei terroristi, e lo Stato democratico non si identifica con complici, pavidi, corrotti, o addirittura infiltrati in apparati dello Stato per tentare di corromperlo all’interno”. A chi tradisce lo Stato si contrappongono i suoi servitori: i buoni magistrati, le forze dell’ordine, le pubbliche istituzioni, le forze sociali, i partiti democratici, i cittadini che hanno difeso e difendono la libertà e la democrazia.
Dunque l’antifascismo non può essere una specie di mantra consegnato ad un passato remoto, da richiamare nel corso delle celebrazioni dell’Associazione Partigiani, ma una dimensione coessenziale all’affermazione democratica.
Disse una volta Mattarella, in un discorso celebrato nel gennaio 2018, a proposito del nazi-fascismo: “Tutti i sentimenti erano brutalmente proibiti, tranne quello della paura”. Ecco una eccellente definizione che ci aiuta a comprendere quanto la pedagogia democratica dei nostri costituenti sia ancora necessaria.
Pino Pisicchio – Professore ordinario di Diritto Pubblico Comparato, già deputato in varie legislature, presidente di commissione, capogruppo, sottosegretario, saggista