Luciano Benadusi: La democrazia si salverà soltanto con la scuola. Se diventerà un polmone di formazione culturale, per la politica, la cittadinanza

La mancanza oggi di partiti- fucine di idee rende fragile la democrazia Narrazione di capitoli di storia politica di un grande intellettuale che ha sempre messo la scuola al centro della sua attività, prima nella Dc poi nel Psi. Semi-presidenzialismo alla francese? Non sono contrario ma ci andrei più cauto. Dopo la rivoluzione culturale del ’68 mi convinsi della necessità di porre fine alla unità politica dei cattolici. Il racconto di una esperienza sociale di una comunità costituita in una Borgata romana, Fidene

Oggi incontriamo Luciano Benadusi.

Già professore ordinario e attualmente professore onorario presso l’Università La Sapienza di Roma di Roma, è sociologo dell’educazione, un esperto dei problemi dell’educazione e della formazione, ha ricoperto l’incarico di vicepresidente del Formez e di presidente di Af Forum (Associazione per l’Alta Formazione) e ha svolto funzioni di consulenza per numerosi ministri dell’Istruzione.

È direttore di Scuola democratica, una delle più importanti riviste del settore. Ha pubblicato molti libri tra cui Equità e merito nella scuola, il ’68 e l’istruzione.Prodromi e ricadute del movimento degli studenti.

Una storia politica particolare, quella di Luciano Benadusi, uno spirito inquieto, un percorso di vita in cui la ricerca dell’affermazione delle proprie idee si è scontrata spesso con le logiche di partito.                                                                                                                                                                                                                È un giovane di 85 anni. Con le sue prime esperienze politiche partiamo da metà degli anni Cinquanta…

Il nostro colloquio interrompe la stesura di un articolo sull’analisi dei programmi dei partiti sulla Scuola per la consultazione elettorale del 25 settembre.

Partiamo da ciò che avevamo lasciato. Il convegno del Sestriere dell’agosto del 1957 di cui Luciano Benadusi era stato organizzatore, come responsabile del movimento studenti medi e relatore per il Movimento Giovanile Dc. Parteciparono da ogni regione d’Italia,  i giovani responsabili dei giornali di istituto e più impegnati nella vita della scuola. In quella occasione furono affrontati i temi che poi sarebbero stati affrontati dal centrosinistra con la riforme della scuola. Rileggere quelle idee, oggi, non è solo un tuffo nel passato ma riscontrare anche come quelle idee erano anticipatrici delle linee di movimento della società come una concezione democratica della scuola, il rapporto tra scienza e tecnica, una nuova cultura umanistica.

Volevo partire dal Sestrière. C’era un impegno giovanile molto forte. Come nasce il tuo impegno?

Nasce da un interesse alla politica insolitamente precoce. Determinante è stata una circostanza casuale: la finestra della mia camera da letto. Affacciava su una piazza romana dove durante le campagne elettorali si avvicendavano tutti i santi giorni comizi dei partiti in lizza. Quindi non solo questo suscitò un interesse precoce ma mi offerse l’opportunità di ricevere una formazione pluralistica. L’impegno è venuto un po’ di tempo dopo.

Il reclutamento dei giovani. Ho riletto  la tua relazione, molto innovativa, anticipatrice delle pulsioni del mondo scolastico rispetto alla evoluzione dei tempi, quei ragazzi che partecipavano agli incontri venivano,  come forma di reclutamento, dalla Giac, dalla Azione Cattolica. Nel tuo caso come avviene?

Non sono passato attraverso nessuna organizzazione cattolica. Traccio una breve storia della mia formazione politica. In famiglia gli input che avevo ricevuto erano lo “stai alla larga dai partiti” e orientamenti di stampo conservatore, fortemente anti-comunisti. Nei primi anni di frequenza delle superiori ne ero ancora influenzato.

Come molti dei miei familiari ero anti-comunista e avevo simpatie liberal-monarchiche, ma ascoltando quello che i fascisti dicevano e osservando quello che facevano, avevo almeno capito che sullo spartiacque tra fascisti e non fascisti, in quell’ambito allora il più importante, dovevo stare dalla parte dei secondi.

L’interesse per la politica si era poi rafforzato a mano a mano e le mie opinioni erano slittate verso sinistra. Frequentavo il liceo classico e seguivo con molto interesse un giornaletto studentesco scritto da compagni di scuola di orientamento prevalentemente laico e di sinistra, ma non comunista.

Le tue letture di quell periodo?

Nello stesso tempo mi appassionavano le letture di storia contemporanea, che avevo cominciato leggendo Benedetto Croce. Volevo capire meglio la politica contemporanea, visto che a scuola nessuno degli insegnanti ce ne parlava, non era nei programmi. L’impegno politico iniziò quando decisi di iscrivermi alla Dc e mi misi a lavorare nel settore studenti medi cercando di dare loro quello di cui sentivo la mancanza: un percorso di socializzazione politica. Avevo trovato nel partito non solo un incoraggiamento, ma anche un appoggio concreto e determinante.

Devo precisare che aderendo alla Dc avevo aderito anche ad una specifica area politico-culturale al suo interno. Se ne trovava più d’una.

A quale facevi riferimento?

All’area collocata a sinistra, cioè a quella che si distingueva per una maggiore sensibilità agli aspetti sociali, alla solidarietà, alla giustizia.

In quel tempo, nei primi anni Cinquanta, il riferimento era il dossettismo come cultura e quindi Dossetti, La Pira o altri?

Il mio riferimento era duplice. Da un lato il filone dossettiano allora rappresentato dalla corrente fanfaniana che da poco aveva conquistato la maggioranza nella federazione romana e avviato un processo di ricambio radicale del gruppo dirigente. A questa corrente apparteneva Paolo Cabras, il delegato romano del movimento giovanile. Fu lui ad attribuirmi l’incarico degli studenti medi e ad aiutarmi a portare avanti il mio progetto. E mi legò, da allora in avanti, a lui una grande stima e anche, quando le nostre strade si separarono, un sentimento di amicizia.

Dall’altro però, negli anni finali del liceo mi ero avvicinato alla cultura laica e alla sinistra liberale; ero diventato lettore incallito del Mondo, partecipavo con assiduità ai convegni che facevano gli Amici del Mondo. Tanto da avere avuto inizialmente qualche esitazione ad aderire alla Dc, perché la vedevo troppo poco laica rispetto alle mie posizioni.

Più marcatamente Cattolica, più confessionale?

Esatto. Però avevo trovato nella Dc, viva negli esponenti della sinistra di Base più che non nei fanfaniani, un’eco di questa mia sensibilità ad istanze di tipo laico e liberaldemocratico. Per questo ho parlato di adesione ad un’area politico-culturale che abbracciava l’insieme della sinistra, e non ad una specifica corrente.

A chi fai riferimento come personaggi della Base, ad Aristide Marchetti o a Nicola Pistelli?

Quello con cui ho avuto più presto contatti è stato il gruppo della Base di Roma, quindi Giovanni Galloni e chi lavorava con lui, come Adriano Paglietti, poi in seguito ho conosciuto e avuto rapporti con tutti gli esponenti principali, da Pistelli a Granelli, da De Mita a Misasi.

Raccoglievi subito consensi?

Sì, il mio progetto andò avanti e ottenne successo. Avevo fondato un’associazione di studenti medi che si chiamava Associazione Romana Studenti Medi (ARSM). Svolgevamo varie attività, ad esempio le domeniche facevamo proiezioni di film, in un cinema-teatro romano, invitando a parlare i registi, poi aprivamo la discussione ed erano spesso film dai risvolti sociali.

Quello è stato un forte momento di aggregazione?

Esatto, poi a seguito di quello, ed essendo state queste esperienze conosciute e apprezzate anche a livello nazionale, fui chiamato da Celso De Stefanis, non appena eletto delegato nazionale del movimento giovanile (1957 ndr), ad entrare nel suo nuovo esecutivo per dirigere il settore scuola e studenti. Cominciai così a occuparmi anche degli studenti universitari, aderendo all’Intesa universitaria, dove rappresentavo appunto il MG, e fui eletto membro dell’organismo rappresentativo della Sapienza.

Che ricordo hai di Celso De Stefanis?

Un ricordo emotivo, di grande affetto, accresciutosi per la sfortuna che purtroppo ha accompagnato gli ultimi anni della sua vita. E di stima intellettuale. Quando per raggiunti limiti di età Celso dovette lasciare la leadership del MG fu lui e gli altri membri dell’esecutivo nazionale a lui più vicini che mi candidarono alla successione. Apparteneva alla corrente fanfaniana ragione per cui scattò la logica delle correnti e alla mia candidatura si contrappose la candidatura di Andrea Borruso, proposta e sostenuta dalla sinistra di Base. E fui eletto.

Hai avuto parole di stima e di affetto verso Celso de Stefanis. Ad inizio anni Settanta condivise la scelta di Zamberletti, Ciccardini del Movimento Europa 70 in senso impropriamente gollista, ma presidenzialista e referendario, quale era la tua opinione?

Non ero contrario, allora non circolavano le tossine leaderistiche che oggi si sono propagate ed esistevano partiti veri, pluralistici, che agivano da veicoli di partecipazione democratica.

Adesso non sono a priori contrario se si tratta di semi-presidenzialismo alla francese, ma ci andrei più cauto. Sarebbe da inquadrare in una riforma generale delle istituzioni politiche, che comprenda l’attuazione dell’art.18 della Costituzione sui partiti, di cui quasi nessuno più parla, e la legge elettorale. Incombe lo spettro delle democrature.

Per quanto tempo hai ricoperto il mandato?

Per due mandati quadriennali. (Dal 1960 al 1968 ndr)

Dopo venne eletto Attolini?

Esatto.

Prima è stato fatto riferimento al contatto con la Base, con le vicende di Bergamo con Lucio Magri, Chiarante, che poi si allontanarono dalla Dc. Al tempo stesso si manifestano criticità con il veneto Wladimiro Dorigo.  Partecipasti al congresso di Firenze, quello della competizione tra Ernesto Laura e Boiardi, vinta dal primo con quattro voti di differenza?

No, avvenne prima del mio ingresso nell’esecutivo nazionale, prima dell’elezione di De Stefanis.

Come valutasti la rottura a sinistra con questi personaggi che poi confluirono nell’area del Manifesto, fuori anche dalla ortodossia del PCI?

A me fu raccontata. Se ne parlava molto. Guardavo a queste persone da un lato con ammirazione per il coraggio che avevano avuto e per la radicalitá delle loro posizioni, dall’altro però non ne condividevo le scelte. Ero allora convinto che ci fosse uno spazio, una opportunità, per delle posizioni di sinistra nell’ambito della Dc.

Per ricomporre attraverso una mediazione delle posizioni!

Puntavo sulla unità delle sinistre democristiane, non riconoscendomi appieno in nessuna di esse; da un certo punto in poi mi ero anche allontanato dalla corrente fanfaniana che ritenevo essersi involuta, snaturata. Condividevo insomma le critiche rivoltele da Corrado Corghi, uno dei suoi capi storici con cui ero in contatto. Ci tenevo a sottolineare che il MG si collocava sì nella sinistra, ma aveva una posizione autonoma e auspicava l’unità di tutta quell’area. Allontanatomi dai fanfaniani mi avvicinai a Carlo Donat- Cattin e alla corrente di Forze Nuove che trovavo la più agguerrita sul piano dei contenuti, in particolare I contenuti di politica sociale.

Chi ricordi di più di quella stagione al movimento giovanile che ha collaborato con iniziative, proposte, ecc.?

I miei collaboratori più stretti con cui c’era un contatto costante, si lavorava insieme quasi ogni giorno, erano Francesco Mattioli, che fu direttore della Rivista Per l’Azione ed è purtroppo morto prematuramente alcuni anni fa. E Giancarlo Perone, poi professore universitario di diritto del Lavoro, con cui ho tuttora un rapporto abbastanza intenso di frequentazione, ci incontriamo o parliamo al telefono abbastanza spesso anche per scambiare idee sulla politica attuale. Ma desidero citare anche Rodolfo Brancoli che si dedicò poi al giornalismo. E Carlo Fuscagni, benché avesse qualche anno più di me e quindi aveva fatto parte dell’esecutivo nazionale del MG nella delegatura precedente, quella di Celso De Stefanis.

Carlo Fuscagni (già nel 1957 pose il problema del MEC e dell’importanza della Rai tv come strumento di educazione democratica ndr) era già uscito dal movimento giovanile (dopo essere stato membro anche lui dell’esecutivo di Celso) per limiti di età, ma lo pregai di rimanere a lavorare con noi dirigendo la rivista ItaliaMondo.  Avevamo ben due riviste: una, Per l’Azione, era più ideologica e l’altra, per l’appunto Italiamondo, più politica. E aveva una periodicità maggiore, poteva quindi intervenire tempestivamente nei dibattiti politici.

E dei politici?

Se intendi quelli che hanno scelto di continuare nella strada politica, rimasi in contatto  per alcuni anni con diversi di essi. Faccio solo alcuni nomi: Guido Bodrato, Riccardo Misasi, Giuseppe Zamberletti, Pietro Padula, Giuseppe Gargani, Beppe Pisanu. Poi le nostre strade si separarono, a causa prima della mia uscita dalla DC e poi dell’abbandono della politica.

Hai partecipato agli importanti convegni di Faenza, organizzati da Achille Ardigò?

Sì partecipai più di una volta. Avevo un ottimo rapporto con Achille Ardigó, fu poi una delle persone che hanno influito sulla mia scelta scientifica verso la sociologia.

Hai fatto circolare in Italia testi scientifici provenienti da mondi e culture più lontani. Poi non hai scelto la strada politica. Hai preferito quella scientifica. Quella universitaria. Non credo che non ci fossero le condizioni per essere eletto in Parlamento.

No, in effetti le condizioni potevano esserci, sicuramente più che nel PSI al quale poi aderii. In realtà il mio impegno universitario fu per diversi anni parallelo a quello politico. Iniziò subito dopo la laurea quando divenni assistente di Massimo Severo Giannini,  il professore di diritto amministrativo con cui mi laureai. Furono lui e, come ho ricordato, Ardigò, le due persone che influenzarono la mia scelta per la sociologia. Giannini era un giurista, ma un giurista che non nascondeva di sentirsi anche un po’ sociologo. E dalla lettura dei suoi libri lo si capiva.

Lasciato il movimento giovanile per raggiunti limiti di età, dopo poco ci fu la crisi con la Dc Quale è stato il fattore scatenante?

È stata la rivoluzione culturale del ‘68. Mi spinse ad assumere posizioni più radicali rispetto a quelle avute fino ad allora e proprie ancora della sinistra Dc. Un elemento determinante è che mi convinsi della necessità di porre fine alla unità politica dei cattolici.

Del resto Il ’68 fu per me un tornante anche per un altro motivo: influì molto sulla mia vita e sul modo di pensare. Intrapresi infatti con la mia famiglia un’esperienza significativa sul piano sociale e in qualche misura anche su quello politico. Andai ad abitare insieme ad un gruppo di famiglie amiche e con un sacerdote, che era promotore e ispiratore di quell progetto, in una borgata di Roma, Fidene. Avevamo costituito una sorta di comunità non priva di una connotazione religiosa ma che faceva anche un lavoro sociale: interveniva sui problemi di quella borgata, dalla povertà all sicurezza stradale, dalla scuola alla lotta contro l’abusivismo edilizio. E istituimmo divenendone insegnanti un doposcuola serale per aiutare a recuperare gli studenti delle famiglie meno istruite che si trovavano in difficoltà negli apprendimenti scolastici.

Come si chiamava il sacerdote?

Si chiamava don Antonio Penazzi, era stato il fondatore e l’animatore di uno dei gruppi cattolici di base di ispirazione conciliare esistenti a Roma e che operava in un contesto abitativo diverso, di ceto medio istruito. Il sacerdote aveva poi deciso di portare avanti un progetto più radicale spostandosi in un contesto di povertà economica, culturale ed educativa. L’esperienza durò una decina d’anni fino alla sua morte.

Torniamo alla DC. Pensavi all’idea del secondo partito Cattolico?

Esatto. La mia idea era del secondo partito cattolico come primo passo, senza escludere che poi ci potesse essere una aggregazione più ampia con forze anche laiche. Ma la prima scelta era il secondo partito cattolico. In questa prospettiva che andava preparata si collocava la mia adesione all’ACPOL (Associazione di cultura politica) al seguito di Livio Labor, il presidente della ACLI. Restavo ancora democristiano, ma in una posizione piu defilata, più distaccata. Avevo mantenuto un rapporto stretto soltanto con Donat- Cattin.

Donat Cattin aveva guardato con favore alla nascita dell’ACPOL, anche perchè personalmente molto legato a Labor. Questo e le sue critiche alla DC mi fecero così sperare che avrebbe lui potuto assumere la leadership di una uscita di gruppo dalla Dc e della fondazione, insieme a Labor, del secondo partito cattolico.

Del resto, una tale ipotesi Donat- Cattin la riteneva non certa, ma possible. Tanto che arrivò finanche ad esplicitarla in un nostro convegno, nel quale fece la previsione che entro un certo termine temporale, (non ricordo quale indicò) probabilmente essa si sarebbe avverata. Poi qualcosa lo convinse che valeva la pena scommettere ancora sulla DC e non prese questa strada. Venne così meno l’ultimo aggancio che avevo mantenuto con il partito.

Poi ci fu la famosa riunione di Forze Nuove a Grottaferrata e Donat- Cattin si bloccò?  Forse  ci sono state pressioni esterne per bloccare l’uscita di Donat-Cattin per impedire la nascita del secondo partito cattolico?

Sì, esatto. Ho sempre pensato che ci fosse stata una forte azione persuasiva da parte di Moro.

Anche perché ci furono le elezioni anticipate del 1972 che agirono sui tempi su una possibile crescita  del movimento dei lavoratori.

Ci presentammo come MPL(Movimento politico dei lavoratori) alle elezioni del 1972 e io fui candidato sia a Brescia-Bergamo (in quella lista di MPL c‘era anche un giovane, Savino Pezzotta ndr) sia a Roma dove si candidavano altre due persone non come me provenienti dalla DC, ma con le quali mi ero molto legato già nella fase dell’ACPOL: Gennaro Acquaviva e Luigi Covatta.

Tu sai bene la storia come finì: in una bolla di sapone. Quindi rimasi con Labor anche nella successiva scelta di aderire al Partito Socialista. Anche perché avevamo intessuto nell’ambito dell’ACPOL uno stretto rapporto con Riccardo Lombardi ed è stata anche la prospettiva di   rafforzare le posizioni della sinistra lombardiana a convincerci di aderire al partito socialista.

La vostra è stata sempre una presenza di qualità con Covatta, Castellani a Torino anche gli altri come Franco Marini, Vito Riggio, D’Antoni, Cocilovo che hanno seguito altri percorsi ma si sono affermati politicamente.

Anche Carniti era stato una presenza molto importante. Nel Psi mi sono ritrovato dopo molti anni in linea con le mie simpatie giovanili per la sinistra laica e non comunista e ho imparato molte cose importanti grazie alla vicinanza a persone di grande statura intellettuale come Lombardi, Giolitti, Ruffolo (con il quale avevo lavorato per anni alla programmazione economica), Amato.

Come cominciò la fase di disamoramento della politica attiva?

Dopo una quindicina di anni o poco, questo processo. Fui presentato candidato al Senato nelle elezioni del 1987 nel collegio del Molise dove nelle elezioni precedenti era stato eletto un socialista molisano come candidato unitario della sinistra. Anche io fui candidato unitario della sinistra: l’unico modo per battere la DC in una regione dove era di gran lunga il partito più forte. Però toccai presto con mano durante la campagna elettorale l’ambiguità del mio partito nel quale una larga parte della dirigenza locale faceva solo finta di appoggiarmi, perché evidentemente temeva che la mia elezione avrebbe sconquassato la struttura clientelare che avevano da tempo costruito.

Più leali i comunisti, per i quali ero un candidato interessante in quanto appartenente alla sinistra socialista, non irretito in quel sistema clientelare e per molti aspetti vicino alle loro posizioni. Perciò meritevole di appoggio. A pochi giorni dal voto la doccia gelata: Craxi chiarì senza veli che il PSI avrebbe ricostituito l’alleanza con la DC, alleanza che si pensava si fosse invece seriamente incrinata da quando la DC aveva fatto cadere il governo Craxi e determinando la rottura con I socialisti e lo scioglimento della Camere.

Si era aperto perciò uno spiraglio per la fine di quella che Amato e Cafagna avevano chiamato nel titolo di un loro libro Duello a sinistra. La chiusura di quello spiraglio rappresentò per i comunisti molisani uno scossone, si ridussero così anche i loro voti a mio favore. Non fui eletto, tornò a vincere la Dc.

Pensai allora che non aveva senso continuare a profondere energie nella politica attiva, meglio impegnarmi più a fondo nell’università e nella ricerca scientifica, un contesto nel quale mi sentivo decisamente più a mio agio.

Questo momento di crisi quando avviene?

Avviene appunto nel 1987 quando sfumó del tutto la prospettiva della unità della sinistra. (Nei primi anni Ottanta Luciano Benadusi ha diretto la sezione Scuola del PSI. Le sue pregevoli relazioni, le sue proposte, le sue iniziative possono essere consultate e recuperate tra le carte di Bettino Craxi della fondazione Craxi accessibili sul sito del patrimonio storico del Senato della Repubblica. (ndr)

Lasciare significa non impegnarsi più, ma mantenere un collegamento personale con Covatta, Acquaviva ed altri?

Certamente. Non lasciai il PSI, continuai per alcuni anni a viverne la vita ma a basso regime, uscito dai suoi organi di governo e abbandonata anche la direzione del settore “Scuola e Università”. Rimasi invece attivo attorno alla rivista Mondoperaio con cui da tempo collaboravo considerandola una importante fucina di idee. Rimase però forte il collegamento con le persone che tu hai citato e anche con altri, avendo tra i maggiori esponenti del partito come principale punto di riferimento Giuliano Amato.

Ero rimasto deluso da Craxi, che non avevo votato quando assunse la segreteria (avevo votato per Giolitti), del quale però avevo poi apprezzato alcuni aspetti della leadership nel partito e della sua presidenza del Consiglio. Fui deluso soprattutto perchè era restato troppo a lungo legato all’alleanza pentapartita facendo naufragare per sempre la prospettiva dell’unità a sinistra e dell’alternativa.

Poi, esploso lo scandalo di Tangentopoli, pensai (illusoriamente) che il PSI si poteva forse salvare da quella travolgente crisi – divenuta, oltre che politica, morale e perfino giudiziaria – soltanto con un grande ricambio dei gruppi dirigenti e un diffuso rinnovamento nei comportamenti specialmente in periferia. Ero perciò entrato a far parte di quella costola della sinistra interna guidata da Valdo Spini che era fautrice appunto di un grande rinnovamento anche morale. E si era staccata da Signorile, il leader della corrente di sinistra un tempo fondata da Lombardi, e da quanti erano rimasti con lui a far quadrato insieme alla corrente craxiana. A mano a mano sopravvenne poi la sfiducia di fondo nella possibilità che la crisi del PSI potesse essere arrestata e quindi me ne andai silenziosamente. Per la verità, me ne andai io dal PSI e nello stesso tempo, dissolvendosi, se ne andò lui da me.

Senza clamori senza sbattere la porta. Con molta signorilità.

Sì, molti lo stavano facendo.

Di questi grandi leader Dc che hai conosciuto negli anni Cinquanta, Moro che figura era? Come li guardavi, come li vedevi?

Sentii molto il fascino di Moro. Con Moro noi del MG avevamo stabilito un rapporto forte ma di sostegno critico. Eravamo affascinati culturalmente da lui. Nello stesso tempo eravamo critici. Pensavamo che il centro sinistra nel quale avevamo tanto creduto, l’apertura a sinistra era stato il mio sogno nella seconda metà degli anni ‘50, aveva subito uno svuotamento a causa del moderatismo presente nella DC. La  nostra parola d’ordine su cui si era impegnata soprattutto Per l’Azione si chiamava “seconda ondata”. La prima ondata del centrosinistra era avvenuta nel segno di Fanfani e di Moro, poi ce ne doveva essere una seconda più coraggiosa e speravamo che lo stesso Moro se ne facesse promotore ed artefice.

E invece?

Questo non avvenne!

Comunque avevo un ottimo rapporto personale, lo apprezzavo molto anche sul piano umano. Quando lasciai la DC mi dispiacque anche per lui, Moro, perché immagino che quando seppe della mia lettera di dimissioni ne sia rimasto dispiaciuto. L’ avevo inviata alla segreteria del partito, non ricordo se anche a lui per conoscenza.

Che anno era?

Era poco dopo il ‘68!

Era il momento in cui Moro si era spostato a sinistra polemizzando con i Dorotei! Come è stato il ’68? A oltre mezzo secolo possiamo esprimere un giudizio? Ha portato democrazia, molte conquiste per gli studenti nelle scuole e nelle Università ma…?

Non tutto è andato bene. Ho curato con altre due persone un libro sul ’68 e l’istruzione, pubblicato on line da Guerini. Un libro collettaneo, a più voci.

Moro ha sofferto molto il ’68. Soprattutto nei suoi scritti e nei suoi discorsi si avverte un tormento verso il mondo giovanile, una attenzione per capire le pulsioni delle generazioni  universitarie.

È vero. Si, ci teneva molto. Noi tenevano al rapporto con lui, e lui teneva molto al rapporto con noi. Sapevo che era molto attento come professore al dialogo con gli studenti, e anche come politico al dialogo con i giovani. Di recente ho conosciuto, è un sociologo anche lui, il figlio di Moro, Giovanni, e gli ho confessato quel senso quasi di colpa che avevo verso suo padre, e solo verso di lui, per avere lasciato la Dc.

Qualcuno di Piazza del Gesù dopo la lettera si è fatto vivo?

No!

Aggiungo che ero molto legato anche ad alcuni amici di Moro, in particolare a Franco Salvi, pure lui davvero una bella persona.

Il personaggio più vicino  a Moro! 

Sì, infatti.

Hai partecipato come delegato nazionale Dc dal 1960  al 1968 a otto anni di intensa  vita politica tra direzioni, consigli nazionali e congress. Cosa ti resta di quei momenti (ho contato 64 riunioni) anche rispetto ad altre esperienze politiche? Che cosa resta di quei confronti sia di  Piazza del Gesù così come di quelli in via del Corso o all’ACPOL?

Un abisso rispetto ai dibattiti che si vedono oggi in TV e nei social: il pluralismo delle idee è stato sostituito dal leaderismo e dalle echo chambers. Nella DC si confrontavano alla pari grandi leader e con un rispetto (fosse pure solo formale) reciproco. Nel PSI all’inizio della mia esperienza era ancora così: pluralismo, forse un po’ meno di rispetto, ma un po’ più di sincerità. A mano a mano assistetti poi all’affermarsi sia dell’unicità della leadership, “l’uomo solo al comando”, sia della “politica spettacolo”. Ricordo anche la ricchezza dei dibattiti nei convegni culturali come quelli di San Pellegrino nella DC. E nel PSI il lavoro collegiale e le animate discussioni sul Progetto socialista, a partire dalla bozza che aveva redatto Giuliano Amato con la mia collaborazione.

La politica rispetto agli anni Cinquanta oggi come la possiamo vedere? I giovani non frequentano più niente rispetto a quel dinamismo culturale,  quel confronto politico così intenso che c’era, anche aspro, quelle polemiche tra Malfatti e Zangrandi, tra le riviste Per l’Azione e Rinascita e oggi? Che c’è?

Oggi c’è una desertificazione!

Che possiamo fare?

Quando mi hai chiamato stavo scrivendo un articolo, che darò perchè venga pubblicato sulla rivista della Fondazione Astrid: un’analisi critica (e qua e là propositiva o contro-propositiva) sui programmi elettorali dei partiti sulla scuola. A fronte dei miei numerosi cambiamenti di collocazione politica ho avuto una costante: mi sono sempre occupato di educazione, politicamente e scientificamente.

Tutti i programmi, quale più e quale meno, hanno qualcosa di populista ma non è un populismo per amore, è un populismo per forza. Perché? Perché quello che è venuto a mancare rispetto agli anni della prima repubblica sono i partiti democratici, oggi ci sono, con qualche eccezione, solo dei partiti personali e si ricorre necessariamente al marketing e al populismo.

Quando c’erano dei partiti veri, i loro uffici scuola erano fucine di idee, luoghi di elaborazione di programmi e prese di posizione, centri di alfabetizzazione politica degli elettori. Vi lavoravano gomito a gomito i parlamentari e gli esperti e si coinvolgevano in qualche misura anche gli operatori sul campo. Non come fanno gli pseudo-partiti di oggi, costretti dalla loro debolezza a vellicare gli interessi più superficiali e particolaristici degli elettori pur di strapparne i voti.

Con gli operatori sul campo anche quelli che vivevano la scuola.

Queste elaborazioni che avvenivano negli uffici scuola poi venivano disseminate e messe altresì a confronto con la varietà delle situazioni locali attraverso la rete degli uffici scuola periferici. Anche l’associazionismo che si riuniva ed era presente sulle tematiche erano mondi vitali che si muovevano. Aggiungo che adesso i programmi vengono appaltati ad agenzie di comunicazione! È la costruzione stessa del programma che viene deformata!

I partiti personali sono organizzazioni di marketing politico.

Nella relazione del ‘57 c’era un riferimento al superamento della scuola prussiana, mettere al centro l’uomo, settanta anni fa c’erano pulsioni che in parte sono state recepite con le riforme degli anni Sessanta.

Sì il riformismo degli anni SESSANTA aveva dato delle importanti risposte: innanzitutto la riforma della scuola media del ‘62, che è stata un po’ la madre della riforme successive. Non a caso i conservatori di oggi, ad esempio Mastrocola e Ricolfi, fanno risalire ad essa, una riforma voluta soprattutto dal PSI e dalla sinistra DC, l’origine dei tanti disastri che sarebbero stati introdotti dal riformismo scolastico da allora ad oggi.

Quanto mancano i partiti politici alla società di oggi?

È una mancanza gravissima che intacca la stessa tenuta della democrazia perché la democrazia alla lunga non regge se non c’è questa funzione di alfabetizzazione politica e di formazione della classe dirigente che un tempo era assolta dai partiti.

Sempre di più si evidenzia che dove esiste una larga parte dell’elettorato politicamente analfabeta e culturalmente deprivato, come in Italia, un elettorato dove l’ignoranza della politica e più in generale il basso livello culturale sono così diffuse (siamo il penultimo paese dell’Europa come livelli di istruzione della popolazione adulta misurati con l’indicatore dei laureati) la democrazia é costitutivamente fragile.

Il cittadino si trova messo di fronte a problemi e linguaggi per capire i quali sarebbe sempre più necessario disporre di un retroterra culturale. Quindi cadono nelle trappole della demagogia e della manipolazione. Sarebbe perciò ancora più importante di prima che ci fossero degli attori sociali, come erano I partiti di una volta, che svolgono questo ruolo di mediazione.

Il discorso va poi, oltre che ai partiti, alla scuola. La mia tesi è che la democrazia si salverà soltanto se la scuola diventerà un polmone  di formazione culturale per la politica, per la cittadinanza, per la democrazia. Quindi se l’educazione alla cittadinanza diventerà una della sue missioni prioritarie.

In che modo può farlo? Una scuola “aperta”?

Dovrebbe essere una scuola a tempo pieno nell’ambito della quale,  non solo ci dovrebbe essere un insegnamento specifico di educazione civica, magari con numero maggiore di ore rispetto alla miseria attuale, ma che tutte le discipline, a cominciare dalle quelle più vicine alla tematica politica, fossero coinvolte in questo senso, cioè facessero  educazione alla cittadinanza così come educazione linguistica ed educazione cognitiva trasversalmente. Come tutte le discipline dovrebbero condividere il compito di sviluppare e valutare la padronanza della lingua cosi tutte dovrebbero concorrere a formare le competenze della cittadinanza democratica.

 

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