Le due culture: chiose a un maestro, Ivano Dionigi

La lettura, qualche settimana fa, su questo giornale di un articolo di rara perspicuità a firma del Prof. Ivano Dionigi sul tema delle due culture, mi ha mosso a qualche ulteriore considerazione sullo stesso argomento. Il mio approdo, non sembri questo mio un retorico cleuasmo, è avvenuto dopo una navigazione di piccolo cabotaggio e in acque troppo limacciose rispetto alle limpide profondità della prosa del grande latinista pesarese. Che cosa aggiungere, dunque, a quanto già enucleato da Dionigi sulla questione? Semplicemente qualche riflessione, che ritengo non superflua per un lettore meno complesso e sperimentato di lui.

Dionigi: "La politica vaga nel buio, svegliamoci. Prima dell'irreparabile" - la Repubblica

Ivano Dionigi

Parto da una citazione di Dionigi dal nostro dettato costituzionale, in cui la Commissione costituente – 556 deputati in totale, di cui appena 21 donne – volle inserire la clausola secondo cui “la Repubblica promuove la ricerca scientifica e tecnica”. La stragrande maggioranza dei deputati, circa il 94 per cento, erano laureati con alle spalle studi giuridici; estremamente minori le percentuali di lauree in Lettere o Filosofia, seguite da Economia e Commercio, Medicina, Agraria e alla fine un numero sporadico di laureati in discipline come Matematica, Fisica e Ingegneria.

In effetti, fino alla fine dell’800 e agli inizi (decade più decade meno) del ‘900, gli studi largamente dominanti erano quelli umanistici, contro una estrema minoranza di “addetti ai lavori” in discipline comunemente definite “scientifiche”. Facevano capo a istituzioni che si chiamavano Specola (vaticana e patavina), Ragazzi di Via Panisperna, Politecnici, Normale e molti altri ancora, certuni anche risalenti al Rinascimento e altri sorti nel secolo dei Lumi. Resta però il rapporto completamente squilibrato a sfavore degli “scientifici”; almeno fino a che quelli del Trivio (storicamente grammatica, retorica e dialettica) non pretesero, con ragione, che anche le loro discipline e la loro produzione fossero annoverate nell’ambito “scientifico”, che divenne così sinonimo di universitario, sia che fosse riferito a bellettristi e legulei sia a fisici quantistici o matematici puri.

È ben vero, come ha ricordato il professor Dionigi, che la “formazione circolare”, dall’età classica al Novecento, comprendeva studiosi e cultori di entrambi quei versanti. Basta però considerare la percentuale di laureati in discipline umanistiche per rendersi conto della disparità di preparazione rispetto a chi segue corsi di studio tecnico-scientifici. Le materie umanistiche, come è evidente, se affrontate con impegno e spirito adeguati alle loro finalità professionali possono essere di estrema serietà e complessità: linguistica, Letteratura latina, Archeologia, Filologia del mondo antico, Traduttologia e molte altre discipline non avrebbero ragion d’essere se non studiate in modo adeguato. Ma allora, quale potrebbe essere oggi, a quasi un quarto del percorso temporale del XXI secolo, lo stato dell’arte dello studio, della scienza e della tecnologia?

Il dissidio tra Trivio e Quadrivio (storicamente aritmetica, geometria, astronomia e musica) esiste ancora? Io credo di no. Non perché sia stata superata la dicotomia tra “le due culture”, bensì per la distanza tra le potenzialità dello scibile nelle sue immense articolazioni e i loro destinatari di base, gli studenti. Ciò è ancora più palmare se si compara la distanza tra uno studioso come Dionigi (ora, non me ne vorrà, tolto a esempio con valore statistico) e uno studente preso a caso tra uno qualsiasi dei Licei classici d’Italia; studenti che secondo dati ISTAT di pochi giorni fa sono scesi a uno sparuto sei per cento (arrotondamento per eccesso).

Si dirà che ho fatto una constatazione tanto ovvia da essere offensiva: come si può paragonare un preclaro classicista dalla vita consacrata allo studio a un discente alle prime armi? Vista così, sarebbe solo un’assurdità. Quel che io intendo, però, è altro. Voglio dire – anche basandomi sull’esperienza da me fatta per alcuni anni come docente universitario, ancorché non “incardinato” – che nella cartella di ogni studente non c’è più, da lungo tempo, l’ambizione e forse il sogno di un possibile attestato di libera docenza (oggi Dottorato) e ancor meno il tocco da Magnifico rettore, così come nello zaino di ogni soldato napoleonico si sarebbe trovato il bastone di Maresciallo di Francia.

Oggi eccezioni a parte, statisticamente poco significative, in quella cartella c’è il vacuo. Al massimo, sempre che giunga a completare il corso di studi (cosa sempre meno frequente), ci si trova un pezzo di carta da appendere incorniciato al muro e sotto al quale, diceva il celebre attore siciliano Angelo Musco, “s’havi addumari a lampa”, ossia ci si può accendere un lumino, inutile come il diploma stesso.

Nel suo articolo Dionigi scrive che il nostro è un paese squilibrato, che dopo aver fatto pendere la bilancia tutta dal lato umanistico, sino agli anni Sessanta, oggi “è tutto asservito al monoteismo tecnologico” che penalizza gli studi classici e umanistici, con la duplice accusa che sono “conservatori e inutili”. È vero. Se ci si perde nel labirinto di nozioni vuote e inapplicabili, senza cogliere non “il filo rosso” ma l’intreccio di fili rossi che rendono principi ed enunciati l’uno funzionale e solidale con l’altro, allora che senso ha far arrostire a fuoco lento un povero studente sulla graticola degli aoristi, dell’essenza del romanesimo, dei trimetri giambici scazonti, delle Vite parallele, della Vita nuova, degli Atomisti, di Passeri (solitari o della quadrantaria Lesbia alias Clodia) e di migliaia di altre nozioni che, slegate, sono solo un inutile fardello, che per un periodo più o meno breve ha ingolfato la memoria “cache” del suo cervello.

A differenza però dal professor Dionigi, che, nonostante tutto, pur riscontrata l’attuale prevalenza della tecnologia e dell’utile che ne può derivare riesce a scorgere un recupero e forse il riscatto finale dell’umanesimo, io non riesco ad avere una visione ottimistica. Soprattutto non mi riesce neanche di vedere la prevalenza della tecnica, ma quella di un vuoto sostanziale. Vuoto di curiosità, di sfida, di impegno, di resistenza e (parola antipatica perché iperusata, ma qui necessaria) di resilienza. Non mi sembra, per quanti sforzi io faccia, di vedere una lotta tra Gog e Magog (della philotechnìa) contro il Logos, che per la virtuosa azione di Kairos (della philoanthropìa) alla fine prevale.

In questo enorme vacuum si aggirano miriadi di esseri dimidiati, che nulla sanno né vogliono sapere di cultura anche come fomite di virtù, legalità, condivisione, solidarietà. Alcuni di loro, credendo di staccarsi dall’agglomerato di puntolini rappresentati dai loro simili, si spingono su terreni scabrosi quanto ostici e complicati. Ed ecco che nascono teorie bislacche e persino religioni del tutto inverosimili: Scientology, i Pastafariani (che si riteneva fossero una parodia burlesca in opposizione ai creazionisti, ma una parte dei quali hanno invece reso noto che la loro è una vera teosofia), i Terrapiattisti, i propugnatori del Grande complotto cosmico, i teorici dei Cloni e/o dei Sosia, i Negazionisti globali (dal Medioevo, alle spedizioni sulla Luna, all’esistenza dell’Australia), i Rettiliani, e via farneticando. Gente che in mancanza di conoscenze solide e coerenti investe il proprio tempo e risorse economiche anche cospicue in cose che non possono non qualificarli come mentecatti.

Mentre però tesi e teorie del genere cui ho appena accennato sono, al netto del ridicolo, abbastanza innocue, o meglio danneggiano essenzialmente la credibilità e le finanze solo di chi le sostiene, innocui invece non sono, fra le diverse varianti, due mainstream che investono due sfere molto importanti anche dal punto di vista epistemologico, sebbene i guasti che fanno tocchino àmbiti molto distanti tra loro. Mi riferisco alla medicina e alla musica.

Oltre agli effetti disastrosi del Covid su tutto il pianeta, si sono dovute subire anche le confutazioni “scientifiche” di persone squalificate e destituite di credibilità, che ormai da anni confrontano centinaia di esperti virologi, infettivologi, biologi e altri scienziati, che nei più diversi centri di ricerca mondiali combattono contro la pandemia, non senza contraddizioni, polemiche e contrasti tra di loro. Ma mentre si dà per scontato che la medicina non è una scienza esatta e spesso non è in grado di basarsi su dati inconfutabili e obbligatoriamente condivisi tra i ricercatori, è davvero una caratteristica del nostro tempo riscontrare interventi e prese di posizione in opposizione a questo o quello studioso, da parte di chi – complici alcuni media in malafede, capaci solo di alimentare sterili polemiche – senza nulla sapere di argomenti spesso ostici per gli stessi specialisti del campo, pensa di ridurre una emergenza sanitaria come l’attuale a una operazione politica.

Chissà perché di questioni mediche esistono legioni di sedicenti esperti, mentre nessuno si azzarderebbe mai ad attaccare in un dibattito televisivo un fisico nucleare o un esperto di papirologia greca.

Passando all’altra questione, mi chiedo: è lecito parlare di musica, in senso lato, pensando non a quella cosiddetta colta ma a ciò che si sente in molte radio private, in spettacoli dal vivo e in rassegne e festival, di cui quello per antonomasia si svolge, da più di 70 anni, a Sanremo? Non è questione di passatismo, come forse potrà sembrare alla maggioranza dei miei ipotetici 40 lettori, ma di riscontri.

Se gli elementi musicali minimi sono tre, melodico, armonico e ritmico, ai quali, nelle canzoni, si aggiunge un testo cantato, che senso ha parlare di canto se tre quarti dei brani oggi circolanti sono del genere rap o trap e in lingua inglese, peraltro incomprensibile ai più? E se anche in quelli presentati al Festival sanremese, obbligatoriamente in italiano, mancano di fatto la melodia e l’armonia? “Pezzi” che si riducono a una specie di recitativi sincopati, in gran parte inintelligibili; o perché bisbigliati o perché sbraitati da voci che, esplodendo (per così dire) l’accompagnamento vorrebbero sopraffarlo, col risultato che la gara si trasforma in chi produce più decibel.

Il Trivio e il Quadrivio, dunque, si perdono, sfociando entrambi in una palude fatta di nulla; nella quale, come per le discipline umanistiche, si ripropone anche per quelle “scientifiche” lo stesso esiziale quesito, come per tutto lo scibile di base destinato alla scuola: che senso ha imporre allo studente “tipo” (ossia a una sorta di individuo mediano fra tutti i ragazzi che frequentino un istituto superiore) lo studio di funzioni matematiche, meccanica quantistica, cinetica chimica, astronomia se poi non le applicherà in una professione legata a quelle discipline?

Senza andare tanto in profondità, quanto avrà ritenuto degli studi fatti un laureato in Chimica farmaceutica che dovesse preparare un farmaco galenico, dopo che per vent’anni ha fatto in pratica il “commesso di lusso” in una farmacia? Certo è che, di questo passo, si potrebbe abolire lo studio di quasi tutte le materie. E infatti, queste, sono solo domande provocatorie destinate a non avere risposta.

In conclusione, sempre in chiave provocatoria, c’è forse una ridondanza di programmi di studio sia per il letterato sia per lo scienziato. E non è impossibile – Dio ci liberi! – che, come un tempo, solo i ben nati dei ceti affluenti potranno dedicarsi agli studi umanistici e alla ricerca, al limite in virtù di una formazione da autodidatti, eccetto poche eccezioni, appannaggio, quasi esclusivamente, dell’industria privata. Per gli altri, forse, più che al prosieguo del liceo in un’aula universitaria potrebbe essere meglio pensare a una attività da manzoniano “vile meccanico”.

 

Carlo GiacobbeGiornalista, già docente universitario di Letteratura portoghese

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