La verità scomoda sull’assassinio di Renata Fonte, 41 anni fa. Quando i fatti smentiscono le favole

La storia di un’assessora uccisa il 31 marzo di 41 anni fa a Nardò, perché si batteva peer salvare il Parco di Porto Selvaggio. Interessi di speculatori su quel quel parco portarono al delitto. Ancora ignoti i mandanti. C’è chi parla di mafia c’è chi ha altre tesi

C’è chi ancora oggi, quarantun’anni dopo, preferisce raccontarsi la favoletta dell’omicidio “semplice”, del pazzo isolato, dello squilibrato Spagnolo (morto a 92 anni) che si sveglia una mattina e decide di far ammazzare una assessora comunale. Come se Nardò fosse un’isola felice immune da infiltrazioni mafiose, come se la Sacra Corona Unita fosse un’invenzione dei magistrati con troppa fantasia e come se le sentenze definitive fossero semplici opinioni da bar sport, da accettare solo quando fanno comodo.

D’altronde, si sa, in questo meraviglioso Paese i processi si celebrano più volentieri nei talk show che nelle aule di tribunale, e la verità è un optional che si può tranquillamente sacrificare sull’altare della convenienza politica.

La cronaca di un sacrificio annunciato

“Verso le ore 23.50 del 31 marzo 1984 il Commissariato di Polizia di Nardò fu informato che nella Galleria ‘De Benedittis’ giaceva in terra una persona, presumibilmente colpita da proiettile, spirata durante il trasporto in ospedale.” Così inizia, con la freddezza burocratica tipica delle carte processuali, il capo d’imputazione nella sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Lecce per l’omicidio di Renata Fonte. Come se si trattasse di un “incidente” qualunque e non dell’esecuzione mafiosa di una donna che aveva osato dire “no” al malaffare in salsa salentina.

La vittima era Renata Fonte, assessore alla cultura del Comune di Nardò, ed era reduce proprio da un Consiglio comunale: nel rientrare a

Rocco Gerardi

casa veniva freddamente uccisa con tre colpi di pistola calibro 7.65 che l’avevano raggiunta al collo, al braccio sinistro e alla regione mammaria.

A Nardò, immediatamente dopo l’omicidio, si radunò l’intero gotha investigativo locale: il Dr. Rocco Gerardi dirigente del Commissariato di Polizia di Nardò, il pretore e il sostituto procuratore, in uno  di quei conciliaboli che in Italia segnano l’inizio delle indagini. Qualche minuto prima del rinvenimento del cadavere – guarda caso, che tempismo! – alla redazione leccese del Quotidiano arrivò una telefonata misteriosa che annunciava l’uccisione di un esponente politico neretino e indicava il luogo.

Un classico della strategia mafiosa: confondere le acque già nei primi minuti. Gli inquirenti, confrontando gli appunti, capirono che qualcosa non quadrava: i dettagli non combaciavano, c’era un evidente tentativo di sviare le indagini. Mancava solo la scritta al neon “Qui c’è lo zampino della mafia” per renderlo più chiaro.

Porto Selvaggio: il cuore della questione

Porto Selvaggio è un’oasi incontaminata di pineta e macchia mediterranea che diparte da Santa Caterina e sale verso nord, in agro del Comune di Nardò. Luogo di incomparabile bellezza, creato Parco naturale nel 1980, dal 2006 comprende anche la Palude del Capitano: oltre mille ettari di terreno sottratti alla cementificazione selvaggia.

Ma questa è anche la storia di una donna forte, tenacemente legata alla sua terra e al proprio ruolo di assessore, in un decennio di potere. La storia di un omicidio, quello di Renata Fonte.

Peccato che la sentenza della Corte d’Assise di Lecce, confermata in Appello e Cassazione, racconti tutt’altra storia. Una storia che alcuni preferiscono non leggere, forse perché fa troppo male ammettere che anche nella “tranquilla” Nardò si poteva – e si può – morire per aver detto no al malaffare.

Porto Selvaggio

La verità processuale e i mandanti occulti

La verità processuale è cristallina: Renata Fonte fu uccisa perché rappresentava un ostacolo. Un ostacolo a cosa? Alla speculazione edilizia su Porto Selvaggio, certo. Ma non solo quella zona specifica – come alcuni vorrebbero far credere per minimizzare, nella loro infinita capacità di trasformare un elefante in una formica quando conviene – ma tutto l’habitat naturalistico costiero del territorio neretino. Strano, vero? Una donna viene ammazzata perché difende un parco naturale, eppure alcuni illuminati analisti locali continuano a chiedersi se non sia stata solo una “sfortunata coincidenza”. Come se i sicari andassero in giro a sparare a caso agli assessori che incontrano per strada.

Nel breve volgere di qualche giorno il cerchio si stringeva attorno ai due presunti esecutori materiali e a quelli rimasti a partire su altri livelli, fino a profilare i termini di un “irresponsabile bis”. La tesi dei mandanti già in quell’inchiesta dell’84 profilava l’esistenza di un “quarto livello” oltre Spagnolo. Chi erano? La magistratura non è riuscita a individuarli, ma la loro esistenza è data per certa.

Il processo dinnanzi alla corte d’Assise di Lecce iniziò il 12 gennaio 1985 per concludersi dopo un anno esatto, il 12 febbraio 1986. A comporre il Collegio di difesa un manipolo tra i professionisti più noti della avvocatura salentina.

Renata Fonte

Il contesto mafioso scomodo da riconoscere

E qui viene il bello. O il brutto, dipende dai punti di vista. L’omicidio Fonte avviene nel 1984, proprio mentre la magistratura ha cominciato a scoprire l’esistenza della Sacra Corona Unita grazie alle indagini del magistrato Maritati. Una coincidenza temporale che ha impedito di inquadrare subito il delitto nel suo giusto contesto mafioso. Ma chi era l’esecutore materiale? Pippi Durante, considerato elemento di spicco della SCU. Quella SCU che qualcuno vorrebbe far credere non esistesse a Nardò.

Il Ministero dell’Interno – che, con buona pace dei tuttologi laureati all’Università della Chiacchiera da Bar – nel 2002 ha riconosciuto ufficialmente Renata Fonte come vittima di mafia. Eppure, miracolo italiano, c’è ancora chi preferisce crogiolarsi nel “minimalismo retorico” del “siamo un paese tranquillo”, dimenticando con amnesia selettiva degna di studio scientifico gli anni del terrore: le lupare bianche di Inguscio e Rapanà, gli omicidi: Vaglio, Grillo, Filieri, Calignano, le esplosioni di serrande, vetture, ferimenti, minacce. Ma si sa, negare l’evidenza è lo sport nazionale in un Paese dove si preferisce credere alle favole piuttosto che affrontare scomode verità. D’altronde, chi siamo noi per contraddire chi sostiene che la Terra è piatta o che le mafie esistono solo nei film di Gomorra?

 

 

Un omicidio politico-mafioso

La sentenza ricostruisce in maniera impeccabile la dinamica dell’agguato: l’esecuzione materiale da parte di Pippi Durante seguito dal suo complice My — per mandato del loro intermediario (Cesari Antonio) — e il coinvolgimento del “Politico” Spagnolo (identificato come l’anello di congiunzione con una situazione complessa, che poi fiorirà, sino all’insospettabile “quarto livello” mai individuato).

Eppure la semantica del contesto mafioso è evidente: il colletto bianco che si avvale della capacità intimidatoria di personaggi del contesto criminale per “risolvere problemi”. Ma è più comodo nascondere la testa sotto la sabbia, magari la stessa sabbia di quel Porto Selvaggio che Renata voleva proteggere.

C’è chi ancora oggi, senza pudore nonostante le sentenze passate in giudicato, sostiene la tesi del “delitto passionale” o del mero “movente politico” senza alcuna connessione con la criminalità organizzata. Una narrazione che fa comodo a chi preferisce dipingere Nardò come un’oasi di legalità priva di infiltrazioni mafiose. Perché, si sa, le mafie esistono solo quando fanno esplodere le autobombe o quando ammazzano i magistrati, mai quando lavorano nell’ombra tessendo alleanze con la politica e l’imprenditoria.

Una donna scomoda, in vita e in morte

La verità è che Renata Fonte era “scomoda” per molti: bloccava le ambizioni di “ignoranti caporali del consenso” nel suo partito, il Partito Repubblicano, e ostacolava la “realpolitik democristianosocialisteggiante” imperante all’poca. Tanto scomoda da viva quanto comoda da morta per alcuni. O per molti.

Chi oggi continua a negare la matrice mafiosa del delitto Fonte non fa i conti con la storia giudiziaria del Salento e della città: dagli attentati alla Questura e al Tribunale di Lecce (eseguiti da neretini) fino al tentato attentato sul treno Lecce-Stoccarda del 6 gennaio 1992, quando la SCU dimostrò la sua imperizia nell’uso del C4 non potendo contare (per fortuna) – a differenza di Cosa Nostra – sui rapporti con i servizi deviati.

Le prove nei confronti degli imputati sono inoppugnabili: i portoni di ferro di Nardò, dei lucenti confronti di tutti gli schiaccianti indizi emersi in quel processo, non valsero ad alcuna riduzione di pena per alcuno degli imputati.

Ma si sa, è più facile credere alle favole che guardare in faccia la realtà. Soprattutto quando la realtà ci dice che in quella piovosa sera del 31 marzo 1984, non a Corleone ma a Nardò, una donna è morta per aver detto no. Un no secco al male, che ancora oggi fa tremare qualche coscienza. O almeno, dovrebbe, se le coscienze non fossero state sostituite da comode calcolatrici che misurano il tornaconto personale. E così, nel meraviglioso teatrino dell’ipocrisia italiana, Renata Fonte diventa un’eroina da celebrare con targhe e commemorazioni, mentre si continua a negare la verità per cui è stata uccisa. Un capolavoro di equilibrismo morale tutto nostrano, degno di un Paese che ha trasformato il tenere i piedi in due staffe in disciplina olimpica.

L’eredità di Renata: parla la figlia Viviana Matrangola

Ho raggiunto telefonicamente Viviana Matrangola, figlia secondogenita di Renata Fonte. Mentre la sorella maggiore Sabrina insegna materie umanistiche in un liceo leccese, Viviana ha seguito le orme della madre: oggi ricopre il ruolo di assessora alla Cultura, Tutela e Sviluppo delle Imprese Culturali, Politiche Migratorie, Legalità e Antimafia sociale per la Regione Puglia. Laureata in Architettura nel 2004 con una tesi sui beni confiscati alla mafia e riutilizzati a scopi sociali, ha sviluppato una carriera dedicata alla legalità e all’impegno civile.

Nel suo lungo impegno nell’antimafia sociale, dal 2000 Matrangola collabora attivamente con Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, dove ha ricoperto vari ruoli, tra cui responsabile del settore Memoria nazionale (2005-2009) e del settore internazionale (2009-2011). Nel 2017, ha ricevuto il Premio Borsellino per il suo impegno civile. È autrice della mostra itinerante Abbracci, dedicata al tema dell’accoglienza, insignita della menzione d’onore del Presidente della Repubblica nel 2017. Nel 2019, ha fondato l’associazione FLOW Libere Espressioni, che promuove l’antimafia sociale e la cittadinanza attiva.

Ad un’assessora che porta i geni di Renata Fonte non potevo che chiedere ragione del suo attuale impegno politico ed istituzionale. Ecco cosa mi ha risposto:

“Da assessore alla cultura e alla legalità sto portando avanti nel mio impegno in Regione Puglia, una strategia integrata di contrasto non repressivo alla criminalità organizzata e di costruzione di una visione strategica che coniughi memoria e impegno.

Promuovere la cultura della legalità è il più potente strumento trasformativo e di consapevolezza che possiamo mettere in campo per contrastare la cultura della delega e del favore, ad affermare la cultura del diritto!

Le mafie infatti si nutrono delle disuguaglianze, crescono dove i diritti vengono negati e le fragilità restano senza risposta, alimentando il disagio sociale, le marginalità, la solitudine.

Noi rappresentanti delle istituzioni abbiamo il dovere di essere credibili, di incarnare la fiducia che i cittadini ripongono in noi, soprattutto nei territori più esposti alla pressione mafiosa, dobbiamo essere esempio e presidio contro le disuguaglianze.

Dobbiamo essere più vivi, più attenti, più responsabili perché la legalità non è una bandiera da esibire, ma un cammino da percorrere ogni giorno e comincia dalla nostra responsabilità e dall’impegno!”

Parole che risuonano come un’eco di quelle battaglie che sua madre conduceva quarant’anni fa. E che dimostrano come, nonostante i tentativi di riscrivere la storia, la verità su Renata Fonte abbia trovato nella figlia non solo una testimone, ma una continuatrice di quelle battaglie per la legalità che costarono alla madre la vita.

Epilogo amaro

Oggi, in palazzo “la galleria” una fredda stele e una targa commemorativa ricordano il sacrificio di Renata Fonte. Monumenti muti che, nella loro immobilità, sembrano più comodi da gestire rispetto a scomode verità ancora vive. D’altronde, le statue non parlano, non accusano, non chiedono giustizia. E soprattutto non bloccano speculazioni edilizie. Esattamente come piace a chi, per quarant’anni, ha preferito raccontarsi favole anziché fare i conti con la propria coscienza.

Ma la verità, quella sancita dalle sentenze e testimoniata dall’impegno di chi, come Viviana e Sabrina Matrangola, portano avanti l’eredità morale di Renata Fonte, è ben diversa dalle favole che alcuni ancora si raccontano. Una verità che continua a gridare, anche se qualcuno preferisce tapparsi le orecchie.

 

Vincenzo Candido Renna

Previous slide
Next slide
Previous slide
Next slide
Previous slide
Next slide