La porta per andare in carne e ossa da un’altra parte: il patrimonio culturale e il tempo ritrovato

Recensione del libro di Tomaso Montanari, Se amore guarda. Un’educazione sentimentale al patrimonio culturale, Einaudi 2023

Cultura

La facciata della chiesa di Santa Maria presso San Satiro in via Torino a Milano fotografata al mattino del 14 maggio 2023

 

In via Torino a Milano, tra un negozio di abbigliamento streetwear e sportivo e il binario del tram 14, in mezzo a un fracasso urbano che non finisce mai, a poche centinaia di metri dal Duomo due edifici moderni creano un varco alto e stretto nel quale si incunea un cancello. Il cancello separa il marciapiede da un atrio che conduce al portale di ingresso di una chiesa, una delle più dense di storia a Milano e tra le più importanti d’Italia: Santa Maria presso San Satiro.

La chiesa dedicata alla Vergine ingloba nella sua intitolazione il nome di un altro santo perché è stata progettata per custodire l’antico sacello dedicato a Satiro, il fratello maggiore di sant’Ambrogio. A volere l’edificazione di questo monumento nel 1478 fu il duca Gian Galeazzo Sforza, a proseguire i lavori fu Ludovico il Moro. La chiesa è l’esempio più ambizioso e ancora visibile del progetto ducale di fare dello Stato di Milano un centro all’avanguardia per la creazione artistica in Italia: il progettista chiamato a dare innovative forme rinascimentali a Santa Maria presso San Satiro fu Donato Bramante, che lavorò mentre a Milano Leonardo da Vinci era al servizio dello stesso Moro.

 

La tribuna con il finto coro prospettico di Donato Bramante nella chiesa di Santa Maria presso San Satiro a Milano fotografata dalla controfacciata della chiesa al mattino del 14 maggio 2023

 

La chiesa di Santa Maria presso San Satiro è celebre per ospitare il cosiddetto finto coro di Bramante, un capolavoro da manuale del Rinascimento che sta tra la plastica, lo stiacciato di Donatello, la Trinità di Masaccio, la Pala di Brera di Piero della Francesca e l’architettura, trapassando tecniche e generi. Si tratta di un coro praticamente inesistente nella tribuna della chiesa che Bramante ha ottenuto realizzando una fuga prospettica composta di rilievi e modanature in cotto dipinti e disposti a sembrare una volta a botte cassettonata composta da tre arcate. La volta ha una profondità complessiva di 97 centimetri ma sembra occupare, se guardata dall’ingresso della chiesa, uno spazio profondo equivalente ai bracci del transetto pari a circa 9,7 metri.

Solo avvicinandosi all’altare maggiore l’illusione prospettica si svela e si scopre che non c’è nessun coro e che la decorazione si sviluppa praticamente in verticale. Bramante inventò questa soluzione arditissima perché non aveva spazio per realizzare il coro, in quanto alle spalle del transetto c’era la contrada del Falcone. Il più celebre trompe-l’oeil architettonico della storia dell’arte è ancora nel pieno centro di Milano, accessibile gratuitamente durante gli orari di apertura della chiesa, e diede l’esempio al tormentato Francesco Borromini per la sua altrettanto celebre galleria prospettica in Palazzo Spada a Roma (immortalata anche al cinema da Paolo Sorrentino in La grande bellezza).

Fin qui mi sono espressa come avrebbe fatto qualunque studiosa e insegnante di Storia dell’arte se avesse dovuto riassumere, per una lezione o durante una visita, i tratti salienti dell’importanza della chiesa nella nostra storia culturale. Adesso aggiungo che questa chiesa ha un posto nella mia vita sentimentale, saldandosi al valore storico e artistico. Santa Maria presso San Satiro è una delle porte attraverso le quali varco la soglia del tempo da quando ero bambina, quando di storia dell’arte non sapevo niente. A Santa Maria presso San Satiro mi ha portato per la prima volta mio zio Pietro, raccontandomi con quale stupore si era trattenuto in quella chiesa quando si era trasferito a Milano, entrandoci quasi per caso da una delle vie più trafficate e moderne della città, trovandosi di fronte alla meraviglia illusionistica di Bramante. Insieme abbiamo poi varcato spesso insieme quella porta del tempo: intenzionalmente per rivedere la chiesa; per qualche minuto andando da una parte all’altra della città; per stare insieme in silenzio. In quella chiesa, da giovane donna ho cominciato a entrare anche da sola e ci ho portato, e probabilmente ci porterò, anche persone alle quali volevo e vorrò bene; quando ho cominciato a lavorare, ci ho mandato i miei studenti più vivaci. Ho continuato a tornarci costantemente, anche solo per tre minuti, per ritrovare il tempo: il Quattrocento di Bramante e gli anni non ancora così lontani nei quali mio zio era ancora vivo. Ci sono tornata il 14 maggio, dopo avere letto il coinvolgente ultimo libro del rettore dell’Università per stranieri di Siena, lo storico dell’arte Tomaso Montanari, Se amore guarda. Un’educazione sentimentale al patrimonio culturale.

 

 

Montanari scrive di tante chiese, di tanti luoghi del patrimonio culturale dei quali ogni cittadino desidera avere cura perché quei luoghi si prendono cura dell’anima quando ha bisogno di essere medicata, o anche solo accarezzata. Montanari spiega bene che molti monumenti ci sono particolarmente cari “perché li sentiamo dolorosamente vicini alla nostra sorte. Sappiamo che un giorno ne sarà pianta la perdita. Sappiamo che, per questo, dobbiamo averne cura” (p. 26), così come finalmente stiamo cominciando a imparare ad avere cura dei corpi, nostri e degli altri, segnati dall’invecchiamento e dalle cicatrici, perché i segni del tempo e le cicatrici sui corpi e sui monumenti ci parlano e ci fanno amare corpi e monumenti ancora di più, perché hanno bisogno di cura e manutenzione al fine di vivere il più a lungo possibile (pp. 27-28).

La copertina del libro è una splendida fotografia in bianco e nero di uno dei più sensibili fotografi di guerra, l’ungherese naturalizzato statunitense Robert Capa, che nel 1943 ha ritratto una ragazzina sfollata a Palermo seduta su un sacco vicino al duomo, tanto intensa da ricordare i ragazzini del pittore milanese Giacomo Ceruti. Il titolo del libro evoca il romanzo dolceamaro di Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale. Il sottotitolo deriva da una pagina di Carlo Levi per il libro Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’Italia nel quale lo scrittore, su invito di Giulio Einaudi, commenta le fotografie del viaggio in Italia dell’ungherese János Reismann: “Nessun luogo, nessun paese del mondo forse è stato così guardato come il mio, come l’Italia. […] Se gli occhi guardano con amore, se amore guarda, essi vedono”… Montanari parte da questo passo, che merita di essere letto per intero insieme al libro da cui è tratto, per attirare l’attenzione sul fatto che quando

“siamo di fronte ai monumenti, ai quadri, alle architetture, siamo abituati a pensare ai loro autori: giusto. Ma Levi capovolge la camera, e inquadra chi guarda: gli occhi, di chi guarda. Il patrimonio culturale non è fatto solo di quelle “cose” magnifiche, ma degli sguardi che per secoli, o per millenni, le hanno trasformate in sentimenti, e in linguaggio. […] Un luogo che è il tempo, un tempo che è un luogo: il patrimonio come cerniera fra altri tempi e il nostro presente. Una cerniera che funziona, però, a una condizione: “se amore guarda”. […] È una questione d’amore: di educazione sentimentale. […] Se amore guarda, gli occhi vedono. L’aspetto sentimentale non è deteriore, come sarebbe sembrato per lungo tratto a una storia dell’arte che aveva ambizioni positivistiche dettate anche da un complesso di inferiorità. Credo invece sia venuto il tempo di recuperarlo, se davvero vogliamo che i nostri contemporanei non si limitino alla fruizione da pubblico pagante di attrazioni turistiche” (pp. 6-7, 9 di Se amore guarda).

 

La copertina di Carlo Levi, Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’Italia, fotografie di János Reismann, Einaudi 1960

 

Queste premesse sono anche un bilancio indiretto, tagliente e lucido degli esiti aridi e inaridenti di certa storia dell’arte accademica elaborata solo in funzione dei concorsi e non della realtà e dello spirito di servizio (dell’“avvilente computo delle competenze, il paesaggio da una parte, e l’arte e la storia dell’arte dall’altra” che tanti danni continua a fare alla didattica e alla ricerca accademiche e quindi alla cura del patrimonio, Montanari scrive a p. 21).

Il patrimonio, dunque, e gli studi umanistici e le attività professionali a esso legate coincidono con una “educazione a diventare, e a rimanere, umani”, permettendoci di staccarci dal presente, non per evaderne disimpegnandoci, “ma per interessarci alla realtà con più presa, con più consapevolezza” (p. 90). Montanari trascina il lettore, collega e no, con una serie di esempi di “educazione sentimentale” al patrimonio culturale che accoglie ogni momento della nostra esistenza ogni giorno. Un esempio riguarda Roma ed è tratto dalle pagine sopra evocate di Carlo Levi: “Il macellaio del Ghetto di Roma […] è installato nella cornice di marmo dell’ingresso sacro a una qualche divinità pagana. Il ristorante dove uso cenare ha i tavoli tra l’opus reticulatum e i rocchi di colonne del teatro di Pompeo, all’incirca là dove Cesare cadde” (p. 10 di Se amore guarda). Un altro esempio presente a Roma è familiare all’autore di Se amore guarda e riguarda la “chiesa di Santa Bibiana, capolavoro del primo barocco romano, oggi impigliata come un pesciolino nell’enorme rete della stazione Termini, annuncio di universalità umana nel quartiere multiculturale che le è cresciuto attorno”.

A Santa Bibiana Montanari affianca la “Fonte di Valchiusa, in Provenza, tratto di paesaggio incantato” delle “chiare, fresche, dolci acque cantate da Francesco Petrarca” e il “mosaico romano del II secolo dopo Cristo che riaffiora a Londra: una presenza umana che contraddice la smisuratezza della Torre Shard di Renzo Piano, intreccio tra tempi apparentemente inconciliabili”. Infine, un pezzo di storia dell’arte che l’autore ha vicino a sé praticamente tutti i giorni e che fa parte della sua memoria sentimentale di uomo prima ancora di far parte della memoria di storico dell’arte: è il “suono antico di una campana che, mentre scrivo queste righe, si fa strada nel caos sonoro della città moderna, entra nel mio studio e mette la mia anima e il mio corpo in risonanza con quelli di chi volle, modellò, fuse e suonò quel bronzo, secoli fa” (p. 3 di Se amore guarda).

 

La chiesa di Santa Bibiana a Roma

 

L’esperienza prima infantile e affettiva, poi professionale e profondamente sentimentale che ho raccontato all’inizio di queste pagine a proposito di ciò che significa per me varcare la soglia della chiesa di Santa Maria presso San Satiro può essere messa in serie con questi esempi. Ogni lettore di Se amore guarda potrà arricchire l’elenco con le proprie esperienze in una chiesa, in un paesaggio, davanti un pezzo di muro, in una sala di un museo, da dove si è guadagnato l’ingresso in un altro tempo, e che, pertanto, non si vorrà vedere degradarsi o addirittura scomparire.

Come si sarà capito da quanto ho scritto fin qui, Se amore guarda è, per ammissione dello stesso autore, un libro diverso da tutti gli altri di Montanari e dal tipo di libro paludato e scritto in scientifichese che, magari, ci si aspetta da uno storico dell’arte di riconosciuta autorevolezza internazionale. Era stato preceduto dalla collaborazione poetica (anche nel senso vero e proprio dell’esito finale) con Franco Marcoaldi per Il nostro volto. Cento ritratti italiani in immagini e versi (Einaudi, 2021), che in immagini e parole, da Cecco Angiolieri a Fabrizio de Andrè, da Ludovico Ariosto a Moana Pozzi, metteva a nudo la variegata, sfuggente, meticcia, non incasellabile presunta “identità” italiana.

Al patrimonio culturale, “inteso come unità inscindibile di paesaggio, storia e arte” e dunque “autobiografia della nazione” (p. 7) Montanari ha dedicato il suo impegno di studioso e di divulgatore in tutti i suoi libri. In Se amore guarda, Montanari non si addentra “nel labirinto delle definizioni” (p. VI), anche se spiega meglio di come potrebbe fare qualunque definizione scientifica o qualunque corso universitario di “Patrimonio culturale” cosa è e a cosa serve davvero il patrimonio culturale, che comprende tutte quelle cose materiali e immateriali  tra la lingua italiana (si legga p. 14) e le opere d’arte; l’autore non prende più a prestito la lingua dei giuristi, come ha dovuto giustamente fare nelle passate trattazioni che ha dedicato al patrimonio culturale: per parlare davvero a tutti ora Montanari, da umanista, ha preso a prestito la lingua degli scrittori con i quali instaura e ci chiede di instaurare un dialogo vivo (p. 8): è questa la ragione delle numerose citazioni, benissimo incastonate in tutte le pagine del libro (delle quali parlo più avanti).

La premessa a una forma così quotidiana eppure così necessaria di educazione al patrimonio c’era già anche, a ben guardare, nell’altro recente libro di Montanari, Chiese chiuse (Einaudi, 2021): lì l’attenzione era rivolta alla tragedia che riguarda praticamente tutte le città italiane, piccole e grandi, nelle quali qualunque cittadino ha fatto e fa esperienza dell’utilizzo improprio di chiese sconsacrate, della chiusura a tempo indeterminato di chiese consacrate, del noleggio a fini assurdi di tali edifici a esclusivo scopo di lucro, della decadenza di molti edifici inaccessibili nell’incuria generale. Per il suo legame con la realtà del territorio, Chiese chiuse è stato alla base del laboratorio didattico Chiese chiuse nell’ambito del corso di Museologia che ho tenuto quest’anno nella mia università.

Gli studenti hanno censito porzioni di territorio in Capitanata e in altre zone della Puglia alle quali sono legati sentimentalmente o delle quali sono originari, imbattendosi in casi di “chiese chiuse” per i motivi più disparati: S. Maria delle Grazie alle Cammarelle nella diocesi di Lucera-Troia, il Santuario di Santa Maria di Valleverde e le chiese di San Giovanni di Dio e di San Tommaso nell’arcidiocesi di Foggia-Bovino, la chiesa di Santissima Maria Della Misericordia, comunemente chiamata Chiesa Dei Morti, nella stessa diocesi di Foggia-Bovino, collocata in pieno centro a Foggia in Piazza Purgatorio, così come la chiesa di San Tommaso apostolo; poi la chiesa di Maria Santissima del Ponte nel Parco Regionale del Fortore, la chiesa di San Giovanni Battista a Vieste, ecc. Dal momento della presa di coscienza della situazione, queste chiese chiuse sono state adottate dai giovani che le hanno individuate per un monitoraggio civile che, ci auguriamo, possa portare a riaprirle e a tutelarle come meriterebbero, anche per garantire un nuovo tempo ritrovato nelle vite dei cittadini.

Infatti la parola chiave di Se amore guarda è “tempo” (p. 3), che è anche la parola chiave per chi è storico dell’arte: facciamo un mestiere che ha come primo scopo quello di resuscitare i morti e di tenerli in vita per sempre con le parole, che si tratti degli artisti o delle loro opere, come si fa con le persone che abbiamo amato, delle quali troviamo un modo di parlare ad alta voce ogni giorno perché non muoiano davvero. Poiché mai come adesso il presente “ripudia la storia”, il “patrimonio culturale è uno spazio che è anche un tempo”. […] Quando varchiamo la soglia di una chiesa antica, nessun segnale ci avverte che stiamo attraversando la frontiera che ci separa e ci unisce a un altro tempo e a un altro spazio. È tutto vicino, prossimo, ovvio; eppure muovere quel singolo passo significa cambiare dimensione. Nonostante tutti i tentativi […] di trasformarlo in attrazione a pagamento, il patrimonio culturale è un altrove impastato nel qui e ora. […] Proprio da un punto di vista laico, è il patrimonio culturale l’unico possibile luogo materiale di una comunione tra i vivi e i morti. […] Qualunque sia il nostro pensiero sull’aldilà, possiamo vedere nel patrimonio culturale la porta che ci mette in relazione con chi è stato, come noi e prima di noi, vivo: le tombe, le epigrafi, i ritratti, gli stemmi, le opere commissionate, la materia trasformata da mani umane in opere d’arte che vivono oggi nel nostro tempo” (pp. 4-5, 10-11 di Se amore guarda).

Come suggerisce Carlo Levi, capovolgendo il punto di vista dall’oggetto agli occhi di chi guarda l’oggetto, Montanari trova un supporto alla periegetica sentimentale del patrimonio pubblico in una serie di brani, parte integrante della narrazione del libro, tratti da Fonti elencate precisamente nella sezione finale di Se amore guarda (pp. 103-105). Si tratta di passi, uno più bello dell’altro, noti e meno noti, che degerarchizzano generi e geografia, passando da Italo Calvino a Virginia Woolf, da Lorenzo Ghiberti a Raffaello, da Cesare Brandi a George Gordon Byron, da Roberto Longhi ad Albert Camus, da Pier Paolo Pasolini a Thomas S. Eliot, fino a Vasilij Grossman e a Iosif Brodskij, autori dei due passi più palpitanti nell’antologia del cuore dell’autore. Di Grossman, notissimo per il grande affresco Vita e destino, Montanari sceglie opportunamente un racconto da Il bene sia con voi! (Adelphi, 2014). Il racconto riguarda la vertiginosa pala della Madonna Sistina di Raffaello, che Grossman vede durante una mattina fredda del 30 maggio 1955 a Mosca durante un’esposizione pubblica precedente la restituzione dell’opera alla Germania dell’Est.

 

Raffaello, Madonna Sistina, 1513-1514 ca., olio su tela, 265×196 cm, Dresda, Gemäldegalerie

 

La Madonna Sistina era un’icona anche letteraria grazie alle lodi tributate a essa dai grandi scrittori russi, Tolstoj e Dostoevskij. Grossman si spinge oltre l’ecfrasi e l’apprezzamento estetico; profondamente coinvolto nella storia, lo “scrittore ucraino-russo, di origine ebraica, in pieno regime staliniano, scorge in un dipinto religioso del Cinquecento commissionato da un papa la rappresentazione più invincibile di ciò che di umano, malgrado tutto, rimane nel cuore dell’uomo, riuscendo a farne una chiave per descrivere l’indescrivibile, la Shoah e i suoi artefici” (p. 93 di Se amore guarda). Grossman usa la Madonna Sistina come metafora iconografica di ciò che l’orrore non debella in una pagina che non si dimentica più:

“La vista della giovane madre con il bambino in grembo non evocava in me un libro o una musica. Il ricordo di Treblinka era riaffiorato nel mio cuore senza che me ne rendessi conto… Era lei a calpestare scalza, leggera, la terra tremante di Treblinka, lei a percorrere il tragitto da dove il convoglio veniva scaricato fino alla camera a gas. La riconosco dall’espressione che ha sul viso, negli occhi. Guardo suo figlio, e riconosco anche lui dall’espressione adulta, strana. Così dovevano essere madri e figli quando scorgevano le pareti bianche delle camere a gas di Treblinka […] Finalmente vedevo la verità di quei visi, l’aveva dipinta Raffaello quattro secoli prima. Così l’uomo affronta il proprio destino. […]

È l’epoca dei lupi, l’epoca del nazismo: un’epoca in cui gli uomini vivono da lupi e i lupi da uomini. In quest’epoca una giovane madre partorisce e cresce il suo bambino, e il pittore Adolf Hitler si piazza di fronte a lei nella Pinacoteca di Dresda, per decidere il suo destino. Ma il dominatore dell’Europa non riesce a reggere lo sguardo, né riesce a reggere quello del figlio di lei: perché sono sguardi di esseri umani” (pp. 91-92).

Grazie a un brano dolentemente vitale tratto da Fondamenta degli Incurabili di Brodskij, Se amore guarda può chiudersi sull’invito a sentire il patrimonio pubblico parte integrante della propria vita soprattutto recuperando la sua funzione di cura dell’anima: “D’inverno, specialmente la domenica, ti svegli in questa città [Venezia] tra lo scrosciare festoso delle sue innumerevoli campane […]. Non importa la qualità e la quantità delle pillole che ti tocca inghiottire questa mattina: senti che per te non è ancora finita” (p. 100 di Se amore guarda).

È in primo luogo il corpo, dunque, a ricevere ristoro dal patrimonio culturale, materiale e immateriale. Ce ne siamo accorti definitivamente durante i mesi più tragici della pandemia, quando le immagini (i ricordi, le fotografie) non bastavano, come non bastano quando si studia: “A essere coinvolto è il nostro corpo, tutto intero: quasi sempre con più d’uno dei suoi sensi, non di rado con tutti. Abitiamo il patrimonio, lo percorriamo, lo tocchiamo, lo respiriamo: ci viviamo dentro. […] occorre il contatto diretto, fisico, deve essere il corpo a sentire la città” (pp. 15, 20).

Questa cosa è sperimentata di continuo soprattutto da chi fa il nostro mestiere: quanto è diversa la conoscenza di una statua, di un monumento funebre, di una pala su un altare di una chiesa di montagna, se si percorrono questi oggetti centimetro per centimetro con gli occhi e con i polpastrelli (quando è possibile), salendo su scale di fortuna, arrampicandocisi sopra il più possibile, togliendo la polvere dalla superficie con le mani, per scoprire tracce di quello che fu davvero e per cura quasi pietosa; quanto è più nostra quell’opera se la si tocca e guarda da vicino, per ore, così come diventa nostro un corpo amato, che si tocca e si accudisce senza stancarsene, perché un’immagine non può sostituire un’opera e un corpo amati. Perché, in definitiva, “ogni volta che proviamo a tradurre in parole l’esperienza vissuta dentro un monumento, inevitabilmente la laceriamo, costretti come siamo a separare un prima e un dopo, a ordinare secondo una gerarchia di importanza e di senso, ciò che invece ci ha travolto, sedotto, posseduto in un momento, senza che potessimo fare nulla se non abbandonarci del tutto” (p. 16).

Del resto, Montanari introduce al primo capitolo del libro dichiarando di averlo pensato e scritto non come un esercizio accademico in solitaria, ma “come una conversazione tra amici aspettando l’alba, come un’orazione civile in un piccolo teatro di provincia” (cito dalla chiusura della Premessa a p. VIII). Parole ad alta voce per pochi interlocutori ai quali si vuole bene, parole ad alta voce per pochi spettatori che siedono in un piccolo teatro, parole che bastano e magari salvano anche quando tutto sembra perduto, anche quando sembra che la vita abbia bisogno di un supporto chimico per non fuggire via dal corpo, come per Brodskij.

Al potere seduttivo ed educativo delle opere d’arte, dei libri e delle parole declamate ad alta voce, in teatro o in un giardino domestico o in una biblioteca privata, è dedicato un altro libro che è stato fondamentale nella mia educazione anche sentimentale alla cultura, Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, che a quattordici anni mi ha rivelato in modo oscuro quel potere delle immagini raccontate dalle parole che avrei poi formalizzato con un metodo facendo il mestiere che mi sono ritrovata a fare. Quando è quasi tutto perduto per via dell’effetto (salvifico prima, deleterio poi) di un ritratto dipinto del quale il proprietario si è preso cura, potremmo dire, in maniera sbagliata, mentre sono quasi le undici di sera al cospetto di una luna color miele un caro amico fa constatare al proprietario del ritratto: “il verso riudito di una poesia dimenticata, il motivo di una musica che da lungo tempo non avete più suonato… […]: da simili cose dipende la nostra vita”.

 

Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia

 

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