La madre di tutte le riforme e i ri-Costituenti in action. Il premierato elettivo solo in Israele ed è fallito

Pensare di cambiare la forma di governo solo con un intervento chirurgico è- mi si consenta- molto velleitario. Perché le riforme costituzionali, faccenda che riguarda il Parlamento, continuano ad essere proposte sempre dal governo? Se l’obiettivo è la stabilità, ci sono altri modi, non c’è bisogno di mettere a soqquadro la Costituzione

Mettiamoci l’anima in pace: chissà ancora per quanti mesi troveremo incombenze o, nel migliore dei casi, tracce impegnative del tormentone sul premierato elettivo nei mantra della politica di governo e nelle parole antagonistiche delle opposizioni. Evanescente, c’è da giurare, l’attenzione della pubblica opinione: gli adulti stretti nella morsa di una congiuntura economica difficile e dunque poco disponibili a condividere il problema delle astratte architetture costituzionali con postura neo-piacentiniana; i giovani totalmente indifferenti. Il che è molto peggio che contestatori o antipatizzanti.

Qualche nicchia d’interesse si ritaglia negli anfratti della dottrina, ma si sa, i giuristi per vocazione spaccano il capello quando non ci sono le chiome, figurarsi quando c’è la criniera leonina della “madre di tutte le riforme”… Da queste nobili colonne, in tempi ormai lontani-ascoltavamo le parole della Meloni “presidenzialista” in campagna elettorale- provavamo a porre il problema del metodo, prima ancora che del merito, perché si può anche passare da una forma di governo parlamentare ad una presidenziale, dalla prima alquanto lontana, ma bisogna farlo bene, senza pensare di procedere “a spizzichi e molliche”.

Volevamo dire che una riforma così importante implica una manomissione complessa del testo costituzionale, pensato dai nostri Padri costituenti con un sistema di interrelazioni coerenti e di efficaci equilibri. Pensare di cambiare la forma di governo solo con un intervento chirurgico è- mi si consenta- molto velleitario. Oltre che dannoso. Naturalmente le nostre piccole inutili obiezioni sono rimaste lì: piccole, inutili e persino fastidiose.

Il disegno di legge governativo – ma perché le riforme costituzionali, faccenda che riguarda il Parlamento, continuano ad essere proposte sempre dal governo? – è fatto da cinque piccoli articoli che portano in corpo l’avvento di una riforma che ha come unica esperienza certificata nel mondo quella fatta da Israele per tre volte dal ‘96 e poi buttata via perché non serviva.

Per dovere di completezza raccontiamo del merito: il candidato presidente ( pardon: premier) viene votato dagli elettori in forza del collegamento con una lista o un’alleanza di liste. Il che significa che chi vota i partiti automaticamente sostiene il candidato premier. Non è precisato se il voto possa essere disgiunto oppure no. Prima notazione en passant: in Italia c’era una formula che produceva gli stessi effetti ai tempi del Porcellum perché prevedeva l’indicazione del capo della coalizione che, in caso di vittoria, avrebbe avuto l’incarico.

Questo avveniva, all’incirca come avviene da sempre nel premierato inglese e nel cancellierato tedesco, senza squassare i fondamenti del parlamentarismo. Era un’esperienza recuperabile (se si intendeva andare in quella direzione), forse l’unica del Porcellum bocciato dalla Corte Costituzionale ma non la si è, evidentemente, ritenuta sufficientemente pirotecnica per reggere la spettacolarizzazione necessaria al governo delle scelte epocali.

Del Porcellum, però, qualche traccia sembra sopravvivere, ma non di quelle salvabili. Perché la grande innovazione viene adesso e si chiama costituzionalizzazione di fatto della legge elettorale. Quello che non vollero fare i Padri costituenti lo fanno oggi i moderni ri-costituenti, fissando un premio di maggioranza del 55% dei seggi di Camera e Senato alla lista o alla coalizione di liste vincenti. Orbene, a parte il fatto che l’attribuzione del premio già sembra prefigurare un modello maggioritario, vincolando, così, il Parlamento ad una formula (dunque costituzionalizza i principi della legge elettorale), chi ha stilato il disegno di legge sa bene che manca l’indicazione della soglia che fa scattare il ghiotto premio di governabilità, causa efficiente della bocciatura da parte della Corte Costituzionale ( sent.1/2014), del sullodato Porcellum.

 

 

 

Di più: da un marchingegno così impegnativo e così attento alla volontà popolare, ci si aspetterebbe che il principio ispiratore fosse quello del “simul stabunt, simul cadent”: se il premier perde la fiducia tutti a casa. E invece no: può accadere anche che in caso di sfiducia si proceda ad un nuovo governo. Ma come, direbbe l’ignaro, tutto ‘sto casino per legare a filo doppio i destini di popolo ed eletto e poi dite che si può cambiare premier? Tranquilli: accadrà una sola volta e a condizione che il subentrante sia un parlamentare eletto nell’ambito della stessa coalizione. Cerchiamo di comprendere: il premier “votato dal popolo” in uno con un programma elettorale sostenuto dalla sua coalizione viene sfiduciato dalla sua stessa maggioranza e a sostituirlo sarà uno dei suoi alleati per portare avanti quello stesso programma? Certo, diranno i sostenitori di tanto splendore, basta che non si tratti di Draghi, di Monti, di Ciampi insomma di quelli lì. Salvini che sostituisce la Meloni invece va bene. Bah!

 

 

 

Dulcis in fundo il rapporto col Capo dello Stato. Il premier viene eletto dal popolo. Il Presidente della Repubblica no. E questo descrive lo squilibrio di legittimazione, l’una che investe il premier, popolare, l’altra, che investe il supremo garante dell’ordine costituzionale, il Capo dello Stato. Non ci pare sia necessario aggiungere parole.

 

 

 

C’è qualcosa di involontariamente paradossale in questo marchingegno: il motivo profondo per cui è stato escogitato è legato alla parola magica: “stabilità”. Ma, guardacaso, è proprio quella di cui già gode il governo Meloni, e, grazie al combinato disposto tra sistema elettorale e taglio dei parlamentari, di stabilità sarà destinato in futuro ogni altro governo a godere, nella plausibile misura che si deve alle italiche costumanze.

E poi, siamo onesti, se si vuole raggiungere l’obiettivo di rafforzare la tenuta dei governi ci sono altri e meno devastanti sistemi: la sfiducia costruttiva, ad esempio, che obbliga la nuova maggioranza ad indicare il nome di chi prenderà il posto dello sfiduciato; la rimozione del ministro che non va più a genio al “premier”, passando ovviamente per il Capo dello Stato; la nomina a presidente del Consiglio, del capo del partito vincente o di quello di maggioranza nella coalizione vincente, cosa che è avvenuta con la Meloni.

E, infine, bisogna registrare come si deve una legge elettorale che, quella sì, riannodi il rapporto tra popolo ed eletti, oggi a pezzi.

Insomma non c’è bisogno di mettere a soqquadro la Costituzione, già troppo e malamente manomessa negli ultimi anni.

 

 

Pino Pisicchio – Professore ordinario di Diritto pubblico comparato. Già deputato in varie legislature, capogruppo, sottosegretario, presidente di Commissione

 

 

 

 

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