Quarantacinque minuti: tanto ci hanno messo a bruciare fino allo scheletro, uno dopo l’altro, i due grattacieli di Valencia nel lussuoso quartiere residenziale di Campanar.
Alti 45 metri, definiti moderni e sicuri, questi status symbol panoramici da seimila euro al metro quadro, si sono trasformati in una torcia, e in una trappola mortale di fumo, alla velocità di un metro al minuto, meno di tre per ognuno dei 14 piani. I vigili del fuoco, dicono le cronache, sono arrivati quasi subito, ma comunque troppo tardi per salvare dieci persone.
“Nessun soccorso al mondo oggi può intervenire così quando le fiamme sono così rapide, oltretutto a un’altezza che mette fuori gioco le autopompe”, commenta Filiberto Lembo, progettista, specialista in sicurezza delle costruzioni e professore di Tecnologia dell’Architettura a Roma Tre.
Sembra un evento straordinario, e invece no, non è la prima volta. E quel che peggio, non sarà l’ultima. Perché c’è un filo che unisce questo rogo alle Grenfell Towers a Londra (2017, 72 morti tra i quali due studenti italiani, Marco Gottardi e Gloria Trevisan), e alla Torre dei Moro di Milano (domenica 29 agosto 2021, nessuna vittima, per puro caso).
Più che di una linea, si tratta di un piano, quello, liscio e troppo sottile, di un pannello in polietilene o, peggio, poliuretano: l’ultima cosa a cui l’ultimo dei cretini, o il primo dei corrotti, penserebbe come materiale antincendio, perché arde come un cerino. “É vero che è ricoperto su entrambe la facce di alluminio – spiega Lembo – ma in presenza di fiamme questo strato di due millimetri non basta per difendere l’anima in plastica, che così fonde e trascina verso il basso anche la resistenza del metallo. Si innesca un effetto domino, e l’enorme calore che si sviluppa può deformare le strutture in acciaio della costruzione”.
A generare il disastro, però, è come questi wafer di plastica e metallo sono impiegati da una generazione di architetti arredatori più impegnati a imbellettare le loro opere che a renderle sicure: vengono montati in serie a un metro di distanza dalle facciate, per creare intercapedini – le cosiddette vele – destinate a ventilare gli edifici, riscaldandoli d’inverno e raffreddandoli d’estate.
“É impossibile, ed è criminale, non rendersi conto del pericolo – prosegue Lembo – perché è proprio l’effetto camino, il tiraggio violento generato da questi schermi, a propagare il fuoco in pochi attimi dall’esterno verso l’interno. Basta un corto circuito, magari in un condizionatore sistemato su un balcone, ed è la fine dell’edificio anche perché i pannelli, leggerissimi, si staccano e volano via mentre bruciano, disseminando il fuoco meglio del napalm”.
Sembra di rivedere, appunto, le immagini di Grenfell, di Milano e di Valencia. Non è un caso, dunque, se in questa collana di roghi – e in molti altri, soprattutto in Asia, troppo esotici per essere oggetto di interesse in Europa, ma ben note agli addetti ai lavori – le vele di pannelli in plastica ricorrono come l’annuncio di un finale già scritto. “E che oltretutto minaccia di ripetersi in fotocopia – ammonisce il professore – in Italia gli immobili tirati su con gli stessi criteri sono centinaia”. Quali siano, e quanto selvaggiamente speculativi, questi criteri, li ha fissati nero su bianco, con l’aiuto di Lembo e altri periti, la Procura di Milano, titolare del procedimento penale sull’incendio di via Antonini, che tra pochi giorni, al termine di una fase preliminare durata un anno e mezzo, chiederà il rinvio a giudizio per 18 persone.
Dagli atti giudiziari si scopre, prima di tutto che con, buona probabilità, le cause della tragedia di Valencia, quelle che politici e inquirenti iberici hanno promesso con foga un po’ sospetta di voler subito cercare all’estero, sono proprio Made in Spain. Tra i presunti responsabili dell’incendio che distrusse la Torre dei Moro troviamo, infatti, i due top manager della Alucoil di Burgos, colosso delle nuove architetture “alari” che come recita il suo sito, è specializzata in “Paneles composite de alluminiò para fachadas arquitectonicas”. É lei che produce anche i famigerati pannelli Larsen PE, i più diffusi sul mercato europeo.
Per capire in che modo si sia arrivati a utilizzarli come materiali antincendio, ciò che le loro caratteristiche negano con palmare evidenza, basta scorrere gli altri nomi e le rispettive responsabilità. Perché all’accusa capitale, disastro colposo, col pagamento di risarcimenti memorabili in sede civile, sono chiamati a rispondere, in sostanza, tutte le figure, le figurine e le figuricchie del settore. Le stesse che, a sentire alcuni comitati civici di “resistenza immobiliare”, starebbero soffocando Milano sotto un tappeto di cemento, spesso grazie alla comprensione degli uffici tecnici comunali, ben disposti a certificare come modeste ristrutturazioni, ovviamente senza oneri di urbanizzazione per le imprese, la nascita miracolosa di spettacolari condomini.
Tra gli indagati, dunque, ci sono i proprietari e alcuni dipendenti della Moro, l’azienda familiare che aveva costruito e venduto i singoli appartamenti della eponima palazzina andata in fumo; poi, responsabili e dipendenti della Cantori, concessionaria Alucoil per l’Italia, e della veneta Zambonini, progettista ed esecutrice delle vele; di seguito, due dirigenti dei vigili del fuoco di Milano, che “violando gravemente gli obblighi di diligenza e perizia del ruolo, avevano certificato l’idoneità antiincendio dell’immobile”.
Intorno a loro, intermediari, tecnici e consulenti: una galassia di competenze fatta, si direbbe, più per diluire le responsabilità che per validare la qualità di un edificio. “Non sapevamo”, avevano risposto, come sempre, ai primi addebiti della Procura. Ma le intercettazioni, sia dopo il rogo di Londra, sia dopo quello milanese, li rivelano ben consapevoli dei difetti dei pannelli Larson, e ben acquattati in un patto di reciproca difesa basato sul silenzio. Perché, lo dicono testimoni e documenti, quando si era trattato di vendere, questo gruppo formato da eminenti palazzinari lombardi, così come, probabilmente, i loro omologhi inglesi e spagnoli, si sarebbe preoccupato solo di risparmiare all’osso sui materiali.
Quanto alla sicurezza, mai una parola, anche se per ottenerla sarebbero bastato aggiungere una manciata di centesimi: novantacinque a pannello, qualche migliaio di euro per l’intero edificio. E senza andare lontano, perché la Alucoil ha in catalogo anche i Larsen FR, che significa Fire Preventing: fuoco ritardanti. E gli stessi vertici dell’azienda, nel 2009, con la Torre ormai finita, avevano consigliato via email agli italiani di usare questi ultimi, molto più resistenti al calore. Non era un mistero: nelle istruzioni per l’uso dei PE si leggeva che “vanno bene per gli edifici a due piani”. Perché proprio quelli? La cinica spiegazione che danno gli esperti è che due piani permettono ancora la fuga degli inquilini da finestre e balconi. Di più, no. In altre parole: se vuoi abitare un “edificio a vele”, è meglio che non appena entri in casa cominci ad allenarti al free climbing e al parkour.
Ovviamente, i costruttori, a spendere quel po’ di più per i pannelli resistenti non ci pensavano proprio. Cosicché i pannellari castigliani, pur di non perdere la cospicua commessa e magari anche il mercato tricolore, avevano abbozzato. In ogni caso, secondo il professor Lembo, data la carenza di misure antincendio, combinata alla potenza di tiraggio delle vele, nemmeno i pannelli resistenti avrebbero retto alle fiamme. “Il mercato è questo – conclude – e se guardiamo al materiale dei cappotti termici, inflazionati dai bonus, non è meno allarmante: uno dei componenti base più usati è una mattonella di poliuretano coperta da uno strato di intonaco ignifugo così sottile che vorrei comprendere come sia stato possibile certificarla. Vedremo come si comporteranno questi cappotti, in un contesto climatico sempre più bollente”. Ma è inutile preoccuparsi per il futuro, perché già il presente offre abbastanza motivi per non avere sonni tranquilli. Più di un anno fa, la Procura di Milano aveva identificato in tutta Italia decine di edifici, impianti sportivi e alberghi che, per via delle vele fatte con pannelli inadeguati, erano ad altissimo rischio d’incendio, e ne aveva subito diramato una prima lista a tutte le regioni. Del resto, se si vuole un’idea delle diffusione delle “facciate a vela”, anche sperando che non siano tutte “amiche del fuoco”, basta ritornare al sito web della Alucoil. Ma per ora non risulta che qualcuno abbia compreso la gravità della situazione e dato seguito a controlli. Si preferisce nascondere la verità sotto il tappeto, eppure mai come in questo caso la verità promette di bruciare così facilmente.
Maurizio Menicucci – Giornalista