Qui di seguito chi legge troverà la dedica che Luigi Pirandello fece del suo romanzo appena pubblicato dall’editore Treves, ai suoi non vecchi genitori.
Siamo nel 1913 e la dedica che qui trascrivo dice:
ai miei non vecchi Genitori perché di cuore e di mente
più giovani di me,
nella festa delle loro Nozze d’oro 28 Novembre
1863 – 1913
quest’opera, in cui i Lor nomi Stefano e Caterina vivono eroicamente
o.d. c.
Luigi Pirandello
Il volume è custodito da Anna Maria Mendolia, discendente di Enzo, fratello minore di Luigi, e per sua gentile concessione la dedica venne riprodotta una prima volta in un mio scritto pubblicato sul periodico «Ariel», n. 2 dell’a. IX (1994). Ma allora non feci caso alla clausola finale, prima della firma, e credo che nessuno ci abbia poi più badato. Che significa quell’ o. d. c. ?
Ho provato ora a interpretarlo come un saluto augurale, e a darmi una mano nel decifrarlo debbo ringraziare la professoressa Anna Maria Sciacca, provetta latinista, che ha intuito essere una formula gratulatoria latina. Nella laboriosa ricerca siamo arrivati alla conclusione che possa trattarsi di un omnibus depulsis curis che in italiano suona come un auspicio per scacciare ogni genere di preoccupazioni dai suoi genitori.
E i nomi di Stefano e Caterina, che vivono eroicamente? Per la verità nel romanzo il nome di Stefano è identificato in Stefano Auriti caduto nella presa del forte borbonico di Milazzo, una morte eroica, indubbiamente, ma precoce, perché il padre di Luigi partecipò, è vero, all’impresa dei Mille, combatté, è vero, a Milazzo, ma non vi morì e ritornò per sposare Caterina, la sorella dei suoi amici e commilitoni, tutti reduci garibaldini, Francesco, Rocco, Vincenzo e Innocenzo Ricci-Gramitto.
Questo nome, Ricci-Gramitto, pur figurando nel romanzo una sola volta (nella rievocazione di Mauro Mortara delle riunioni dei congiurati nel casale del Caos), ne è in qualche modo il motore occulto, perché nella Caterina del romanzo si nasconde chi nella realtà era la sua sorella maggiore, Rosalia, che andò sposa a Michele Bonadonna, un altro reduce, ma questa volta dalla rivoluzione siciliana del 1848-49, un fedelissimo di uno dei martiri della persecuzione borbonica, Giovanni Ricci-Gramitto, morto in esilio a Malta nel 1850 forse di stenti o per morte volontaria, e padre di tutti i Ricci- Gramitto qui ricordati.
Ora, come si diceva, Caterina (=Rosalia) è nella finzione romanzesca la figlia di Gerlando Laurentano, da lui diseredata per il matrimonio d’amore con Stefano Auriti, privo dello stato di nobiltà e della ricchezza della famiglia della sposa. Viceversa il vero Giovanni Ricci-Gramitto non aveva né la nobiltà né le ricchezze attribuite al Laurentano, né avrebbe potuto certo contrastare il matrimonio delle figlie, fossero Rosalia o Caterina, dato che allora non era più tra i viventi.
Ritornando alla storia di Rosalia, dopo il suo matrimonio con Michele Bonadonna, avvenuto intorno al 1851 o poco dopo, quest’ultimo, coinvolto nella fallita sommossa antiborbonica di Francesco Bentivegna del 1856, dovette precipitosamente lasciare la Sicilia rifugiandosi con la moglie nel lontano Piemonte. Ivi i coniugi, ai quali nascevano nel frattempo quattro figli, andarono incontro ad anni di grandi difficoltà e sofferenze sia per l’ambiente e per il clima tanto diversi da quelli siciliani ma soprattutto per la precarietà della loro situazione economica.
Quando dopo quattro anni ritornarono nel 1860 al seguito di Garibaldi, Rosalia era completamente sfiorita, logorata dai parti, e a Michele restava poco meno di un anno di vita: morì nel 1861, lasciando la vedova con i quattro figli piccoli. Come abbiamo potuto vedere, in Caterina sono trasferiti i tratti della maggiore Rosalia, ben diversa dalla reale Caterina, dal temperamento riflessivo, compassionevole e sempre comprensivo verso gli altri. Autoritaria invece e dal carattere inasprito dalle sofferenze la reale Rosalia e la Caterina del romanzo.
Vivono eroicamente, dunque? – Certo Stefano muore da eroe nella conquista di Milazzo; ma è una morte precoce e, come ha suggerito qualcuno, una cancellazione freudiana del padre. E la madre Caterina (=Rosalia), così inasprita dai sacrifici affrontati da sposa e poi da vedova, preda dei contrasti familiari con il padre Gerlando e poi col fratello Ippolito, offesa dalla cocente delusione dell’unificazione italiana con l’insanabile ferita dello scontro fratricida d’Aspromonte? – Ben diversa dalla madre venerata dal figlio Luigi, da ultimo nel suo Colloquio scritto nel 1915 alla sua morte.
E, per concludere su questa prima parte, un’ultima annotazione. Nel romanzo Caterina aveva avuto tre figli da Stefano Auriti, Anna, Roberto e Giulio. La prima, Anna, aveva sposato Michele Del Re, del quale anch’ella era rimasta precocemente vedova con un figlio, Antonio, all’epoca diciottenne, i cui tratti caratteriali, il suo furore anarcoide, l’anelito ad un astratto senso di giustizia, le velleità amatorie, lo rendono come un autoritratto giovanile dello stesso Pirandello.
* * *
Un personaggio presente nella seconda parte del romanzo è Francesco D’Atri, che può essere facilmente identificato in Francesco Crispi negli ultimi suoi anni di vita, visto con l’occhio impietoso di chi non sa più perdonare agli uomini che hanno lottato per l’unificazione della patria i cedimenti e i tradimenti ai loro grandi ideali giovanili.
È ormai un vecchio, il D’Atri, che tra i tanti errori della sua vita ha anche quello di aver sposato in ultimo una donna giovane, Giannetta Montaldo che gli ha dato una figlia, sua? – chissà? È noto che donna Giannetta da ultimo ha una relazione con il deputato Corrado Selmi.
Anche qui, se guardiamo alla realtà, le vicende coniugali di Francesco Crispi furono assai travagliate, a cominciare dal primo matrimonio del 1837 con Rosina D’Angelo, quando entrambi non avevano ancora vent’anni, finito con la morte precoce di lei nel dare alla luce il secondo figlio morto con la madre nel 1839. Una figlia nata nel 1837, qualche mese dopo il matrimonio riparatore, morì anch’essa a un anno e mezzo d’età alla fine del 1839.
Nello stesso 1839 Crispi intrecciò una relazione con Felicita Vella, d’una decina d’anni maggiore di lui, sua affittuaria, dalla quale ebbe un figlio, Tommaso. Quando Crispi, dopo la rivoluzione antiborbonica del 1848-49, fu costretto a rifugiarsi a Marsiglia, Felicita con il figlio lo raggiunse poco dopo, ma lo trovò già legato a un’altra donna, Rosalie Montmasson, una ragazza di 26 anni giunta a Marsiglia dalla Savoia piemontese per lavoro «…piena di coraggio, più di quanto in donna soglia accadere, dall’anima vivace, anzi di fuoco, dalla parola pronta, dall’animo schietto, nata alla libertà e all’indipendenza» (G. Oddo, I Mille di Marsala, Milano 1867, vol.I, p 252).
Quest’ultimo legame, pur nelle burrascose vicende seguite all’arrivo di Felicita, si consoliderà con il successivo passaggio di Crispi e Rosalie a Malta, altra loro terra d’esilio, dove, prima di un nuovo trasferimento a Londra, la coppia celebrò il matrimonio 27 dicembre 1854. L’unione si rivelò solida perché la donna, che non poteva avere figli, era però dotata di un animo forte, disposta ad accettare tutti i sacrifici d’una vita che accanto al suo uomo non erano certo pochi e costavano rischi, persecuzioni, miseria e difficoltà d’ogni tipo.
Fu l’unica donna che salì col marito sul Piemonte, una delle due navi della spedizione dei Mille, e che gli fu vicina sempre, nei momenti peggiori, e poi, quando la fortuna cominciò ad arridere al deputato del parlamento subalpino, all’uomo politico che nella Firenze capitale provvisoria del regno d’Italia cominciava la sua carriera di avvocato di successo.
La crisi nella coppia si aprì profonda e insanabile dopo il trasferimento a Roma, nel 1871, quando una giovane di ventinove anni, Lina Barbagallo, riuscì ad ottenere un incontro con l’autorevole personaggio per perorargli la causa del padre Sebastiano Barbagallo, magistrato borbonico operante in Sicilia al momento della conquista garibaldina, allontanato dall’incarico senza alcun risarcimento.
Crispi ormai a 53 anni d’età e non certo insensibile alle tentazioni, aveva proprio allora una relazione con un’altra donna, Luisa Del Testa, dalla quale aveva avuto un figlio. La giovane Barbagallo, anch’essa con un passato discutibile (sposata a diciassette anni e abbandonata a diciannove, con successive esperienze che la rendevano insieme spregiudicata e affascinante), riuscì presto a diventargli indispensabile, soprattutto dopo la nascita nell’ottobre 1873 d’una bambina, Giuseppina.
La guerra tra Rosalie e Lina fu senza esclusione di colpi, ma alla fine fu Rosalie a cedere e a lasciare la casa del marito alla fine del 1875, stabilendosi prima in un appartamento in via della Croce, per poi trasferirsi a via Torino, prima traversa del moderno insediamento urbanistico sulla via Nazionale a Roma. Crispi si trasferì a Napoli dove il 26 gennaio 1878, con una cerimonia civile che doveva rimanere riservata, celebrò le nozze con la Barbagallo.
Mal gliene incolse, perché la stampa fomentata dagli avversari politici gli scatenò contro l’accusa di bigamia. Crispi che era allora ministro dell’interno nel secondo governo Depretis, dinnanzi alla crescente campagna contro di lui e dopo una tempestosa seduta di gabinetto, dovette dimettersi. È quanto in una pagina de I vecchi e i giovani Pirandello ricorda, dicendolo “battuto alcuni anni addietro in una tumultuosa seduta parlamentare, dopo una lotta piccina e sleale”.
Ma qual è l’atteggiamento di Pirandello verso l’uomo politico di Girgenti che raccoglieva la stima e le aspettative di tutto il ceto attivo e benpensante non solo della provincia ma dell’intera isola?
Eccolo ventunenne scrivere al padre in una lettera del dicembre 1888 quando Crispi era per la prima volta presidente del Consiglio: “Il difetto è proprio nella tonaca, Papà mio. Chi la cucì fu un sarto birbone… Crispi l’ha indossata e ahimè, anche lui non è più lui, ma l’uomo della tonaca maledetta”. E poi nell’ottobre 1890 studente a Bonn, in occasione di un discorso pronunciato a Firenze contro i movimenti irredentistici inscenati in quei giorni dagli studenti: “Per avere a Firenze calpestato la storia e insieme il sentimento d’ogni italiano, che sia degno del nome, schiaffeggerei di tutto cuore il signor Crispi, se non fosse vecchio e non fosse ministro, cioè una macchina che deve regger lo stato senza tener conto deisentimenti”.
Ciò che fa crollare definitivamente ogni stima nel politico e nell’uomo saranno gli atti del suo ultimo governo. Ossessionato dalla nascita e dalle prime affermazioni del partito socialista considerato negazione del Risorgimento, Crispi ordina una repressione cruenta dei Fasci siciliani seminando di stragi numerose località rurali della Sicilia, a cui si aggiunge “la bancarotta del patriottismo”, lo scandalo della Banca Romana che nel suo fallimento coinvolge gli uomini più in vista della classe politica che avevano attinto abbondantemente ai facili prestiti concessi dalla banca, senza darsi poi cura di scontarli. Nello scandalo universale tra i nomi coinvolti c’è anche quello di Crispi…
Tutta l’ultima parte de I vecchi e i giovani è dedicata alla narrazione di questi fatti e della feroce repressione dell’esercito dei moti siciliani, nei quali viene ucciso anche Mauro Mortara: quando il cadavere viene rimosso, gli si scoprono appuntate sulla giacca di fustagno le medaglie delle campagne risorgimentali: i Mille, Aspromonte, la terza guerra d’Indipendenza…
Francesco Crispi morì a Napoli il 12 agosto 1901 a 83 anni e Pirandello ne scrisse una commemorazione a suo modo, apparsa nel numero del 29 dicembre 1901 de «I Mattaccini», un giornaletto anticonformista dalla vita breve (dal 1901 all’aprile dell’anno seguente), fondato e diretto da Francesco Gaeta.
Val la pena di riprodurre e commentare la dissacrante composizione poetica, Bravi vecchietti, in cui riecheggiano tutti i temi del futuro romanzo con la condanna dei padri del Risorgimento. “Sì, v’ajutò la Francia.//Saldaste voi de’ gravi//debiti il conto e, mancia,//Nizza e Savoja. – Bravi,//vecchetti, bravi… [è qui la critica alla politica cavouriana di Plombières nel ricordo dell’opposizione di Garibaldi alla ratifica del trattato di Torino che sancì la cessione alla Francia della sua città natale] Ma, oh!– Vi disse poi -//badiamo: le Sante Chiavi//sian rispettate! – E voi,//obbedienti…- Bravi,//vecchetti, bravi…//E quell’Eroe sventato//che a la Città degli avi//correa, fu al piè bollato//da voi, prudenti… – Bravi,//vecchietti, bravi… [il ricordo d’Aspromonte e dell’unico vero e sventato eroe del Risorgimento]. Scavi or la talpa nera//Roma soppiatta, scavi//la talpa prigioniera…//Voi, tolleranza! – Bravi//vecchietti, bravi…[emerge qui l’atavico anticlericalismo di Pirandello]. E a chi province e figli//vi tien tuttora schiavi,//gl’imperiali artigli//leccate, umili… – Bravi,//vecchietti, bravi…[ritorna, nel ricordo della lettera del 1890, l’avversione al triplicismo di Crispi, la cui scomparsa ha destato la vena del poeta]. Abbiate il nostro encomio;//siate modesti e savi.//Che bel gerontocomio//vi edificaste! – Bravi,//vecchietti, bravi…
L’impolitica anima candida di Pirandello qui si realizza in pieno, dando la stura ai suoi sentimenti che prevarranno sempre sulla fredda e algida ragione.
Elio Providenti – Già Direttore della Biblioteca e degli Archivi del Quirinale. Studioso di Pirandello, ha pubblicato su di lui numerosi saggi