In M.O. Netanyahu e Khamenei giocano sulla pelle dei palestinesi

Il recente scambio di atti ostili tra Israele e Iran (un nutrito quanto brancolante lancio di droni e qualche missile iraniani contro la “entità sionista”) e un altrettale risposta “dimostrativa” di vettori israeliani verso installazioni militari alla periferia di Isfahan (nel centro dell’Iran), hanno fatto gridare molti “al lupo” per il terrore di una incipiente guerra atomica tra i due nemici giurati.

Diversamente da tali allarmi da parte della gente comune, giustamente preoccupata da ciò che apprende dai media, che ormai ci stanno abituando al cerchiobottismo informativo, sugli stessi gli esperti e i commentatori più disincantati hanno però tranquillizzato quello che si suole definire il grosso pubblico, avvertendo che non è il caso di entrare in panico.

Molti hanno fatto il paragone delle schermaglie tra “ragazzi della Via Pál”, rodomonti in sedicesimo che, come certi giovani animali infoiati dalle scariche ormonali provocate dalle femmine in estro, danno luogo a combattimenti tanto plateali quanto incruenti per vendicare un piccolo affronto. Questi paragoni, che pure non mancano di fondatezza, secondo me sarebbero ancora più centrati se richiamassero alcune pratiche gladiatorie dell’antica Roma, come per esempio le hoplomachiae. Che nella fatidica arena vedevano fronteggiarsi due o più contendenti muniti di armi spuntate o prive del filo, talvolta addirittura spade o tridenti di legno, che al massimo causavano qualche lividura.

Ma si sa che gli imprevisti possono sempre tendere agguati. Nel romanzo di Ferenc Molnár Il giovane eroe, Ernö Nemecsek, muore per una polmonite che ha ragione della sua complessione minuta e cagionevole; nei combattimenti tra cervi in amore, a volte i palchi dei due contendenti si intrecciano talmente che gli animali, appaiati da un odio reciproco e istintuale, trovano la morte per sete e inedia; nelle lotte tra gladiatori, invece, apparentemente non muore nessuno e qualcuno può rimediare una forte contusione o al più una costola rotta. Peccato che tali confronti siano solo il preludio dei combattimenti veri, che spesso terminano con l’uccisione dell’avversario e, in certi casi, di entrambi.

Netanyahu

Al momento, malgrado lo stile bellicoso e tonitruante di Benjamin Netanyahu e Ali Khamenei, si esclude che i due arcinemici contemplino l’uso dell’arma atomica. L’Iran perché, pur avendo fatto progressi significativi nell’accumulo di materiale fissile (uranio arricchito, ecc.), non risulta ancora in grado di recapitare la “bomba” a destinazione, in questo caso città come Tel Aviv o Haifa, distanti circa 2.000 chilometri. La capitale Gerusalemme (ovest), peraltro, sarebbe probabilmente esclusa per la contiguità di aree palestinesi densamente popolate e per la presenza di luoghi santi anche per l’Islam. Teheran, Isfahan, Qom o altri luoghi nevralgici dell’antica Persia, dal canto loro, potrebbero essere obiettivi sensibili e Israele, se volesse, potrebbe colpirli, disponendo da decenni dell’arma nucleare; una cosa notoria sebbene mai ammessa ufficialmente. Ma se rompesse il tabù, lo Stato ebraico esporrebbe sé stesso e buona parte dell’Occidente al rischio di un conflitto nucleare in cui potrebbero diventare protagoniste le grandi potenze che nonostante tutto sono state al riparo dal rischio dell’autodistruzione in virtù della deterrenza reciproca.

Verosimilmente, dunque, a meno di un colpo di scena positivo oggi tanto inaspettato quanto desiderabile, l’Iran seguiterà a servirsi dei suoi “satelliti”, preferibilmente ma non esclusivamente sciiti, come Libano, Siria, Yemen ed enclave irachene, oltre naturalmente ai palestinesi di Gaza e, in non piccola misura, della Cisgiordania. Dal pogrom del 7 ottobre scorso in Israele, seguito dalla rappresaglia decisa da Netanyahu e da lui tirata il più in lungo possibile, le ostilità tra Israele e i palestinesi si sono fatte sempre più magmatiche.

Incurante non tanto dei “danni collaterali” civili (forse due terzi dei quasi 35.000 morti sinora, dei quali circa 13.000 bambini) quanto del fatto che i capi in testa delle milizie islamiste (Hamas, Jihad ecc.) siano ancora illesi, Netanyahu seguita a martellare la Striscia. Ogni volta che gli se ne offre la possibilità non risparmia azioni oltre i confini di Israele e di Gaza, come quella del primo aprile contro il consolato iraniano a Damasco, che ha provocato la reazione iraniana e controreazione israeliana, o l’attacco del 19 aprile contro una base militare in Iraq a sud di Baghdad, base usata dalle Forze di Mobilitazione Popolare sciite affiliate a Teheran.

Nei giorni tra il 20 e il 22 scorsi, inoltre, ha ordinato raid aerei contro Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, che hanno causato la morte di decine di persone tra le quali numerosi bambini. Nelle stesse ore, Tsahal, le forze armate israeliane, sono intervenute in una operazione antiterrorismo nel campo profughi cisgiordano di Nur Shams, vicino Tulkarem, dove sono stati uccisi una quindicina di palestinesi. Posto che quella colpita in Siria non era una missione consolare iraniana ma una centrale dei pasdaran mascherata, che dalla Striscia continuano a verificarsi lanci di missili e di mortai contro Israele e che nei Territori di Cisgiordania si è intensificata l’attività contro gli israeliani degli insediamenti ebraici, i palestinesi e i capi che li guidano proseguono nelle ostilità, incuranti della forza preponderante del vicino ebraico.

Ciò dimostra, una volta di più, che essi rappresentano gli “utili idioti” sia dell’Iran (al quale non è mai importato veramente del destino di un popolo che tra l’altro disprezza per essere semita e sunnita) sia dell’attuale dirigenza ebraica, alla quale i palestinesi offrono continui alibi per seguitare a massacrare la popolazione della Striscia. Del resto, perché Israele si dovrebbe preoccupare di più delle vittime civili e dei bambini palestinesi di quanto facciano gli stessi interessati?

Un paio di settimane fa, uno dei dirigenti di Hamas, intervistato da una televisione araba, ha ribadito che anche se ci fossero altri centomila morti il suo popolo non cesserà di combattere per cancellare Israele dalle carte geografiche. Musica alle orecchie di Netanyahu e un’affermazione bugiarda e facile a farsi se si sta protetti in un “santuario” lontano dagli scontri o comunque se si è resi invulnerabili dallo scudo rappresentato dai 132 ostaggi israeliani (dei quali una trentina almeno sarebbero solo dei cadaveri), in qualche braccio sotterraneo del dedalo di tunnel scavati in decenni nella Striscia.

Volendo seguire con bieco cinismo una logica vicina a quella della estrema destra messianica cui appartengono buona parte dei coloni israeliani nei Territori, si potrebbe dire che la morte di decine di migliaia di palestinesi lascia del tutto indifferenti gli abitanti degli insediamenti di Giudea e Samaria, come molti palestinesi chiamano, biblicamente, la Cisgiordania. Nell’intimo, i più estremisti di loro, ne gioiscono pure ed è un sentimento che alla fine viene anche alla luce. Io non so quale sia quello di Bibi, ma ho la certezza che un capo di governo cui stia veramente a cuore la sorte del proprio Paese non dovrebbe fare troppa fatica a comprendere come 35.000 morti in meno di sette mesi rappresentano un vulnus allo Stato ebraico sul piano dell’opinione pubblica mondiale e fomentano sentimenti e atteggiamenti di aperto antisemitismo che, come è noto, sono rimasti latenti in molte persone anche in Paesi occidentali.

Per questo, una volta dato seguito a una comprensibile reazione nei confronti delle organizzazioni islamiche responsabili degli eccidî del 7 ottobre, sarebbe stato logico attendersi una tregua di lunga durata. Tanto più che i veri dirigenti delle organizzazioni terroristiche islamiche – salvo alcuni “colonnelli” eliminati, peraltro facilmente rimpiazzabili da altri capi, forse ancora più inferociti e determinati di chi c’era prima di loro – sono al sicuro all’estero; sino ad ora soprattutto in Qatar ma, stando ai servizi segreti occidentali, pronti a trasferirsi, se non già trasferitisi, nella Turchia di Erdogan, amico storico dei Fratelli musulmani.

Invece Netanyahu non pare curarsi del danno morale e di immagine, per alcuni forse irreparabile, che le stragi di civili palestinesi stanno provocando a Israele. Neanche il rischio di perdere o almeno vedere ridotto considerevolmente l’appoggio statunitense lo ha toccato più di tanto, salvo qualche recente, piccolo segnale di contenimento nella sua rappresaglia senza fine, unitamente a un minimo di attenzione in più verso gli ostaggi ancora nelle mani dei miliziani di Hamas dal 7 ottobre. Segnali prontamente lodati da Washington, salvo poi essere contraddetti dalla serie di raid nella zona a sud di Gaza.

Per il leader israeliano, preoccupato essenzialmente di salvaguardare il suo futuro politico che sino a che dura la presente emergenza lo mette al riparo da azioni giudiziarie che incombono su di lui, non ha alcun valore la lezione lasciata da un suo grande predecessore, Yitzhak Rabin: progredire nel processo di pace come se non esistesse il terrorismo, e combattere il terrorismo come se non esistesse il processo di pace.

     A dimostrazione dei guasti provocati dalla politica di Bibi e di alcuni ministri del suo gabinetto, ai quali, benché non siano del suo partito, il Likud, il premier sembra sempre più vicino o, forse, con cui è legato sempre più da una sorta di ricatto che somiglia a un indissolubile abbraccio, basta seguire le manifestazioni che in tutto il mondo hanno luogo contro Israele. Sono soprattutto i giovani delle università i più stolidamente schierati nella difesa di tutti i palestinesi, compresi i miliziani di Hamas, dei quali non pochi sono giunti a portare sulla fronte la fascia con il famigerato motto “Allah-u akbar”.

Gli studenti di vari atenei italiani, mentre chiedono il blocco della collaborazione con Israele, e spesso lo ottengono dai pavidi docenti preoccupati di alienarsi la popolarità di cui godono presso i ragazzi, seguitano a confondere lo Stato con il governo di Gerusalemme. Soprattutto sembrano non sapere (o non capire) che in Israele lo “zoccolo duro” delle manifestazioni contro il governo attuale, che quasi quotidianamente si svolgono nelle città principali – Tel Aviv, la più popolosa, la capitale Gerusalemme e Haifa, che conta la più alta percentuale di arabi israeliani –

è rappresentato proprio dagli studenti, la parte più intellettualmente vivace del Paese e con una preponderante maggioranza laica. In Italia alcuni rettori lo hanno finalmente compreso, ma non di meno ci sono migliaia di studenti e non pochi consigli accademici favorevoli al boicottaggio e alla sospensione degli scambi scientifici e didattici con le università israeliane. Un atteggiamento che a me sembra null’altro che masochistico.

Mentre una parte crescente del mondo arabo e musulmano ha finalmente accolto segnali di distensione da parte di Israele e dell’Occidente, come dimostrano gli “Accordi di Abramo”, che vedono profilarsi l’adesione anche dell’Arabia Saudita, il più importante degli Stati del Golfo, ce n’è un’altra, l’Iran, che seguita a considerare lo Stato ebraico e gli Stati Uniti il prodotto di una satanica alleanza. Per colpire Israele l’Iran, piuttosto che impegnarsi a fondo in prima persona, preferisce invece armare e foraggiare economicamente i nemici di Israele, dei quali si serve come di bracci operativi: di questi i più organizzati e pericolosi sono gli Hezbollah in Libano e gli Houthi nello Yemen. Sino al pogrom di ottobre, anche i palestinesi di Hamas erano in prima fila tra i nemici dello Stato ebraico.

Oggi, dopo la risposta di Israele, lo sono molto di meno, anche se molti analisti si dicono abbastanza sicuri che non passerà troppo tempo prima che possano tornare ad agire e, prima di ciò, a riorganizzarsi nell’ombra.

Sempre a proposito delle critiche degli studenti e delle manifestazioni contro Israele e non il suo governo, mi torna in mente un episodio di molti anni fa, esattamente dell’inizio di febbraio del 1979. A metà gennaio di quell’anno, a seguito di sommovimenti in tutta la Persia, era caduto lo scià Mohammad Reza Pahlavi, già gravemente malato, che fugge precipitosamente assieme alla moglie Farah Diba. Un paio di settimane dopo rientra a Teheran da Parigi, dopo un esilio durato 15 anni, il leader religioso sciita Ruollah Khomeini, che accolto da una folla di quattro milioni di persone e con il sostegno delle forze armate assume di fatto la leadership dell’Iran.

Una mattina di quell’inverno di 45 anni fa, mi trovo all’interno della Sapienza, l’università in cui avevo studiato, per chiedere un certificato. Mentre nella segreteria aspettavo il mio turno si sente un megafono annunciare che per quel giorno le attività didattiche e amministrative erano sospese per una serie di manifestazioni all’interno della Città universitaria. Mentre si cercava di capire il perché di quell’agitazione si cominciano a udire slogan che inneggiano a Khomeini e gridano alternativamente “Morte allo scià!”. A quel tempo, salvo pochi, anzi pochissimi esperti di storia contemporanea del Medio Oriente, nessuno conosceva il nome di Khomeini né aveva mai sentito il termine “ayatollah” e meno ancora la qualifica di “guida suprema”.

 Anche i dimostranti che in festa ne scandiscono il nome ignorano perfettamente chi sia quel vecchio dall’espressione lugubre e torva, coperto da una nera palandrana e col capo avvolto da una sorta di turbante pure nero. Ciò che importa è urlare “morte all’America” e “morte allo scià”. Ci vorranno poche settimane per capire che il mutamento è ad esclusivo beneficio del clero e della milizia dello Stato teocratico nota come pasdaran. Ben presto l’Iran avrebbe detto addio alle prime forme di democratizzazione e di promozione femminile, a partire dal voto alle donne voluto e ottenuto da Farah Diba, nonostante l’opposizione dei preti sciiti (i “mullah”).

Questa volta la mano della teocrazia incrudelisce su tutti quelli che non si piegano con assoluta osservanza ai dettami del nuovo regime. Guai alle donne che in strada sono trovate a capo scoperto, guai a chi osa consumare anche una modestissima quantità di alcol. Parlano gli staffili e altre punizioni corporali; per piccoli “reati” e anche semplici sospetti o delazioni si rischia la forca. Qualcuno comincia a rimpiangere addirittura la Savak, la temibile polizia segreta del tempo dello scià. Insomma, tutti gli scenari ai quali in quasi mezzo secolo di regime teocratico ci hanno abituato le cronache. L’unica differenza, rispetto ad allora, è che il posto del defunto Khomeini è stato occupato da un’altra “guida suprema”, dal nome quasi uguale, Ali Khamenei.

Quasi mai, a parte sporadiche manifestazioni organizzate da fuorusciti iraniani, ai quali si sono uniti pochi manifestanti italiani, si sono avuti corali episodi di protesta contro le nefandezze del regime iraniano o quelle degli Houthi o di Hezbollah. Dopo il 7 ottobre, prima che nella Striscia di Gaza si scatenasse la macchina militare israeliana, non si sono avute manifestazioni di protesta. Anche le decine di donne stuprate prima di essere massacrate dai terroristi palestinesi non sono state giudicate meritevoli di solidarietà dai gruppi antagonisti, “antagonisti”, a pensarci bene, soltanto di sé stessi.

Carlo Giacobbe – Giornalista, scrittore. Già corrispondente dal Medio Oriente

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