Il mito delle due culture quale distrazione di non riconoscimento

"Umanismo, umanesimo, humanitas come critica dell’inumano". "La separazione tra le due culture è arbitrio socio-culturologico". "La comparatistica dei saperi è la versione gnoseologica a cui bisogna tendere"

Dopo l’articolo pubblicato dal professor Mario Capasso, di Unisalento, “Cultura umanistica e sostenibilità. La cancel culture è un virus dello spirito“, BeeMagazine avvia un dibattito sulle “due culture”, la cultura umanistica e la cultura scientifica, e pubblicherà  interventi di altri qualificati esponenti dei due versanti culturali e di rappresentanti istituzionali. Oggi pubblichiamo il contributo del professor Carlo Alberto Augieri, ordinario di Critica letteraria e di Letterature comparate. Il prossimo intervento sarà del professor Carlo Doglioni, presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia.

 

Carlo Alberto Augeri

Mi è difficile condividere la tesi della divisione, della separazione tra le due culture, umanistica e scientifica: la distinzione, semmai, riguarda l’uso fruitivo, la dimensione politico-sociale della scienza e del sapere umanistico, che sono differenti; riguarda pure la strutturazione istituzionale della didattica e del sapere scolastico, così come costituita, a livello di “legge ministeriale”, dalla Riforma Gentile, ispirata anche da Benedetto Croce, basata sulla differenza dei due saperi. Ma è opportuno distinguere la ricezione modale di un modello culturale dal nucleo costitutivo che lo compone.

Mi è anche difficile difendere l’umanesimo senza una critica alle sue pretese di antropocentrismo verticale, di individualismo delimitato in un’identità-idem distintiva, confinativa e propria, insensibile verso un’alterità da riconoscere come autonoma forma d’esistenza: identità basata sull’esagerazione della comparazione forzata e della somiglianza fino all’identico, sì che pure gli dei vivono con i vizi degli uomini, con le loro gelosie, vendette, antipatie  “umane, troppo umane”.

La separazione tra le due culture è un arbitrio socio-culturologico, ma non un dato effettivo  intrinsecamente epistemico-culturale, derivando la seconda, la cultura scientifica, dalla prima, la cultura umanistica, unite dallo stesso processo “mentale” di dare priorità alla ratio, caratterizzata come ragione logocentrica: in effetti, la cultura occidentale è, sin dal mondo greco, di tipo razionale, a carattere scientifico, soprattutto dopo il declino del pensare mitico, a partire, dunque, dall’inizio del VI secolo, nella ionica Mileto, dove la spiegazione del mondo finiva di essere teogonica, per essere, invece, solo naturalistica. La fenomenicità della physis bastava per comprendere gli elementi della natura, considerati alla luce della ragione secondo un percorso logico seguito in seguito dalla scienza, quasi fino a noi.  

Già i Milesi parlano di geometria, di aritmetica e di astronomia, di modelli meccanici dell’universo: la filosofia tiene conto di uno spazio matematizzato e della geometrizzazione del cosmo, a tal punto che Platone fa scrivere sulla soglia dell’Accademia che nessuno possa entrare, se non è geometra.

Il numero e la misura costituiscono il metodo dell’argomentare, avente come fine la politica  (l’homo sapiens di Aristotele è un homo politicus), così come la retorica aveva per scopo la persuasione: una ratio (nous) cittadina, politica, che agisce sugli uomini, a cui riferire il mondo ordinato e relazionato simmetricamente ( si pensi agli Analitici II di Aristotele), secondo connessioni logiche e principi generali, assiomi, capaci di offrire un pensiero esatto, rigoroso, matrice di una scienza dimostrativa basata sull’evidenza e sulla deduzione.

L’idea aristotelica di filosofia si richiama al concetto di scienza (epistéme), perché il ragionare è capacità di astrarre e dare conto, da distinguere dall’opinione comune, dalla doxa, forma confusa e popolare di non ragione, da escludere insieme al pathos, interiorità emotiva, non ordinata, dell’uomo in preda ai furori (la non ragione come irrazionalità).

Insieme al pathos, escluso dal mondo gnoseologico umano, anche Dioniso, dio dell’ebbrezza, viene estromesso dall’Olimpo degli dei, preferendo, il pensiero greco, il sublime ed il trasfigurativo apollinei, secondo un’armonia geometrica, moderata e composita, perfetta, delle forme estetiche e della logica: all’ebbrezza delle emozioni, alla danza del pensiero, viene condiviso il pensiero che “marcia” verso la difesa e che naviga, tralasciando le curiosità, imponendosi a non sentire le sirene, verso il ritorno a casa “propria”, dove anche l’estraneo paesano è un nemico pretendente da uccidere, in difesa del proprio potere, della propria proprietà, della propria casa.

Tra Ulisse che mira con lo sguardo calmo e preciso la direzione del dardo da lanciare con l’arco (anche il risplendente dio Apollo ha in mano l’arco ), al fine di uccidere la seconda generazione di giovani Itacesi, e lo sguardo occidentale fino ad oggi, sguardo della Medusa che mira gli obiettivi, obiettivamente, lanciando bombe intelligenti, miranti ad uccidere in modo mirato, secondo le mire del piano offensivo, c’è continuità e pure contiguità: lo sguardo scientifico è stratigrafico, mirante ad oggettivare il guardato come conquista di conoscenza sovrapposta, spogliandolo dei suoi segreti più intimi fino all’invisibilità, dove l’ente perde il suo essere “fuggito” dalla presa di possesso dello sguardo che copre ogni epifania, facendo scoprire, invece, le idee già composte in laboratorio, cimitero del vivente sottratto alla natura, dove il fenomeno dinamico, relazionale, vive liberamente fino al suo fiorire oltre lo sguardo mirato. 

Il logocentrismo della ragione ha segnato il confine entro dove si è costituita la terra come propria, da difendere contro i barbari, gli altri d’oltre confine che parlano una lingua diversa dalla “nostra”; ha messo ordine funzionale al pensare, dando metodo oggettivo al procedere della ratio, la sempre accorta, misurata, diurna, forma di conoscenza vera e saggia, costituita come logica dell’identità, della descrizione, della cosalità, della distinzione e della verità superiore, seria, assennata e cauta per delimitazione moderata, nemica di ogni coesistenza sconvolgente, rischiosa di incontrollata confusività unitiva, da dominare con il fine dell’armonia e della perfezione oltre ogni antitesi; logica della determinazione statica, per la quale i nomi sono sostanze, il mondo è kòsmos, ossia ordine, il molteplice è unità inanimata di essenze, riconosciute secondo il principio binario di equivalenza ed esclusione. 

Al centro, e verticalmente, vi abita l’uomo, cioè l’eroe, dunque l’individuo, chiuso e distinto nel suo  accorto e composto principium individuationis, con l’individuale potenza del vincere e dell’imporsi sull’altro uomo e sul mondo (con l’ideale dell’eccellenza e della dignitas  personale fino all’umanista Baldassarre Castiglione; con il riconoscimento dell’apoteosi dell’uomo-soggetto fino alla sua deificazione, theos anthropos, in Pico della Mirandola, ad esempio), che legge il presente, guardato come misero con i suoi fatti normali, con le gesta e le glorie del passato da imitare e proporre.

Insomma, proprio nell’umanesino non c’è cura verso l’umano nella sua humanitas comune, neppure nei confronti dell’esistenza, a cui si antepone l’astratta, generica essenza: nell’umanesimo storico il popolo non parla, le donne non hanno parole fuori dal ruolo loro attribuito “a priori”, il pathos è da tradurre in lingua composta e secondo l’essenza dell’anima razionale, l’animus è riconosciuto solo come mens, prerogativa d’eccellenza unica nella natura e pure nel naturale del corpo umano, prigione forzata dell’animo (Platone). 

Insomma, la cultura scientifica è effetto della ratio filosofica classica nel suo ruolo perspicace di constatare, definire, determinare le cose ed i fatti, di cui è possibile dare spiegazione che ne accerti l’entità e ne determini la struttura precisa, la materia specifica, il contorno ordinato e distinto rispetto alle altre cose, conformi alla loro materia e funzionale a qualche scopo, avente l’utile e l’uso come impiego, per cui gli oggetti diventano attrezzi  e mezzi di cui verificare la portata e l entità applicativa.

Certo, dalla ragione ordinatrice della costituzione del kòsmos si possono cogliere l’aspetto pragmatico-tecnico e quello teoretico-speculativo, ma non mi sentirei di distendere questa distinzione, già presente in Aristotele, in modo da legittimare la differenza tra due culture diverse, fino alla loro opposizione: del resto, andando a leggere “dentro” le opere complessive degli autori più rappresentativi del pensiero scientifico, come Pascal, Cartesio, Copernico e Galileo, ad esempio, è da cogliere l’unitarietà di discorso scientifico ed umanistico: pertinente il riferimento a  Cartesio (chiedo scusa se mi limito solo a Lui, per ovvi motivi di brevità), alle sue Lettere sulla morale ed al Trattato delle passioni, in cui si discorre dell’anima, sede delle azioni, atti volontari,  e delle passioni che sono le percezioni “o conoscenze d’ogni sorta che si trovano in noi”.

Anche per quanto riguarda la contemporaneità, non si possono non conoscere  scienziati di valore universale, quali Albert Einstein, Werner Karl Heisenberg, Niels Bohr, Bertrand Russell, Pierre Teilhard de Chardin,  Ennio De Giorgi, che sono anche umanisti: scrivono anche di filosofia, teologia, di etica militante rivolta alle ragioni del vivere civile.

Addirittura oggi si va verso una scienza  sempre più attenta all’humanitas come  promozione dell’umano e delle ragioni a difesa dell’uomo, qualunque uomo, planetario non solo domestico e nazionale, nel suo soffrire l’inumano, effetto dell’arroganza della ragione prepotente dei poteri e dell’imbrigliamento massivo del pathos; promotrice anche  delle forme di sapere umanistico, a cominciare dal suo vocabolario concettuale. 

Un esempio eclatante è offerto dalla scienza medica e biologica, in cui la  concettualizzazione ermeneutica e semiologica di segno, codice, messaggio, comunicazione diventa vettore di significazione del funzionamento della cellula, compreso il codice genetico; del resto, l’uso retorico della metafora nella scoperta scientifica è esteso ed essenziale nell’informatica, nell’astronomia, nella robotica, nell’intelligenza artificiale, nelle neuroscienze  ed in altri saperi conoscitivi. 

Non solo: le categorie logiche cronotopiche nella fisica, in particolare quantistica ed in quella astronomica, e nella matematica non possono non interessare la letteratura, l’estetica e la filosofia, dal momento che il motivo del tempo e quello dello spazio (infinito, indeterminato, illimitato) hanno caratterizzato da sempre la rappresentazione della realtà integrale, dentro e fuori dell’uomo, costituendo la morfologia dell’eterotopia e quella dell’intratopia la caratterizzazione del viaggio nella narrazione dall’epos classico alla modernità. 

A proposito di tempo-spazio, un’altra rivoluzione importante riguarda l’atto del vedere, la fenomenologia dello sguardo, che interessa la poesia, la narrazione, l’estetica delle arti visive, ma anche la diagnostica medica, la botanica, l’astronomia: i moderni cannocchiali astronomici, ormai in cammino verso e oltre il sistema solare, sono protesi a guardare l’infinito, che è il piacere umano per eccellenza, leopardianamente inteso: nel guardare l’infinito sono coinvolti la scienza dello sguardo, che non può non essere multidisciplinare, dunque astronomica, fisica, ma anche poetica, per donare parola d’infinito (impressivo, emotivo, esistenziale) alla decodificazione, anche simbolica, dell’infinito stesso.

In conclusione: la comparatistica dei saperi è la nuova versione gnoseologica a cui dobbiamo tendere, per significare un mondo che la tecnica ci offre allo sguardo e che l’arte del comprendere deve decodificare in modo multidisciplinare.

Non si tratta di congiungere soltanto saperi differenti, ma di riflettere su nuove metodiche per decodificare il nuovo che si affaccia all’interrogativo umano del sapere: nuovo, anzi nuovissimo, su motivi ed elementi su cui la mente non ha mai riflettuto nella storia della cultura, perché per la prima volta posti di fronte allo sguardo del comprendere.

Il problema vero ed urgente è, di conseguenza: con quali parole conoscere lo sconosciuto, che si affaccia alla domanda di conoscenza nella nostra contemporaneità?

Conoscere per interpretare, al fine del comprendere: ecco la sfida della modernità, a cui scienziati-studiosi dell’umano e della natura sono chiamati a rispondere.

Certo, utilizzando riferimenti mentali e gnoseologici non prigionieri di passati pregiudizi, quale la stessa differenza tra uomo e natura, ad esempio, come se l’umano non sia naturale e la natura non sia non solo umana, coinvolgendo animali, piante e altri componenti dell’esistenza non riducibili all’essenza generale e genericamente astratta.

Ciò che esiste coesiste, consiste: insiste a farsi comprendere.

Comprendere è un gesto ermeneutico che accompagna l’uomo sin dalla prima scintilla aurorale della coscienza, base della comprensione umana, dunque scientifica e filosofica,  della mente e della poetica emozionale del cuore. 

Per essere profonda, la comprensione deve essere dialogica tra saperi integranti, tra culture plurali, di lingue “in contatto”, di sguardi contemplanti nel leopardiano gesto del “sedendo e mirando”: ossia, della calma senza fretta dello studio e del mirare con lo sguardo ammirato: si tratta di un “mirare” osservativo leopardiano, pieno di meraviglia, gioioso nella meraviglia. La meraviglia, “madre” di ogni originario, motivato atto conoscitivo e di ogni trasmissione generazionale di conoscenza. 

Insomma, oggi come ieri e come l’avanti ieri il mirare con meraviglia non è il mirare oggettivato predatorio di vite e di segreti: è la scintilla del conoscere per interpretare: si tratta della meraviglia di Aristotele, di quella di Cartesio e Galileo, di Einstein dei diari, di Leopardi di oltre la siepe. Oltre la quale l’infinito del conoscere ci attende come accoglienza del Sapere, come riconoscenza dei Saperi. 

 

Carlo Alberto Augieri – Professore ordinario di critica letteraria e di letterature comparate

 

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