Nella Russia postcomunista le cose andarono nel modo che portò Vladimir Putin al potere assoluto ed a capo di una “democratura”, impudico neologismo spregiativo della libertà, in realtà un sinonimo di “cleptocrazia oligarchica”. La sua guerra di annientamento contro l’innocente Ucraina impone di ricordare, specialmente ai simpatizzanti ed equidistanti nostrani, con chi abbiamo a che fare.
Il 16 dicembre 2010, nella rubrica delle lettere curata da Sergio Romano, già ambasciatore a Mosca all’epoca dell’Unione Sovietica, il Corriere della Sera sotto il titolo “Russia postcomunista, manuale per arricchirsi” pubblicò la mia lettera a lui indirizzata: “Caro Romano, salvo le recenti “rivelazioni” sullo Stato-mafia, non ho mai letto sui giornali la spiegazione di un fatto tanto evidente quanto sorprendente. Nel 1991 finisce il comunismo sovietico. Vladimir Putin ha sui 35 anni e gli altri magnati ancora meno. La proprietà era tutta statale. Come hanno fatto questi giovanotti a diventare miliardari in dollari? La risposta è semplice. Hanno spartito la roba di tutti e se la sono presa gratis. Il servizio segreto ha fatto il servizio in segreto ai poveri russi che, o zarismo, o bolscevismo, o oligarchismo, sono secoli che vengono calpestati. Perché non si dice? Per quattro motivi: paura, gas, petrolio, mercato. Vorrei comunque il suo parere: la Russia la conosce bene”.
La risposta di Sergio Romano
Sergio Romano diede una puntuale risposta a me ed una rigorosa lezione di storia agli smemorati, che soprattutto oggi dovrebbero meditarla: “Caro Di Muccio de Quattro, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la morte del comunismo, la Russia aveva industrie vecchie, infrastrutture insufficienti e dirigenti aziendali privi di qualsiasi nozione sul funzionamento dell’economia di mercato. I medici occidentali accorsi al capezzale del malato prescrivevano ricette diverse, ma generalmente fondate sulla tesi che occorresse privatizzare e liberalizzare. Un ministro, Anatolij Chubajs, raccolse la sfida e decise la pubblica distribuzione di voucher (noi diremmo buoni o coupon), ciascuno dei quali corrispondeva a una piccolissima percentuale della proprietà di un’industria di Stato. Per diventarne proprietari occorreva naturalmente fare incetta di voucher sul mercato. È questo il momento in cui entrano in scena i personaggi che verranno successivamente chiamati oligarchi. Sono giovani, intelligenti, ambiziosi, quasi sempre provenienti da ottime scuole tecniche e scientifiche e già noti per la loro intraprendenza nelle organizzazioni giovanili del partito comunista. Il denaro di cui hanno bisogno per comprare voucher è nelle Casse di risparmio, enormi salvadanai in cui il cittadino sovietico deposita il denaro che non riesce a spendere nei negozi semivuoti del Paese. Grazie alle loro amicizie nell’apparato politico-amministrativo dello Stato, questi giovani intraprendenti ottengono prestiti di favore, usano il denaro per comprare i voucher e lo restituiscono quando l’inflazione a due cifre ha drasticamente ridotto l’ammontare del debito. Il resto della storia è meglio noto. Quando l’azienda comprata gestisce risorse naturali (gas, petrolio, legno, minerali) l’oligarca esporta le ricchezze della Russia, trattiene all’estero gran parte del ricavato, evade il fisco e unge tutte le ruote necessarie al buon funzionamento della sua macchina. Non basta. Per meglio consolidare il suo potere crea una banca che gli permette di gestire segretamente i suoi flussi di denaro e compra giornali o canali televisivi che gli coprono le spalle e possono all’occorrenza condizionare il potere politico. La storia di Vladimir Putin è alquanto diversa. Quando torna a Leningrado dopo la fine del suo incarico in Germania, l’ex colonnello del Kgb ritrova il suo vecchio professore della facoltà di giurisprudenza, Anatolij Sobchak, uomo di grandi qualità morali e intellettuali. E quando Sobchak è eletto sindaco della città, Putin diventa il suo più stretto collaboratore sino al giorno in cui sarà chiamato a Mosca per assumere funzioni sempre più importanti nella cerchia di Eltsin. Putin, quindi, non è un oligarca. Sarà anzi il maggior nemico degli oligarchi, l’uomo che restituirà allo Stato il controllo delle risorse svendute nel decennio precedente e non esiterà a punire duramente quelli che gli oppongono resistenza. Con gli altri, tuttavia, sarà più tollerante e conciliante. Gli oligarchi, quindi, non sono interamente scomparsi. Quelli che obbediscono allo Stato (o, per meglio dire, a Putin) hanno ancora il diritto di conservare i loro tesori e di accrescerli”.
Dal 2010, anno della risposta di Sergio Romano, il controllo di Putin sugli oligarchi è diventato sempre più assoluto, come sugli apparati pubblici e privati. Egli ha finito per controllare tutto: potere politico e potere economico, essendo il vero padrone dello Stato e non rispondendo più a nessuno. Ha portato alla perfezione del genere il saccheggio delle ricchezze nazionali e l’asservimento dei beni del popolo russo. La sua autocrazia, benché esercitata in un sistema diverso dal collettivismo sovietico, nondimeno risulta equivalente se non addirittura superiore a quella dello stesso Stalin, suo inconfessato modello.
Pietro Di Muccio de Quattro –Direttore emerito del Senato della Repubblica, Ph.D. dottrine e istituzioni politiche