Il Paese rischia di implodere. Tra chi vuole mantenere Israele laico e sionista originario e gli ortodossi che vogliono imporre l’halakhah.
Nella sua storia, la tenuta sociale di Israele e la sua stessa esistenza – da poco si è festeggiato il 75 esimo anniversario della sua nascita – non è mai stata messa così in discussione.
Nemmeno durante i giorni successivi alla proclamazione dell’indipendenza del 1948, quando la Lega Araba dichiarò guerra contro lo Stato allora guidato da Ben Gurion, o nei giorni successivi all’invasione di Egitto e Siria durante lo Yom Kippur del 1973, Israele fu così a rischio come lo è oggi.
Il nemico principale questa volta non riguarda in prima istanza il conflitto con i palestinesi e chi vuole distruggere Israele, ma l’emergere sempre più consistente della frammentazione delle varie tribù che popolano lo Stato ebraico (fotografata nel 2015 dall’ex Presidente Rivlin) e che hanno tra di loro una concezione totalmente diversa dello Stato. Idea differente anche per quanto concerne i valori fondanti del Paese, che di conseguenza rendono impossibile, come dichiarato dallo stesso Rivlin, l’unità nazionale.
La frammentazione di cui parlò l’allora Presidente, distingue ebrei laici, religiosi, ultraortodossi e arabi, ove gli ultimi, non sentendosi parte integrante dello Stato, risultano totalmente assenti nelle piazze di protesta contro la riforma della giustizia. Quest’ultimo è un aspetto molto importante che deve far comprendere la natura di uno scontro che non si esaurisce più esclusivamente, tra arabi ed ebrei, anzi, al contrario sta alimentando il conflitto tra i laici e l’unione, ormai consolidata, tra ultraortodossi e nazionalisti religiosi.
Basterebbe, dunque, leggere il titolo del mensile di Limes, Israele contro Israele, per comprendere come la difficilissima situazione che sta vivendo il Paese sia questa volta principalmente un problema interno e che, a differenza dei numerosi conflitti del passato, in cui il popolo israeliano riuscì quasi sempre ad avere la meglio sul nemico, la soluzione oggi sembra lontanissima.
Le proteste sulla riforma della giustizia, che hanno portato in piazza centinaia di migliaia di persone, non vanno quindi ritenute meramente delle questioni inerenti alla sfera giuridica del paese, ma sono invece l’apice di un problema molto più grande, che Israele avrebbe prima o poi dovuto affrontare, ovvero definirsi definitivamente uno stato laico in cui l’ebraismo è certamente privilegiato, ma che garantisce al contempo diritti per le minoranze, oppure uno stato teocratico in cui la Torah diventi legge suprema del paese, dando seguito alla Legge fondamentale approvata nel 2018 che afferma che “Israele è lo Stato nazione del popolo ebraico nel quale esso realizza il suo diritto naturale, culturale, storico e religioso all’autodeterminazione”.
Sarebbe, dunque, un errore analizzare queste proteste concentrandosi esclusivamente sul ruolo di Nethanyahu, del suo governo e della contestatissima riforma.
È doveroso, infatti, sottolineare che chi sostiene la riforma, manifestando anche in maniera violenta affinché venga approvata, è quella parte ortodossa che vede nel ridimensionamento della magistratura un primo passo per trasformare Israele in senso religioso e autoritario, col rischio concreto (quasi certezza) di riaccendere la questione palestinese.
Vi è poi, dall’altra lato, il paese laico che non vuole arrendersi all’affermazione della religione sulla politica, ma come sostiene Domino, rivista geopolitica diretta da Dario Fabbri, nonostante la forte volontà di resistere per difendere il carattere secolarizzato del sionismo, l’arretramento demografico di questa parte di popolazione è netto, in evidente declino rispetto al crescente peso demografico dei nazionalisti religiosi ed ultraortodossi, rappresentati dai partiti HaTzionut HaDatit e Hotzma Yehudit, i quali stanno diventando sempre più influenti.
La domanda, dunque, che sorge spontanea è se Israele riuscirà a superare queste divisioni senza che sfocino in una guerra civile? Lo stesso Presidente della Repubblica Herzog, il 15 marzo 2023 ha dichiarato di non poter escludere questo scenario.
Divisioni interne che, di conseguenza, paralizzando il Paese e mostrandolo debole, potrebbero attirare attacchi dai nemici storici, i quali non troverebbero più di fronte quello Stato in grado di unirsi in maniera unica nei momenti difficili, qualità indispensabile che ha caratterizzato i suoi primi 75 anni di storia.
Francesco Spartà – Giornalista