Folies d’été, il voto dietro l’angolo e la sindrome di Weimar

L'urgenza di una nuova legge elettorale si è fatta ancora più forte. Non si può andare al voto per eleggere un parlamento mutilato del 40% senza aver tolto di mezzo quell'obbrobrio delle liste bloccate e immaginato un congegno a garanzia di rappresentanza e governabilità.

Tana libera tutti: non solo per lo scomposto e incosciente dileggio delle istituzioni inflitto dalla farsa del voto/non voto, resto al governo/ non resto, non voto/ma mi pento, di quell’armata Brancaleone che si accalca dietro gli omeri incerti del capo dei Cinque Stelle e la sprezzatura falso-indignata di Travaglio. 

Ma anche per le sciocchezze in libertà che si leggono qui e là, anche su fogli altolocati,  sull’ineluttabilità del voto dopodomani mattina. Suvvia, ragazzi, cerchiamo di mettere ordine e di ragionare, sul filo parallelo di politica e procedura, su cosa è possibile aspettarsi e cosa invece no.

Draghi ha rimesso il suo mandato nelle mani di Mattarella dopo la “non fiducia” dei “conticini” (Grillo, ormai, si chiama fuori, Di Maio ha fatto la secessione, dunque sono rimasti solo i seguaci di Conte. I conticini, appunto). A parte la sgangheratezza del “come”, con voto di fiducia dato alla Camera il giorno prima e poi la fuga al Senato, ministri che restano nell’Esecutivo e battono pure le mani al premier per il suo discorso di commiato, c’è un equivoco di fondo sulla natura di questo governo che Draghi ha continuato a definire di “unità nazionale”.

Che vuol dire “unità nazionale”? Che ci stanno dentro tutti. Nel governo Draghi, però, non è così, perché non c’è il maggiore partito italiano, secondo i sondaggi, quello della Meloni. Dunque la crisi si è aperta su un altro tipo di governo che vede la convergenza politica di più forze, ancorché ideologicamente distanti, intorno ad una piattaforma programmatica condivisa di interventi urgenti sul corpo di un Paese in affanno. 

Tra queste forze viene meno il Movimento Cinque Stelle, che ha appena subito un’importante scissione e si prepara probabilmente a perdere altri pezzi. La maggioranza, anche larga, ha dato il suo voto di fiducia al Senato, dunque, il governo, senza i Cinque Stelle, avrebbe il consenso per andare avanti. Sennonché il presidente del Consiglio, leggendo in questo gesto dei conticini la rottura di un patto di lealtà su cui si fonda il governo – che, a ragione, ritiene poggiarsi essenzialmente sul suo personale patrimonio reputazionale- rende noto che non ne vuole sapere. Posizione, peraltro, corretta dal punto di vista costituzionale: cambia l’area del consenso al governo, dunque, rimetto l’incarico che avevo avuto per quella geografia politica che non c’è più. 

Sono tra quelli che ritengono una iattura il fatto che Draghi possa lasciare la nave in mezzo ad una specie di tempesta perfetta in cui l’aggressione dei mercati internazionali, l’inflazione galoppante, la guerra alle porte di casa, il covid che ammazza ancora centinaia di persone al giorno, la benzina alle stelle, il gas che non c’è, l’estate torrida, l’autunno e l’inverno gelati, il PNRR da completare, la Russia che batte le mani soddisfatta ( e qualche altra disgrazia la dimentico), rappresentano il catalogo degli incubi più orrorifici che un italiano possa concepire. 

Mi auguro con tutto il cuore che la moral suasion del Capo dello Stato e del mondo occidentale riescano a far prevalere ancora una volta quel senso di dedizione al Paese che ha sorretto l’esperienza dei 17 mesi di Mario Draghi al governo. La pur umanissima e comprensibile delusione di una personalità che è stata chiamata a prestare la sua competenza e il suo impegno al Paese, qualità peraltro ritenute dalla politica non idonee a fargli ricoprire l’incarico di presidente della Repubblica (non dimentichiamo questo passaggio…) – ufficialmente per non distoglierlo dal suo ruolo di governo, ma in realtà per quel filo di idiosincrasia che i politici coltivano nei confronti di chi viene da mondi estranei- resta uno scoglio importante. 

Ma se lo scoglio dovesse permanere, la via maestra davvero resta solo quella del voto? C’è qualcosa di surreale nell’invocazione “alle urne”. A settembre-ottobre, come si dice, per avere un governo che faccia la legge di stabilità? Ma veramente c’è qualcuno in giro che ritenga plausibile una campagna elettorale sulle spiagge italiane nel mese di agosto (forse neanche Salvini, dopo la trista storia del Papeete…)? 

E, dopo l’esperienza del 2018 -tre mesi di tormento per fare il primo governo impossibile della legislatura che sta morendo – c’è qualcuno che seriamente può pensare di salvare il Paese dalla sciagura dell’esercizio provvisorio che scatta se entro dicembre non viene approvato il bilancio preventivo dello Stato? 

E che fine farebbe la legge di stabilità, che regola la politica economica per il triennio a venire? Si tratta di procedure che impegnano mesi di lavoro parlamentare e un governo che produca i progetti assumendosene la responsabilità politica: immaginiamo davvero di poter liquidare queste procedure essenziali nel giro di un paio di settimane? Chi pensa questo o è in malafede, e allora non vuol bene al Paese, oppure è ingenuo e allora fa male al Paese.

Questa legislatura, prodotta da una legge elettorale incoerente, è nata male, senza una maggioranza “normale”, compatibile per visione politica e per profilo programmatico ed ha trovato nell’urlo qualunquista il collante che l’ha fatta partire. Gli argomenti usati oggi per dire “andiamo alle urne subito” avrebbero dovuto essere usati nel 2018, prima che si avviasse il Conte I. Magari dopo aver messo mano alla legge elettorale già da allora. 

Oggi l’urlo qualunquista si è fortunatamente ridotto ad un gracchiare quasi afono ma l’urgenza di una nuova legge elettorale si è fatta ancora più forte: non si può andare al voto per eleggere un parlamento mutilato del 40% senza aver tolto di mezzo quell’obbrobrio delle liste bloccate e immaginato un congegno a garanzia di rappresentanza e  governabilità. 

Insomma, se c’è da firmare un appello per chiedere a Draghi di restare lì dov’è, ci siamo, ma se Draghi non è disponibile non c’è nulla che impedisca il varo di una nuova esperienza di governo, di solidarietà nazionale a questo punto, senza quel pezzo di Cinque Stelle che si è chiamato fuori, per fare le cose essenzialissime e non lasciare il Paese in braghe di tela. 

La legislatura è comunque agli sgoccioli, anzi, politicamente era morta già a marzo 2018, e Draghi ha avuto il merito di rianimarla e di darle una mission. Completare il lavoro avviato per non far precipitare l’Italia in una deriva Weimariana ( dalla Repubblica di Weimar, NdR), esponendo la democrazia allo sfregio incosciente di qualche dilettante allo sbaraglio e alla speculazione rapinosa di molti professionisti nei mercati finanziari, è un dovere. Che qualcuno dovrà compiere per questo Paese.

 

Pino Pisicchio – Professore ordinario di Diritto pubblico comparato e già deputato in varie legislature

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