L’elezione del presidente della Repubblica, tra tutte quelle che riguardano cariche elettive, ha una sua peculiarità, quasi una singolarità: non prevede candidature. A Capo dello Stato insomma non ci si candida. Semmai, si viene candidati.
Da chi? Ma dalle forze politiche, dai gruppi parlamentari, che poche ore prima del voto fanno una dichiarazione ufficiale. Senza di che, si va alle votazioni e non si sa mai quale possa essere il risultato. Le sorprese infatti non sono mancate nella storia della elezioni presidenziali degli ultimi 70 anni e passa.
Per fare un esempio per tutti: nel 1955, il candidato ufficiale della Dc era Carlo Sforza, e invece fu eletto Giovanni Gronchi con il voto delle sinistre, di una parte della Dc (franchi tiratori) e anche della destra. Vale anche per le elezioni del potere civile il motto che fu coniato per l’elezione del papa: chi in conclave entra papa, ne esce cardinale. Non è una regola, ma una tendenza.
La Costituzione indica chiaramente CHI deve eleggere il presidente della Repubblica: i senatori, i deputati e i delegati regionali riuniti in seduta comune a Montecitorio, sotto la presidenza del presidente della Camera. La Carta inoltre indica COME il Presidente deve essere eletto e con quale quorum: nei primi tre scrutini con i due terzi dei componenti del collegio elettorale; dal quarto scrutinio in poi con la maggioranza assoluta.
Ma null’altro dice su COME si arriva a votare una persona invece di un’altra, e su come questo personaggio è stato designato per essere votato. Questa zona indistinta, di non scritto e di non detto, è stata chiaramente lasciata dai Padri Costituenti alla determinazione del Parlamento, dei gruppi parlamentari e dei partiti.
Un’altra caratteristica, quasi una regola non scritta delle elezioni presidenziali, è il fattore tempo. Come a teatro, dove se si entra in scena troppo presto o troppo tardi si rischia di compromettere lo spettacolo, anche nella operazione Quirinale bisogna stare attenti ai tempi, soprattutto di entrata.
Per esempio: se un personaggio viene indicato per il Colle troppo presto, di solito quel nome è bruciato. E l’interessato infatti non gradirebbe, per non dire di peggio, un articolo di giornale che lo lanciasse verso il Colle molto tempo prima che la danza cominci.
A questa regola non scritta, ma valida in quanto prassi consolidata, se ne può aggiungere un’altra, conseguente alla prima: e si chiama impronunciabilità. Un nome, appena viene fatto, quasi sempre è bruciato, come nelle “nomine” della trasmissione “Grande Fratello”. E perciò colui (o colei) che voglia avere chances concrete di salire al Colle, deve scegliere un basso profilo, quasi un “vivi nascosto”!.
Tanto per fare nomi: in tutte queste settimane avete mai sentito una dichiarazione di Pierferdinando Casini, di Giuliano Amato, di Marcello Pera?
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Casini sembra essere espatriato. Da quando ha capito che potrebbe avere qualche chance, da vecchio democristiano navigatore in acque tempestose, ha scelto la vita del monaco trappista.
Facendo una descrizione oggettiva, escludendo quindi considerazioni valutative ma solo rappresentative: quali sono le chance di Casini? Quante sono, direbbe Stalin, le sue divisioni?
Casini è un democristiano di lungo corso. Inossidabile. Come una salamandra è passato indenne attraverso le fiamme di Tangentopoli che ha toccato il suo maestro Forlani, e colpito il suo braccio destro Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc.
È stato presidente della Camera ai tempi del governo Berlusconi dei cinque anni consecutivi ( 2001-2006). La presidenza della Camera è stata più di una volta rampa di lancio per il salto al Colle, presidenza però in corso: avvenne con Gronchi nel ’55 e con Scalfaro nel ’92; in differita, nel caso di Leone nel 1971, di Pertini nel 1978 e di Napolitano nel 2006. Per la presidenza del Senato, vale il caso di Cossiga eletto al Quirinale nel 1985 mentre era presidente dell’Assemblea di Palazzo Madama.
Essere presidenti della Camera insomma, lo dice ormai la statistica, aiuta ad avere una pole position verso il vertice dello Stato.
Non vale per tutti ovviamente. Due presidenti della Camera si sono messi fuori gioco da soli e hanno avuto, per motivi diversi, un clamoroso declino: Bertinotti e Fini, che non furono eletti neanche deputati nella legislatura immediatamente successiva in cui erano stati presidenti della Camera.
Casini ha dalla sua una naturale affabilità, che lo porta a essere alieno dai contrasti e dagli scontri, come si nota nei suoi interventi nell’Assemblea del Senato, quando con i suoi modi da fine dicitore nel suo accento emiliano fa di solito appelli alla ragionevolezza e alla composizione dei dissidi, quasi al di sopra delle parti.
Per queste sue doti fu scelto come presidente della Commissione d’inchiesta parlamentare sulle Banche: una rogna ma anche una occasione per mettere in opera le sue capacità per conciliare a volte l’inconciliabile. Il suo capolavoro, chiamiamolo così, è stato quello di farsi eleggere nelle scorse elezioni nelle liste del Pd, a Bologna: l’allievo di Forlani, che non era stato mai tenero con i comunisti, non ha avuto difficoltà a convivere con i loro nipoti politici.
Per questa mitezza di fondo, per questa duttilità imparata alla scuola democristiana di Forlani e Bisaglia, Casini è ritenuto – e immaginiamo si consideri lui stesso – un uomo adatto a garantire tutti, perché rifugge dalla faziosità. E ad alcuni osservatori sembra il candidato che proviene sì dal centrodestra ma che ha acquisito via via un profilo bipartisan.
Se il centrodestra valuterà che puntando su Berlusconi rischia di perdere la partita e la guerra; se dopo aver tributato al Cavaliere tutta la stima e l’appoggio promessi e proclamati, ma senza successo, decidesse di puntare su un altro candidato, nella lista delle variabili si troverebbe in pole position proprio Casini. E proponendolo al Pd, il centrodestra metterebbe il partito di Letta in oggettivo imbarazzo: come potrebbe dire no a Casini, che è un senatore eletto nelle liste del suo partito?
A questa ipotesi, per qualche tempo, sembrava stesse lavorando Mattero Renzi, che tra le sue specialità, nonostante diriga un partito con percentuali minime (ma ha ancora un nutrito drappello di parlamentari), coltiva quella del kingmaker: lo ha fatto con Draghi, inutile negarlo, e ora pare che voglia rifarlo concorrendo in modo decisivo alla scelta del nuovo capo dello Stato. Voci messe in giro indicano un nome: Paolo Gentiloni, commissario europeo. Ma queste voci hanno tutta l’aria di depistare i giornalisti. La figura di Gentiloni, che è stato presidente del Consiglio, succeduto proprio a Renzi dopo la sconfitta al referendum, è di profilo alto. Una sua elezione libererebbe un posto di prestigio su cui qualcuno probabilmente ha messo gli occhi. Ma in questo caso può tornare utile il motto: quieta non movere et mota quietare.
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Un motto che molti fanno valere per l’attuale presidente del Consiglio Draghi. O in buona o in cattiva fede, vallo a capire, chi non vuole Draghi al Quirinale spende l’argomentazione che egli dovrebbe finire il suo lavoro specialmente in questa emergenza pandemica, ricordando che proprio per questo è stato chiamato da Mattarella dando origine a un governo di sostanziale solidarietà nazionale. Draghi, intuendo che sotto queste argomentazioni ci sia dell’altro, è uscito allo scoperto durante la conferenza stampa di fine d’anno, dicendo che il lavoro egli lo ha portato a termine, e che chiunque può continuarlo. Come dire: se la missione a cui sono stato chiamato deve essere una gabbia sia pure dorata, io non mi ci faccio ingabbiare.
Draghi però è personaggio che, per l’aureola che gli è stata costruita attorno, anche dai giornalisti, o passa al primo scrutinio, o al secondo o al terzo, o rischia l’avventura dei franchi tiratori.
Memorabile e da non dimenticare l’episodio di Prodi: dopo che il segretario del Pd Bersani propose all’assemblea dei deputati e senatori del partito: allora votiamo domani Prodi? Si scatenò l’applauso, e sembrò unanimità.
Ma l’indomani ben 101 di quegli elettori che avevano detto sì accoltellarono il professore bolognese: peggio di Giulio Cesare che di coltellate ne ebbe 23!
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Nel centrodestra, pur non venendo alla scoperto, non sono pochi quelli che si aspettano, che sperano che Berlusconi alla fine, fatte le sue valutazioni, possa decidere di non andare allo scontro, visto che dall’altra sponda dello schieramento politico lo tacciano di “divisivo”. E decida di rinunciare.
Ma poiché Berlusconi non concepisce, per ragioni di dna di imprenditore e di politico, l’idea della sconfitta o della ritirata, egli potrebbe trasformare la sua rinuncia in una opportunità: se non può fare il kingmaker di se stesso, potrebbe volerlo fare di altri. Come? Proponendo nomi che egli ritenga graditi, oltre che adatti.
In questo scenario, un nome che potrebbe fare sarebbe quello di Gianni Letta. Il personaggio ha un profilo naturaliter bipartisan, come dimostrano gli attestati di stima provenienti dai più vari settori del Paese; ha dimostrato negli anni di non essere un consigliere yesman, ma una voce che quando è necessario sa essere critica e propositiva se non alternativa.
Nel caso di Letta, se il centrodestra lo proponesse, il problema potrebbe essere paradossalmente non quello di trovare i voti degli elettori ma l’assenso del diretto interessato, data la natura schiva e riservata del personaggio.
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Un altro papabile di cui le cronache hanno fatto cenno, da scegliere tra chi ha ricoperto cariche istituzionali e quindi tra le “riserve della Repubblica” è il senatore Marcello Pera.
Figura di studioso rigoroso non alieno da una certa austerità di comportamento e di visione, Marcello Pera (classe 1943) è stato presidente del Senato nella legislatura dal 2001 al 2006, al tempo in cui Berlusconi vinse le elezioni con un largo margine parlamentare. Pera dal 2018 è presidente del Comitato storico–scientifico per gli anniversari di interesse nazionale. Ora non è più parlamentare e rari sono i suoi interventi sulla situazione politica.
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Tra i possibili candidati al Quirinale c’è poi Giuliano Amato. Anche lui, come Casini, si è astenuto, anche per la carica di giudice costituzionale che riveste, dal fare dichiarazioni, dal rilasciare interviste su persone e cose che riguardino il Colle. In ossequio, oltre che al suo noto stile riservato, anche a quella norma non scritta che sulle cose di cui non si può parlare conviene tacere.
Il nome di Amato, per la verità, è stato fatto anche in altre tornate elettorali per la presidenza della Repubblica, almeno un paio di volte da Berlusconi; anche nelle ultime elezioni, che poi portarono alla scelta di Mattarella, proposto da Renzi, mentre il Cavaliere preferiva il Dottor Sottile.
Continuando nella modalità descrittiva, avalutativa di questo possibile candidato:
Amato (classe 1938) è un fuoriclasse delle istituzioni. Sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Craxi negli anni ’80, è poi stato più volte ministro e presidente del Consiglio, presidente dell’Antitrust. Ora è giudice costituzionale e tra pochi giorni, per una casuale congiunzione temporale che va a coincidere con i giorni della elezione del capo dello Stato, dovrebbe essere eletto presidente della Corte costituzionale.
Il centrodestra lo ha sempre avuto in simpatia, meno la sinistra dove agisce, in qualche ambiente, il meccanismo associativo che lo vede ancora come “il braccio destro di Craxi”. In realtà Amato ha dimostrato nelle cariche che ha ricoperto tutto il suo spessore, il suo valore di uomo di dottrina e di uomo di Stato. Ma qualche partito, i 5 stelle, non lo ama, e si illude di appiattirlo sulla figura del leader socialista scomparso ad Hammamet 22 anni fa.
È invece noto e documentato che il rapporto con il presidente del Consiglio socialista non fu quello dello yesman o del consigliere appiattito, e lo stesso Craxi ebbe dure parole verso il suo braccio destro, addossandogli colpe che non aveva (il non essersi battuto per farlo ritornare in Italia da uomo libero, cosa che era impraticabile, secondo la legge; e infatti Craxi gettò stizzito a terra una lettera con cui Amato gli comunicava la sostanziale impossibilità di quella operazione).
Ma non gli giova una certa propaganda malevola che gli si è appiccicata addosso, e viene puntualmente cavalcata da giornali schierati: chi gli rimprovera le numerose pensioni non prende in considerazione le sue reiterate precisazioni che il vitalizio di deputato lo devolve in beneficenza; gli italiani non gli perdonano il famoso sei per mille che in una notte del ’92 videro sparire dai loro conti correnti. Misura dolorosa, ammise lo stesso Amato, ma inevitabile in quel periodo in cui per salvare la baracca dovette fare una manovra finanziaria di oltre 90 mila miliardi di lire.
Se il centrodestra, verificando la impraticabilità della elezione di Berlusconi, proponesse al Pd e alle altre forze politiche oltre i nomi di Casini e di Gianni Letta, il nome di Giuliano Amato, in sostanza proporrebbe di eleggere capo dello Stato il presidente della Corte costituzionale.
*direttore editoriale