Fantacronache quirinalizie – seconda puntata
Aspettando Godot, cioè una donna

CulturaPolitica

“En attendant Godot” ( Aspettando Godot) è un’opera teatrale scritta nel 1952 da Samuel Beckett,  e precisamente 70 anni fa. È una pièce teatrale in cui due personaggi parlano delle cose più svariate, sostanzialmente di nulla, e a un certo punto, a turno, prima l’uno e poi l’altro interlocutore propone: che stiamo a fare qua? Andiamocene. E l’altro replica: Ma no, non possiamo. E perché? Aspettiamo Godot. Ah già. E la conversazione va avanti senza approdare a niente, come un motore che gira a vuoto.

Questo Godot, chiaramente, è la metafora del nulla, di qualcosa che si attende ma non si realizza, di qualcuno che si aspetta ma non verrà.

Non vi sembra la stessa storia, declinata in altre parole, ma con lo stesso significato del: mandiamo una donna al Quirinale!?

La Presidenza della Repubblica è la carica istituzionale finora non conquistata da una donna, oltre a quella di presidente del Consiglio. Non fasciamoci però la testa e non diciamo che siamo “i soliti italiani”: a parte i casi di Olanda e Inghilterra, dove al vertice dello Stato ci sono donne, ma sono regine, in altri Paesi europei capi di Stato donne non abbondano, anzi si contano sulle dita di una sola mano, e le dita rischiano di avanzare.

La Francia, per esempio,  ha mai visto una donna varcare la soglia dell’Eliseo come padrona di casa? La Germania, lo stesso, a parte Angela Merkel, che però era Cancelliera. E gli Stati Uniti? La terra del sogno americano dove nessun obiettivo è precluso neanche a chi non è vi è nato, alla Casa Bianca qualcuno ha visto insediarsi una donna come presidente? Al massimo una vice presidente, e nel caso degli Stati Uniti, la vice non conta quasi nulla se non quando deve supplire in casi gravi il presidente in carica, o se le viene affidata qualche specifica missione.

Tuttavia, questa coincidenza e omogeneità di situazioni – su scala geopolitica- la dice lunga  su quanto sia radicata e  storicamente consolidata, diciamo così, la tradizione “maschilista” nella elezione delle massime cariche dello Stato.

Ma per venire al “nostro cortile”, come direbbe il poeta, almeno due fenomeni vanno sottolineati. 

Uno è quello che si è detto: l’Italia non ha mai avuto una presidente della Repubblica. Dalla elezione di Elisabetta Alberti Casellati alla presidenza del Senato si potrebbe dire che “l’obiettivo Quirinale”, se non raggiunto, sia stato quantomeno sfiorato. Nel senso che la presidente del Senato, secondo la Costituzione, supplisce le funzioni del Presidente della Repubblica nel caso in cui egli non possa esercitarle, o per assenza dal Paese o per inabilità temporanea (malattia).

L’altro fenomeno è più curioso e anche più subdolo: ed è la periodica invocazione “mandiamo una donna al Quirinale”, “pensiamo a una donna capo dello Stato”.

E anche nei discorsi dei politici, quando parlano di candidati possibili, non manca la declinazione al femminile: un candidato o una candidata, si affrettano a precisare, per non essere tacciati di discriminazione.

Clausole di stile, rituale omaggio a discorsi in voga. Ma se andiamo alla sostanza, troviamo il nulla.

Qualche precedente potrà essere utile.

Emma Bonino, figura inossidabile di radicale e libertaria, che è stata ministra degli Esteri, commissaria europea e vicepresidente del Senato, in più di una occasione ha sperato di entrare in lizza. Sono nati anche i comitati “Bonino for president”. Ma si dà il caso che il Capo dello Stato non lo eleggano i cittadini o i comitati, ma i parlamentari e i delegati regionali riuniti in collegio elettorale, presieduto dal presidente della Camera.

Una volta Indro Montanelli si augurò che il plotone che sosteneva Emma Bonino per l’elezione al Quirinale diventasse un battaglione. Lo stesso Giuliano Amato che, di suo, è stato spesso proposto per il Quirinale,  senza mai arrivare alla ufficialità, pur senza fare nomi disse: Una donna al Colle? E perché no?

Risultato: Emma Bonino è rimasta a terra.

Durante la segreteria Pd di Renzi, a un certo punto circolò il nome di Anna Finocchiaro: magistrata, signora dal tratto aristocratico, presidente della Commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama. Ma sfortuna volle che qualche giornale pubblicasse una foto che non le giovò: all’uscita da un noto supermercato, la guardia del corpo le portava i pacchi.

E così ,quando la candidatura di Finocchiaro rischiava di prendere quota, Renzi la stroncò con questa battuta: Chi si fa portare i pacchi dalla scorta non può fare il presidente della Repubblica. Vecchie ruggini tra pd. La Finocchiaro sibilò un “miserabile” all’indirizzo di Renzi.  Non c’è la controprova, ma è un fatto che il nome della senatrice siciliana sparì dal toto candidati al Colle. Ciò non impedì che poi tra i due  scoppiasse la pace, e la Finocchiaro, da presidente della commissione Affari Costituzionali del Senato, desse una mano alla riforma renziana della Costituzione, quella che fu poi bocciata dagli italiani nel referendum del 2016.

Veniamo a questa tornata elettorale quirinalizia.

Anche stavolta, nella liturgia delle candidature possibili non mancano nomi di donne papabili. Non sono molte, a dire il vero, e questo dovrebbe aprire un altro discorso – non lo apriamo qui – sulla esiguità numerica del personale femminile nei vari gangli dello Stato.

Il nome della donna che in vari ambienti si ritiene più plausibile è quello di Marta Cartabia. Giudice costituzionale, poi presidente della Corte Costituzionale, ora ministra della Giustizia, sacerdotessa della Costituzione, profilo di alto livello personale e morale, sembrerebbe una figura qualificata e di garanzia, al di sopra delle parti e dei partiti. 

Ma, per quanto banale e ovvio possa essere il discorso,  per essere eletti bisogna essere votati. Cartabia, chi la vota? Chi la propone? Non ha alle spalle partiti, sponsor, gruppi di sostegno. E qui viene a proposito il tema del ruolo dei partiti, dei leader, delle trattative da fare in modo riservato. Lontano dal chiacchiericcio mediatico di queste settimane, come se si trattasse di partecipare al televoto di certe trasmissioni o giochi televisivi.

Per fare due esempi virtuosi di un modo di procedere sobrio ed efficiente: nel 1985 De Mita, allora potente segretario della Dc, propose al Pci due nomi: Leopoldo Elia, che era stato presidente della Corte costituzionale, e Francesco Cossiga, in quel momento presidente del Senato, e quindi seconda carica dello Stato.

Scartiamo Elia,  perché è più intelligente, facciamo Cossiga, rispose Natta che poi ebbe a pentirsi della scelta, visto che il Pci si spinse a chiedere l’impeachment del capo dello Stato. 

Nel 1999 il segretario Ds Veltroni fece rapidi sondaggi con altri segretari di partito, anche dell’opposizione, e propose il nome di Carlo Azeglio Ciampi: l’ex governatore ed ex presidente del Consiglio fu votato, come Cossiga, al primo scrutinio. E sono stati finora gli unici esempi  nella storia della elezione dei presidenti della Repubblica.

Cosa vogliamo dire citando questi casi? Che i segretari di partito prima riuscivano a proporre, o a imporre con la legge dei numeri, i nomi che desideravano.  Chi, quale partito, oggi è in grado di proporre una donna al Quirinale? Forse l’unico potrebbe essere il segretario del Pd Enrico Letta, che da quando è tornato da Parigi assumendo la guida del partito democratico ha marcato la sua gestione con la massima attenzione alla presenza delle donne nel  partito. E ne ha messe due come capigruppo alla Camera e al Senato, sostituendo di colpo i due uomini.

Ma se mai Letta proponesse, per dire, Marta Cartabia, quale sarebbe la risposta delle altre forze politiche? Al momento non si notano molti parlamentari disposti a votarla.

Alla Cartabia forse nuoce la riforma della giustizia,  una lunga e difficile mediazione per la quale si è molto impegnata, ma che ha lasciato molti scontenti, e qualche diffidenza di troppo per le sue idee considerate troppo vicine a “Comunione e liberazione”.

Alla fine della fiera, come dicono i milanesi, di candidature di donne al Quirinale ce ne sono ben poche. Si è fatto il nome di Paola Severino, principessa del Foro (ma si può declinare al femminile questo titolo o pare buffo? Forse lo sembrerebbe  persino alla stessa interessata, ma siamo certi non all’Accademia della Crusca, che nell’innovazione delle declinazioni di genere invita a osare. E anche Dacia Maraini, in una intervista a “beemagazine” ha espresso la stessa idea.

Ma contro la Severino è già partita, non si sa mai, la batteria del chiacchiericcio malevolo: è l’autrice della legge grazie alla quale Berlusconi è stato dichiarato decaduto dalla carica di senatore, e molti amministratori hanno seguito la stessa sorte.

Inoltre Paola Severino ha un portafoglio di clienti eccellenti. Come se fosse una colpa e non un merito professionale. Ma questa circostanza viene messa sulla bilancia per suggerire ipotetici e forse complicati intrecci dell’avvocata con il potere economico.

Quando Camilla Cederna scrisse il famigerato pamphlet contro Giovanni Leone, e fu condannata e il libro destinato al rogo (una cosa, quest’ultima,  che comunque fa inorridire perché evoca tempi indicibili), nelle accuse a carico di Leone era stata inserita anche quella di essere amico e di essere stato avvocato di personaggi discussi come Ovidio Lefebvre d’Ovidio.

Una donna al Quirinale, dunque? Perché no?

Perché no, come recitava il verso di una canzone di Enzo Jannacci.

Se la citazione di una canzone pare frivola,  torniamo allora a testi più prestigiosi, che si attagliano alla situazione: Aspettando Godot!

E le donne aspettano. Ma quousque tandem?

 

*direttore editoriale

 

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