Guerra, proteste e mancati accordi. Il governo di Benjamin Netanyahu ad un anno dallo scoppio del conflitto con Hamas si trova ad affrontare tantissime difficoltà. Nel frattempo si è aperto un ‘quarto fronte’ nel conflitto. A fine agosto, nell’ambito di una missione antiterrorismo, Israele ha iniziato diverse operazioni in Cisgiordania. Abbiamo parlato delle prospettive ad un anno dall’inizio del conflitto con l’analista geopolitico di CeSI – Centro Studi Internazionali Giuseppe Dentice.
La Cisgiordania sarà il quarto fronte del conflitto in Medio Oriente?
Verosimilmente sì. La Cisgiordania è sempre stato il fronte principale, non è solo il quarto fronte in questo contesto attuale. Storicamente è lì che si combatte il vero futuro di Israele, ma anche della storia palestinese. Non è un caso che anche durante il recente show televisivo di Netanyahu, durante la conferenza stampa di lunedì – la prima dopo mesi – ha mostrato una mappa in cui la Cisgiordania non ha confini e viene vista come un territorio di Israele.
Israele mostra quello che è il suo interesse: la Cisgiordania come elemento della sua identità. La scelta di aumentare la pressione nei confronti dei gruppi palestinesi lì presenti risponde a necessità anche pratiche quindi di contesto interno. Ci sono molti favorevoli all’insediamento di coloni ebraici mentre altri – una minoranza – sono contrari, la motivazione attuale risponde a quello che succede a Gaza quindi alla necessità di dare un contentino al gruppo di estrema destra, soprattutto a quello che fa capo Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, in modo tale da consentire di ottenere una sorta di via libera su un possibile accordo con Hamas sugli ostaggi e quindi dare carta bianca a queste ultime forze per aumentare l’espansione israeliana in Cisgiordania.
Come è cambiata la prospettiva di Israele in questo anno?
La prospettiva esterna di Israele è cambiata notevolmente, soprattutto da parte di chi è un fidato alleato di Israele – Stati Uniti e Europa – che hanno fatto pervenire posizioni critiche in questi mesi. Abbiamo diversi Stati europei soprattutto Paesi come la Spagna, la Norvegia e l’Irlanda che hanno riconosciuto ufficialmente lo Stato di Palestina o Paesi come il Regno Unito e anche il Belgio che invece hanno imposto un divieto sulle armi da consegnare a Israele nella guerra.
In realtà la guerra non ha solo approfondito le distanze che esistevano prima, ma semplicemente ha contribuito anche a trasformare le distanze soprattutto in termini di società civile. Non è un caso che le diverse società civili in Europa, come anche negli Stati Uniti, siano profondamente critiche per l’andamento del conflitto da parte di Israele nei confronti di Hamas, anche e soprattutto in termini di gestione umanitaria del conflitto. Le leadership sono tendenzialmente più ‘equilibriste’ nel tentativo di non scontentare anche attori storicamente coinvolti in Medio Oriente attraverso lo stretto rapporto di Israele. La percezione di Israele è cambiata molto ma è cambiata anche e soprattutto in relazione a quello che è l’andamento della guerra.
Cosa evinciamo dallo sciopero di questi giorni?
Esiste una profonda frattura all’interno della società israeliana. Si tratta di una frattura dettata non tanto dall’andamento della guerra o dalla sua gestione ma dal fatto che il governo Netanyahu ha assunto delle posizioni ambigue su alcuni aspetti. Sugli ostaggi in primis, sul futuro della Striscia di Gaza e sulla gestione militare del conflitto: una sorta di approccio di corto respiro e senza prospettive di lungo periodo nel quale non ha spiegato come riportare a casa gli ostaggi, sconfiggere Hamas e rioccupare la Striscia di Gaza.
Tutto questo ha acuito la profonda frattura che già esisteva ed ha svelato che c’è una profonda increspatura nella società: esiste un confronto-scontro tra civili e laici da un lato e religiosi dall’altro sul futuro dello Stato israeliano. Non c’è in gioco solo la guerra ma anche l’idea di Israele: c’è anche questo dietro le proteste degli ultimi giorni.
Quale sarà il futuro del governo e della politica israeliana?
La speranza è che non lasci macerie. Il governo e le istituzioni israeliane sono contrapposte tra di loro e anche estremamente fratturate. Questo ci dice che in realtà Israele ha bisogno di una nuova classe politica che torni a parlare di pace piuttosto che di guerra, che torni a mettere al centro della propria agenda il nodo palestinese e che lo affronti in maniera diversa rispetto agli ultimi trent’anni.
Sarà molto importante capire chi verrà dopo Netanyahu. Il futuro del premier è già scritto: presumibilmente potrebbe accadere qualcosa di simile al 1973 quando dopo la guerra dello Yom Kippur ci fu una commissione di inchiesta che giudicò l’ex premier Golda Meir responsabile di quello che avvenne.
Netanyahu sta utilizzando la guerra per rimanere al potere e cercare di alleggerire le sue eredità. Chi verrà dopo l’attuale premier resta un mistero, non è facile individuare qualche soggetto o qualche attore che rappresenti una novità. Tanti esponenti della politica israeliana hanno mantenuto approcci simili nei confronti della questione palestinese. Bisognerebbe chiedersi, piuttosto che chi verrà dopo, come la politica israeliana affronterà le eredità pesanti di questo conflitto riguardo alla società, al governo e al rapporto con i palestinesi.
Francesco Fatone – giornalista