Democrazia a rischio?

Un alto magistrato interviene sulla lectio magistralis di Mattarella sulla democrazia (un discorso "limpido e appassionato") e su alcune reazioni che ne sono seguite

Assolutismo? Siamo in democrazia, il popolo vota, il popolo vince. Non faccio filosofia, ma politica. Semmai qui c’è il problema di dittature delle minoranze, non il contrario”.

Con queste parole il leader leghista e vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini, ha inteso replicare, polemizzando, alle parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, intervenuto alla cinquantesima “settimana sociale”  dei cattolici, aveva tenuto una lectio magistralis sulla democrazia. Ovviamente Salvini si è guardato bene dallo specificare in cosa consiste l’asserita “dittatura delle minoranze”.

Roberto Tanisi

Al contrario, evocando grandi intellettuali, giuristi e politologi (da don Milani a Norberto Bobbio, da Dossetti a Karl Popper), il Presidente della Repubblica ha evidenziato i pericoli che corre oggi la democrazia, sottolineando “il ruolo insopprimibile delle assemblee elettive” ed evidenziando l’importanza “delle minoranze”, i cui diritti “non possono essere conculcati dalle maggioranze”, dovendosi escludere un “assolutismo di stato” determinato da “un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice”, dal momento che una “democrazia della maggioranza” sarebbe “una insanabile contraddizione”. Da qui la conclusione: la democrazia non è per sempre ma va vivificata quotidianamente, dal momento che “come forma di governo non basta a garantire in misura completa la tutela dei diritti e delle libertà”, potendo essere “distorta e violentata nella pretesa di beni superiori o utilità comuni” (secondo quanto la storia del Novecento ci ha insegnato).

Un discorso “alto”, quello del Capo dello Stato, da giurista e profondo conoscitore della materia, mirato a far sì che non ci siano “analfabeti di democrazia” (come, invece, con la sua sprezzante puntualizzazione ha mostrato di essere il leader leghista); un discorso giustificato da ciò che accade nel mondo – ed anche in Italia – in questi primi anni del terzo millennio, nei quali pare avverarsi la “profezia” di Norberto Bobbio che parlò di “promesse non mantenute della democrazia”: si pensi ai rigurgiti di totalitarismo che riemergono qua e là, alla parallela – e generalizzata – disaffezione per il momento elettorale, alle difficoltà che si registrano, per esempio, negli Stati Uniti d’America, con due candidati alla Presidenza che, per un verso o per l’altro, non sembrano dare garanzie di stabilità democratica, infine ai tentativi di aggressione della politica alle Costituzioni, spesso indicate (a torto) come causa del malfunzionamento di questo o quel sistema di governo. Malfunzionamento che – per restare al nostro Paese – è invece rinvenibile proprio in quella sorta di diffidenza palesata dalla politica nei confronti della nostra Carta fondamentale, la quale – scrive Michele Ainis – “non si è mai trasfusa in  sangue e linfa della società italiana”: di qui i ripetuti tentativi di riforma, spesso naufragati nel nulla, che testimoniano, tuttavia, l’incapacità della nostra classe politica di mettere a profitto il lascito dei Costituenti.

Norberto Bobbio

Peraltro, le volte in cui i tentativi di riforma hanno avuto successo, la conseguenza è stata spesso quella di infarcire la Costituzione di regole “pedanti e cavillose”, addirittura difficilmente leggibili (si pensi all’art. 117 e più in generale alla riforma del Titolo quinto), lontanissime anni luce dall’insegnamento del filosofo inglese Francis Bacon: “Quando le norme vogliono inseguire tutti i casi particolari, sperando così di guadagnarne in certezza,  producono invece infinite questioni verbali che confondono e rendono più difficile l’interpretazione”.

La democrazia, per la sua stessa etimologia, rimanda al “popolo” (“demos”), al quale è riservato il “potere” (kratos”). Tuttavia – ricorda Giovanni Sartori – nell’antica Grecia, culla della prima democrazia, la parola “demos” poteva avere diversi significati: 1)  “Plethos”, ossia il plenum, i “tutti”; 2) “Oi polloi”, ossia “i molti”; 3) “Oi pleiones”, “i più”, ossia la maggioranza; 4) “Ochlos”, ossia la folla, il raduno dei cittadini che ad Atene aveva molta importanza, essendo una democrazia diretta. Di tali significati, quello che oggi identifica il demos, il popolo, è certamente “oi pleiones”, ossia “i più”, perché la democrazia si basa sul principio di maggioranza relativa, secondo il quale “i più” – meglio i loro rappresentanti designati in base ad elezioni – hanno il diritto di governare, ma nel rispetto dei “meno”, ossia delle minoranze. Questo sul piano dei principi, perché in dichiarazioni come quella di Salvini (e, in genere, di chi ha vinto le elezioni) sembra prevalere, invece, una concezione esclusivista del potere, che prescinde dalle ragioni delle minoranze. Si pensi all’enfasi riservata al momento elettorale – “ Chi vince comanda” – che evidenzia come, secondo questa concezione, le elezioni costituirebbero il proprium della democrazia, laddove, invece, per quanto importanti, esse non ne esauriscono l’essenza (anche Mussolini e Hitler andarono al potere per elezione popolare ed  elezioni si tengono un po’ i tutti gli Stati del mondo, costituendo, spesso, la foglia di fico dietro cui si nasconde l’autocrazia), perché, accanto ad esse, altrettanto importante è  il sistema di “checks and balances”, di “pesi e contrappesi”, che serve per bilanciare il potere di chi è al governo.

Presidente Mattarella

Governo della maggioranza” (secondo la formula inglese majority rule) – scrive Gianfranco Pasquino – “significa che, confortata e prodotta dal voto degli elettori, la maggioranza … avrà il potere di far approvare le sue politiche economiche, sociali, culturali”, ma non potrà mai intaccare quei diritti civili, politici sociali delle persone che le Costituzioni liberali definiscono “inalienabili” e sono, quindi, da considerare indisponibili (si pensi ai principi fondamentali della nostra Costituzione). Onde la definizione di “democrazia illiberale” che Viktor Orban, così apprezzato da Salvini, riserva al sistema ungherese, in realtà tradisce quella che è una vera e propria “autocrazia” (o “capocrazia” per usare un’espressione di Michele Ainis), in cui i cittadini sono deprivati, in tutto o in parte, di taluni fondamentali diritti: di libertà, di stampa, di insegnamento. È contro questa deriva che ha inteso levare alta la sua voce il Presidente Mattarella, richiamando l’attenzione sulla tutela di quelli che sono i baluardi della democrazia: il primato della legge e della giustizia, la libertà in tutte le sue declinazioni, l’uguaglianza.

Alexis de Tocqueville

Siamo servi delle leggi al fine di poter essere liberi”: così Cicerone, poi ripreso anche da Locke (“sub lege libertas”). La libertà, infatti, ha bisogno della legge, perché se governano le leggi – che sono regole generali, impersonali e astratte – non governano gli uomini (che diventano strumenti di quelle leggi e dei principi che vi sono racchiusi). Se, invece, gli uomini governano prescindendo dalle leggi o asservendole, allora la libertà politica sarà coartata da una volontà arbitraria e dispotica, non importa se di un uomo solo o della maggioranza. Del resto, già Euripide ammoniva: “Nulla di più dannoso c’è che un tiranno per la città, dove al primo posto non sono le leggi (oggi, soprattutto, la Costituzione: n.d.r.), ma domina uno solo che si è appropriato personalmente della legge”. Un “tiranno” che può anche essere una maggioranza di governo, se pretende di governare senza tenere conto dei diritti dei cittadini e delle prerogative della minoranza: lo ricordava Alexis de Tocqueville nella sua opera “La democrazia in America”. “Ritengo empio e odioso – scriveva Tocqueville – il principio secondo il quale in materia di governo la maggioranza di un popolo ha diritto di fare tutto… Esiste una legge generale che è stata fatta, o quanto meno adottata, non soltanto dalla maggioranza di questo o quel popolo, ma dalla maggioranza di tutti gli uomini. Questa legge è la giustizia…”. Una giustizia che, per essere tale, non può prescinder dal terzo “pilastro” della democrazia, ossia l’uguaglianza.

Agli esordi della Rivoluzione francese Jean-Paul Marat scriveva a Camille Desmolins: “A che serve la libertà politica per chi non ha pane”, intendendo affermare, in tal modo, che non può esservi piena libertà (anche dal bisogno), se non è garantita l’uguaglianza fra i cittadini; la quale, secondo  Bobbio, costituisce un “valore supremo di una convivenza ordinata, felice e civile… un’aspirazione perenne degli uomini viventi in società”. L’art. 3 della nostra Costituzione proclama sia l’uguaglianza (formale) di tutti i cittadini davanti alla legge, sia, al secondo comma, l’uguaglianza sostanziale, tale, cioè, da mettere ogni uomo nelle condizioni di poter esplicare pienamente le proprie capacità, senza essere ostacolato da ragioni di “ordine economico e sociale”, così da garantire a ciascuno “il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Era, dunque, questo il senso dell’intervento del Presidente della Repubblica. Una difesa a spada tratta dei valori della democrazia, senza in quali la democrazia diventa “illiberale” e, dunque, non è.

Un discorso limpido ed appassionato per mettere in guardia da quelle che sono le torsioni odierne della democrazia, tali da inficiare i principi sanciti in Costituzione, e che non andava immiserito da speciose polemiche di bottega (secondo qualche osservatore Salvini parlava a “nuora” perché “suocera” – il Presidente del Consiglio – intenda).

Di fronte alle difficoltà che la democrazia purtroppo incontra un po’ ovunque, per garantire libertà, uguaglianza, inclusione, solidarietà, non sono consentite scorciatoie che – scrive Ezio Mauro su Repubblica – realizzino “nuove verticali del potere”; col rischio di trasformare anche il nostro sistema, quale voluto dai padri costituenti all’indomani della guerra e della tragedia del nazifascismo, in una “democrazia illiberale”.

 

 

Roberto TanisiMagistrato. Già presidente del Tribunale e della Corte d’Appello di Lecce

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