Per comprendere i motivi per cui la crisi dell’istruzione professionale costituisce un problema non solo per la scuola, ma per l’intera società italiana, sarebbe consigliabile la lettura preliminare non di un saggio di pedagogia o di un trattato di sociologia, ma di un rapsodico libro di memorie. Si tratta di I giorni in fuga, di Geno Pampaloni, critico letterario e dirigente editoriale oggi un po’ dimenticato, ma per un certo periodo molto influente quando era alla guida del Movimento Comunità e poi della Vallecchi, che tuttavia ha lasciato forse il meglio di sé proprio come memorialista.
Dopo l’esperienza della guerra e prima di essere scoperto da Adriano Olivetti per l’afflato sociale di alcuni suoi articoli sul Ponte, Pampaloni sbarcò per un paio di anni il lunario come professore di lettere in una scuola di avviamento professionale. E qui lo colpì un episodio descritto poi nelle sue memorie. Nel corso degli esami conclusivi, i ragazzi sostenevano una prova tecnico-pratica, realizzando il cosiddetto “capolavoro”. Di assistenza durante l’esame, il professor Pampaloni vide un alunno scoppiare a piangere e scoprì subito cos’era successo. Un compagno di classe, spostandosi da un banco all’altro, l’aveva urtato e lui aveva fatto un’irreparabile imperfezione nella realizzazione del pezzo.
Pampaloni cercò di consolarlo, ma senza molto successo. I “capolavori” venivano visionati dalle aziende della zona, che selezionavano i futuri operai specializzati anche in base alla loro qualità. L’episodio, al di là del patetico, era indice del clima in cui si formavano le maestranze del futuro miracolo economico: l’orgoglio del lavoro ben fatto, il culto della precisione, il rigore nell’“aggiustaggio”, inculcati dalla scuola, in maniera a volte ossessiva, ma che faceva sì che una serratura, un impianto elettrico, un infisso realizzati negli anni Cinquanta fossero più affidabili e durevoli di quelli reperibili oggi.
Il ragazzino scoppiato in lacrime per quel banalissimo incidente sapeva che se avesse potuto dimostrare le sue capacità avrebbe potuto essere assunto, guadagnare già da apprendista per contribuire al bilancio domestico e magari, dopo il periodo di prova e il servizio militare, crearsi una famiglia, mantenere dei figli, com’era nelle aspirazioni dei giovani cresciuti negli anni della Ricostruzione.
La riforma della scuola media del 1962
La riforma che nel 1962 introdusse la scuola media unica abolì i corsi di avviamento, nel generoso intento di assicurare a tutti gli adolescenti nella fascia dell’obbligo una formazione più ampia, introducendo tra l’altro lo studio del latino, in seconda, sia pure come integrazione delle conoscenze dell’italiano. In compenso, per quanti avessero voluto formarsi dopo l’esame di licenza come operai specializzati e in vari altri mestieri si andava estendendo la rete degli istituti professionali. Questi, negli anni Sessanta, divennero scuole statali a tutti gli effetti, sotto il controllo del ministero della Pubblica Istruzione, fagocitando molte istituzioni private che si occupavano della formazione delle maestranze.
Con l’istituzione delle Regioni, nel 1970, la gestione della formazione professionale, in base al dettato costituzionale, sarebbe dovuta passare a quest’ultime; ma, vista anche la problematicità del trasferimento di strutture e personale dallo Stato a un altro ente, prevalse una soluzione di compromesso. L’istruzione professionale rimase sotto il ministero della Pubblica Istruzione, mentre la formazione passò alle Regioni, che in molti casi la delegarono alle Province o alle Associazioni intercomunali.
Ad ogni modo, gli istituti professionali funzionarono egregiamente, incoraggiando al proseguimento degli studi ragazzi che altrimenti non sarebbero andati oltre l’assolvimento dell’obbligo, all’epoca limitato a quattordici anni di età. I corsi erano inizialmente biennali, poi triennali, con l’eccezione di quelli, molto ambiti, per odontotecnici, di durata quadriennale. Preparavano operai specializzati, tecnici, ma anche segretarie d’azienda, camerieri, cuochi, concierges, tipografi, fotografi, orologiai, persino marinai, e nel volgere di alcuni anni smisero di rappresentare una sorta di “binario morto” del sistema scolastico. A quasi tutti i corsi venne aggiunto un biennio finale, che consentiva di conseguire la cosiddetta maturità professionale, dalla quale, con la riforma Codignola, si poteva accedere a qualsiasi facoltà universitaria. Ma chi non nutriva queste ambizioni poteva sempre interrompere gli studi al terzo o quarto anno, ottenendo un diploma di qualifica valido su scala nazionale.
Il sistema presentava come è fatale degli inconvenienti. La formazione nelle discipline umanistiche era limitata. Storia e italiano, insieme all’eterno jolly dell’educazione civica, erano assorbite in una sola disciplina, dalla denominazione, un po’ deprimente, di cultura generale, che costituiva nei primi tre anni un po’ un riepilogo di quanto fatto, o non fatto, alle medie; nel biennio finale era di conseguenza necessario un recupero, per altro parziale, in vista della maturità; ma gli studenti finivano gli studi senza avere mai conosciuto la storia del mondo antico.
I vantaggi dell’iscrizione all’istituto professionale
I vantaggi del sistema erano tuttavia prevalenti. Gli studenti che si iscrivevano al professionale, spesso più di quelli che entravano al liceo su pressione delle famiglie, avevano spesso una precisa vocazione: chi voleva fare il cuoco, il riparatore di televisori (all’epoca c’era ancora il monoscopio e non ci si limitava a cambiare la scheda!), chi il meccanico di automobili. Le specializzazioni erano molte e le discipline d’indirizzo, quelle per cui si erano iscritti i ragazzi, occupavano la maggior parte del tempo. L’orario di insegnamento era, certo, prolungato: anche quaranta ore settimanale, sia pure di cinquanta minuti, ma con una lunga presenza nei laboratori, non in aula. Aspetto fondamentale, sin dall’inizio gli alunni mettevano in pratica quello che studiavano, si trattasse di mettere le mani su un motore, di cucinare o servire a tavola, di programmare un computer, di realizzare un impianto elettrico, di impaginare un testo.
La consapevolezza che quanto studiato anche in certe materie teoriche, come matematica o fisica, presentava un risvolto pratico stimolava lo studente ad applicarsi. Certo, non mancavano gli abbandoni, anche perché le insegnanti delle Medie, spesso sbagliando, in sede di orientamento finale indirizzavano verso i Professionali gli studenti con i voti più modesti; ma non era raro il caso di ragazzi che, partendo proprio da questo ordine di studi, arrivavano alla laurea. Era frequente, però, il caso di alunni che entravano al Professionale con un proprio progetto di vita, figlio di una vocazione personale o di tradizioni familiari, e per questo si impegnavano più seriamente di molti studenti iscritti al liceo dai genitori per una sorta di dovere sociale.
Ma negli anni Novanta la situazione cambiò
La situazione mutò all’inizio dell’ultimo decennio del secolo, quando entrò a regime con il decreto ministeriale del 24 aprile 1992 la sperimentazione costituita dal cosiddetto Progetto ’92, che rivoluzionò profondamente l’istruzione professionale. Da un lato il numero delle specializzazioni conobbe una riduzione, dall’altro nel primo triennio il monte orario delle discipline d’indirizzo, e soprattutto di quelle tecnico-pratiche, diminuì a favore di quelle teoriche. La modifica degli indirizzi presentava una sua logica, perché molte figure professionali in seguito al progresso tecnologico avevano perso la loro ragion d’essere o comunque mutato la loro connotazione (basti pensare al passaggio dalla stampa “a piombo” alla fotocomposizione nell’ambito tipografico); la contrazione delle ore dedicate alle discipline d’indirizzo presentò invece effetti perversi.
Voluta, in sede di sperimentazione, soprattutto dai rappresentanti dei docenti di materie teoriche – primi fra tutti gli insegnanti di lettere, che si sentivano sminuiti – in realtà si ritorse come un boomerang contro di loro. Intanto un monte orario di quaranta ore era sostenibile, da parte di alunni poco interessati alle discipline teoriche, quando al loro interno prevalevano gli insegnamenti tecnico-pratici; molto meno lo divenne quando prevalsero le discipline teoriche. In più venne meno in molti casi quella sensazione di poter mettere in pratica gli insegnamenti teorici. Un caso per tutti: in molti Alberghieri erano gli stessi studenti a gestire la mensa dell’istituto, cucinando o servendo a tavola compagni e docenti con un volonteroso rispetto delle regole dell’hotellerie. In seguito alla contrazione oraria per le materie tecnico-pratiche divenne necessario in molti casi ricorrere per la mensa scolastica a un appalto esterno.
La crisi negli anni Duemila: la riforma Gelmini
I primi seri problemi disciplinari nei Professionali cominciarono proprio allora e si aggravarono dopo il 2003, quando l’elevazione dell’obbligo scolastico da 14 a 16 anni obbligò alla frequenza alunni demotivati, che pensavano di avere scelto un tipo di scuola in cui si poteva lavorare, e invece si trovavano alle prese con una prevalenza di discipline teoriche, oltre tutto numerose soprattutto nei primi anni, quelli che erano obbligati a frequentare. La tendenza a “deprofessionalizzare i professionali” raggiunse l’apice con la cosiddetta riforma Gelmini, varata con il decreto legge n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133. Il numero degli indirizzi diminuiva e soprattutto nel biennio iniziale le discipline tecnico-pratiche erano drasticamente ridotte, mentre veniva meno la possibilità di conseguire dopo il triennio iniziale una qualifica con valore nazionale.
Sarebbe ingeneroso ricondurre la crisi degli istituti professionali solo a tali riforme, ma resta il fatto che il calo delle iscrizioni a questo ordine di studi è un dato allarmante. In una nazione in cui l’industria, l’agricoltura, l’artigianato e i servizi avrebbero un disperato bisogno di personale qualificato, le scelte dei giovani e delle famiglie disegnano ormai una sorta di piramide rovesciata. La maggioranza dei ragazzi usciti dalle medie (per l’esattezza, secondo i dati ministeriali il 55,63%), si iscrive, o viene iscritta, nei licei, porta d’oro dell’università da cui dovrebbe uscire la futura classe dirigente; meno numerosi (il 31,6%) sono quanti scelgono gli istituti tecnici, fucina di quadri intermedi, e ancora meno gli iscritti ai Professionali: appena il 12,1%).
Salvo una brusca inversione di tendenza, l’Italia si prepara a disporre di un esercito del lavoro in cui gli ufficiali sono più numerosi dei sottufficiali e dei militari di truppa. E le conseguenze già si vedono. In molti ambiti siamo costretti a ricorrere per molte mansioni a una forza lavoro straniera e mentre aumenta a dismisura il numero degli avvocati è difficile reperire artigiani qualificati.
Il liceo? Ora è più accattivante
Come accennato, la tendenza alla “licealizzazione” del corpo studentesco non è riconducibile alla sola “deprofessionalizzazione” dei professionali. Il liceo, vissuto in passato come una scuola prestigiosa ma severa, ora presenta aspetti più accattivanti, con la marginalizzazione del latino al liceo scientifico, il prolungamento dello studio della lingua straniera al classico, l’invenzione del liceo sportivo, in cui lo studio del fuorigioco ha sostituito il rosa rosae. Per tacere della pletora dei licei delle scienze umane, sorti sulle ceneri dei vecchi istituti magistrali, che un tempo in quattro anni preparavano all’insegnamento elementare. L’inventiva degli sperimentatori ha tirato fuori dal cilindro persino il liceo delle scienze applicate (una sorta di istituto tecnico industriale un po’ snob), per tacere del liceo del Made in Italy, che per fortuna, però, non ha riscosso molto successo.
A questo occorre aggiungere l’ambizione di molti genitori di poter dire che il proprio figlio “fa il liceo”: aspirazione diffusa soprattutto nel Mezzogiorno, dove la “licealizzazione” registra le percentuali più elevate, non più solo nella vecchia borghesia, ma nei ceti emergenti. E poco importa se il ragazzo, terminato il ciclo di studi, diventerà un disoccupato parcheggiato all’università e poi destinato a piatire un posto pubblico, secondo una logica denunciata da Gaetano Salvemini nel suo magistrale articolo Cocò all’università di Napoli o la scuola della mala vita, uscito sulla “Voce” il 3 gennaio 1909 e per molti aspetti ancora oggi purtroppo valido.
Le prospettive future
È difficile stabilire quanto la riforma dell’istruzione tecnica e professionale fortemente voluta da questo governo, sarà in grado di realizzare un’inversione di tendenza. In realtà, l’inversione di tendenza dovrebbe avvenire nelle menti non solo dei politici, ma anche dei genitori. Sinché non si capirà che disporre di una qualificazione meno prestigiosa ma appagante sotto il profilo economico, che garantisce l’indipendenza economica prima ancora dei vent’anni, non è una diminutio capitis e comunque non preclude la possibilità di proseguire in seguito gli studi, continueremo a essere un paese con troppi professori senza cattedra e avvocati senza clienti, con i risultati che tutti purtroppo conosciamo. E gli artigiani, i muratori, gli operai specializzati li dovremo importare ancor più di quanto stiamo già facendo.
Enrico Nistri – Saggista