Charlie Chaplin, vita e arte rivisitate da uno studioso di Pirandello. Con qualche sorpresa

Era spirato nel sonno a ottantotto anni la notte di Natale del 1977, e apprendendone la notizia quella mattina, mi venne fatto di pensare che avrei voluto avere la sua stessa fine, spegnersi nel sonno eterno come una candela, come un orologio senza più carica.

Avevo letto l’autobiografia di Charles Chaplin nel 1965, quando era apparsa la prima volta da Mondadori nella traduzione di Vincenzo Mantovani, ma alcuni avvenimenti imprevedibili accadutimi in quell’anno mi avevano talmente sconvolto che nella mia mente si era spento il ricordo di quella lettura e il libro era andato disperso.

Dopo varie ristampe negli Oscar Mondadori, è apparso in una nuova edizione dell’editore Mattioli di Fidenza, con un’introduzione di Gian Paolo Serino ma sempre con la vecchia traduzione, giuntomi inaspettatamente in dono natalizio, e l’ho ripreso in mano come fosse la prima volta, colpito dalle poche pagine di premessa con cui Chaplin inizia la storia della sua vita. Una sequenza d’immagini che parte da Kennington Road a Londra, dove un ragazzetto di poco meno di dieci anni guarda il passeggio delle persone ben vestite e spensierate nelle loro eleganti carrozze, per poi rientrare nelle retrostanti miserabili e degradate catapecchie di Pownall Terrace, dove al n. 3 vive con la madre.

La scena è di grande desolazione: una donna di 37 anni, con un figlio, Charlie, ancora da mantenere, un tempo soubrette e cantante di vaudeville dotata d’una voce aggraziata all’improvviso spezzatasi e sparita, si trova privata, per le rate non pagate, dell’ultima fonte di guadagno, una macchina da cucire con cui servire una ridotta clientela. La poveretta precocemente invecchiata è ormai prossima a cedere alla depressione e alla disperazione che la porteranno al ricovero nel manicomio di Cane Hill.

A quell’epoca tanto bastava a un medico per pronunciare la sua sentenza di ricovero; ed era poi una fortuna se il malato dopo aver dato segni di ripresa potesse ritornare tra i suoi cari. La madre di Chaplin si chiamava Hannah, figlia di Charles Hill, un irlandese che il nipote ricordava curvato in due dai reumatismi presi dormendo all’addiaccio nelle campagne per sfuggire alla caccia della polizia inglese durante i moti nazionalistici; trasferitosi poi a Londra aveva aperto una bottega di ciabattino in East Lane, Walworth.

La nonna era “una mezza zingara, l’onta della famiglia”, così il nipote, che ne conservava un ricordo sbiadito essendo morta quando lui non aveva sei anni. Una sorella più piccola della madre, la zia Kate, aveva seguito l’esempio della maggiore ed era anch’essa soubrette, ma tra loro due non legavano molto. Infine il padre che gli aveva dato il cognome era di origine francese, discendente da quegli ugonotti che dopo la strage di San Bartolomeo (24 agosto 1572) erano fuggiti esuli dalla Francia. 

Era anch’egli un artista di varietà di notevole talento, che ricavava dalla sua professione fino a quaranta sterline la settimana; il guaio era che beveva molto e quando era ubriaco diventava violento, sicché Hannah dopo la nascita di Charlie se n’era separata, orgogliosa del suo lavoro che le consentiva di mantenere entrambi i suoi figli. Ne aveva avuto infatti un altro, Sydney, maggiore di quattro anni di Charlie, da una precedente relazione con un uomo che l’aveva portata in Africa e fatta vivere nel lusso tra piantagioni, servitori e cavalli da sella. Ma non durò molto: tornata in Inghilterra riallacciò le relazioni con i suoi vecchi compagni di lavoro e con colui che avrebbe sposato, avendone di lì a poco Charlie, per poi separarsi.

“Misurare la moralità della nostra famiglia col metro consueto – commenta Chaplin – sarebbe come voler mettere un termometro nell’acqua bollente”. Che Charlie Chaplin, di madre irlandese e cattolica, di padre protestante, entrambi attori di vaudeville, fosse predestinato allo spettacolo, all’arte circense e poi al cinema, ce lo mostra il suo imprevisto esordio a cinque anni, quando la madre perdette la voce nel pieno d’una esibizione; dinnanzi alle proteste del pubblico, il capocomico non trovò di meglio che prendere per mano Charlie che la madre aveva portato con sé nel camerino e mostrarlo al pubblico rumoreggiante.

Il piccolo che aveva già divertito i compagni di lavoro della mamma con alcune sue canzoncine infantili, si esibì improvvisandone una e così trasformando i fischi in un applauso e in un fitto lancio d’incoraggiamento di monetine, che egli, interrompendosi, si diede alacremente a raccogliere e a contendere al capocomico tornato in palcoscenico ad aiutarlo. Il pubblico accolse l’involontaria gag con divertimento e con un nuovo lancio di monetine.

Ricordate la questua in The Pilgrim quando il finto sacerdote teme che le elemosine siano alleggerite dai due questuanti e ansiosamente se le fa consegnare? È press’a poco la stessa scena. Il primo ricovero della madre portò i due fratelli a vivere con la famiglia del padre; ma Louise, la sua seconda moglie, non sopportò a lungo i due marmocchi sicché il primo, Sydney, più grande, ebbe modo di imbarcarsi sulla nave scuola Exmouth, mentre Charlie venne dal padre affidato a un collega che gestiva uno spettacolo di bambini che si esibivano in un ballo con gli zoccoli, gli Eight Lancashire Lads.

Morto il padre a trentasette anni in conseguenza dell’alcolismo e dell’idropisia, Charlie ritornò alla madre che, dopo i trattamenti psichiatrici (docce gelate e isolamento), aveva recuperato la sua precaria salute mentale. Fu quello il periodo dei lavori d’ogni genere iniziati con la fascia del lutto al braccio e la vendita dei fiori nei locali pubblici, e poi come strillone, spaccalegna, tipografo, soffiatore di vetro… Ma quando ritornarono le crisi depressive della madre e si rese necessario un suo nuovo ricovero, la vita per Charlie divenne drammaticamente precaria.

Questa volta rimasto solo e costretto a nascondersi per sfuggire all’orfanotrofio, con le vesti lacere e sporche, nelle condizioni randagie di un clandestino e “con addosso l’ombra della notte”, fu così che lo trovò Sydney al ritorno dal suo primo lungo imbarco di lavoro. A dodici anni Charlie prese il coraggio a due mani e si presentò a un’agenzia teatrale di collocamento offrendosi per parti da ragazzo. 

La scena che descrive la ritroveremo riprodotta esattamente in Limelight quando il vecchio attore Calvero si rifà vivo dal suo procuratore in cerca di lavoro: “…l’anticamera era piena di attori d’ambo i sessi, in piedi qua e là e in conversazione tra di loro. Dall’ufficio interno usciva a tratti un giovane impiegato, e come un mietitore falciava l’alterigia degli attori con una frase laconica: “Niente per lei…né per lei…né per lei” e l’anticamera si vuotava come una chiesa dopo la funzione”.

Fu la svolta della sua vita, con il primo ingaggio per una tournée di quaranta settimane nella compagnia che avrebbe rappresentato una nuova commedia, Jim, the Romance of Cockney di H. A. Saintsbury, autore e capocomico, in cui Sammy era una parte da ragazzo. Avrebbe poi continuato con un nuovo ingaggio nella parte di Billie, il valletto di Sherlock Holmes, per un altro attore e capocomico, William Gillette, che metteva in scena The Painful Predicament of Sherlock Holmes. È l’inizio dell’ascesa di Chaplin, del quale il critico teatrale del “London Topical Times” scrive: “…La parte di Sammy, lo strillone, una specie di astuto levantino londinese, sulle spalle del quale grava tutta la comicità dell’opera, è stato reso molto divertente da un magistrale giovanissimo attore spigliato e vigoroso”.

Da Saintsbury a Gillette, attraverso qualche altra peripezia al Casey’s Circus e a momenti di disoccupazione, grazie all’aiuto del fratello che era entrato nella troupe di Fred Carno, viene assunto a sua volta, e da lì la sua ascesa sarà senza interruzione con le esibizioni all’estero, prima a Parigi e poi con il viaggio oltre Atlantico, negli Stati Uniti, dove il giovanissimo attore riesce rapidamente ad affermarsi nella nascente arte cinematografica attraverso le comiche di produzione Keystone (1914), Essanay (1915-16), Mutual (1916-17), e rendendosi infine indipendente per intraprendere la sua più grande avventura artistica.

Perché mi sono intrattenuto a raccontare la vita del giovane Chaplin? Mi è sembrato di vederci riassunta tutta la sua arte, un insieme di allegra e crudele vitalità, di malinconia e di generosità, di desiderio d’amore e d’umana comprensione verso i meno fortunati della vita. Artista incontentabile e perfezionista, riesce a dare il meglio di sé quando finalmente si libera dall’insopportabile tutela delle case di produzione e insieme a Douglas Fairbanks, a Mary Pickford e D.W.Griffith fonda l’United Artists Corporation (5 febbraio 1919). 

Non che nei rulli delle prime comiche manchi il tocco chapliniano: tutt’altro, la sua personalità affiora sin dall’inizio alla Keystone di Mark Sennett e si sviluppa man mano che si passa dall’una all’altra casa di produzione; ed è un traguardo recentemente raggiunto dalla benemerita Cineteca di Bologna quello della ricostruzione filologica delle numerosissime comiche del periodo della sua formazione artistica all’incirca dal 1914 al 1917. 

A trent’anni, l’anno stesso della United Artists, acquisterà un terreno a Hollywood per la costruzione di un suo studio all’angolo del Sunset con La Brea e terminerà The Immigrant, l’ultimo realizzato con la Mutual. Impegnato con la First National, comincerà il periodo creativo della sua maturità e saranno A Dog’s Life, Shoulder Arms per culminare nel 1921 con The Kid che apre l’epoca dei grandi capolavori.

Centouno anni fa, il 21 gennaio1921, The Kid veniva proiettato per la prima volta alla Canergie Hall di New York. Il film durava 68 minuti, che nella riedizione d’autore del 1972 presentava sfrondature che ne riducevano la durata a 53 minuti pur con l’aggiunta d’una perfetta, ineguagliabile colonna musicale. Nella pubblicazione filologica del 2016 della Cineteca di Bologna i frammenti della sfrondatura sono stati riproposti a parte in un secondo DVD come rarità.

Ora io che ho avuto modo di vedere il film nell’edizione del 1921, debbo dire che avrei preferito fosse anch’esso riprodotto per intero, in modo d’avere un confronto diretto tra le due edizioni. La ragione è che nella riedizione si è perduto quel gusto dell’epoca che l’autore, per il malinteso desiderio di venire incontro a un pubblico più moderno, ha creduto di poter eliminare. Non è così: c’è, nell’edizione del 1921, una scena che non meritava certo di essere sacrificata. Dunque vediamo: dopo il furto dell’auto di lusso su cui la donna (“la cui sola colpa è la maternità”) ha lasciato il neonato sperando in una sua adozione da una famiglia abbiente, i due ladri si liberano del piccolo che viene trovato casualmente in un cantone da un riluttante Charlie che fa di tutto per sbarazzarsene, fino a meditare di infilarlo in un tombino. 

Ma l’imprevista puntura di uno spillo lo riconduce alla realtà dolorosa di quell’innocente: allo spillo è attaccato un biglietto che dice di prendersi cura della povera creatura abbandonata. Charlie si immedesima e lo prende con sé avviandosi col suo nuovo fardello. Nell’edizione del 1921, c’era qui uno stacco con la madre appoggiata a un parapetto mentre preda del rimorso medita di tornare a riprendersi il figlio o, chissà, forse di uccidersi, quando un bimbetto lì accanto che fa i suoi primi incerti passi, sfuggito alla sorveglianza della balia, va ad aggrapparsi alle sue vesti. 

La scena è di un’emozione profonda, la donna si inchina a guardare e vede il piccolo che tira la sua gonna; le mani di lei, che scivolano dal parapetto per prenderselo in braccio, sono come ali di farfalla. Ciò dimostra, se ve ne fosse bisogno, che il lavoro sull’opera dei classici (in questo caso del cinema) offra sorprese analoghe a quelle che una volta i critici facevano sulle varianti degli scrittori da loro studiati. 

Non voglio fare di quest’articolo, già troppo lungo, un saggio, e mi limiterò quindi a concludere con altri pochi cenni sulle opere successive che costituiscono tutte una sorpresa dopo l’altra. Ecco nel 1923 The woman of Paris che, come scrive Chaplin nella sua biografia “fu una sfida, perché volevo rendere la psicologia con l’azione cinematografica”. E in effetti il film, di cui Chaplin era soltanto il regista, costituiva l’omaggio a una compagna di lavoro, Edna Purviance, che l’aveva accompagnato fino ad allora, con accanto un attore, Adolphe Menjou, perfetto nella sua parte di ricco gaudente, soddisfatto della sua vita di dissipazione.

Il film che sviluppa una trama di rapporti complicati tra la donna, che conserva una sua intima rettitudine, e colui che la mantiene nel lusso, arriva alla sua acme quando l’antico innamorato si uccide. Non certamente tra i minori, il film è stato riproposto nel 1977, l’anno in cui Chaplin morì, con l’aggiunta di una partitura musicale elaborata da Timothy Brock sulla base di un ricco repertorio di circa venti ore di musica creata e registrata da Chaplin stesso. 

Quanto ai film successivi, da The Gold Rush, The Circus, City Lights, Modern Times, The Great Dictator, Monsieur Verdoux fino all’ultimo grande film, Limelight, mi soffermerò solo su quest’ultimo, in cui troviamo una scena che è anche una grande lezione di vita che il vecchio clown Calvero dà a Terry, la ballerina, per distoglierla dal suo desiderio di morte: “Lei si è arresa, – le dice – non fa che adagiarsi sui malanni e sulla morte. Ma c’è una cosa altrettanto inevitabile quanto la morte: è la vita! Pensi alla forza che c’è nell’universo, che muove e anima ogni cosa. E c’è la stessa forza dentro di lei, purché solo abbia il coraggio e la volontà di usarla”.

E quando Terry gli replica che la vita è senza scopo e senza senso, il vecchio attore replica: “Perché vuole che abbia un senso? La vita non ha senso, è desiderio. Il desiderio che spinge una rosa ad essere una rosa e a voler crescere così, o una pietra a contenere se stessa, così […]. Ci sono voluti milioni di anni per evolvere la coscienza umana e adesso lei vuole cancellarla, distruggere il miracolo dell’esistenza, più importante di qualsiasi altra cosa nell’universo. Le stelle che stanno a fare? – Niente: brillano e basta. E il sole, che sputa fiamme alte migliaia di chilometri, che fa? Sciupa inutilmente le sue risorse. Può ragionare il sole? É cosciente? – No! Ma lei sì!”. 

Del film di Calvero e della ballerina Terry abbiamo oggi disponibile grazie agli scavi effettuati da David Robinson nei ricchissimi archivi Chaplin una documentazione che comprende una stesura romanzata, Footlights, in cui è narrata la storia della ballerina Thereza Ambrose e di Ernest Neville, il musicista, che introduce alla storia di Calvero e del salvataggio di Thereza dal suicidio: un vero e proprio romanzo che mostra il modo di creare e di elaborare di Chaplin. 

L’edizione di questo libro edito in Italia nel 2016 è naturalmente della Cineteca di Bologna, cui si è aggiunta nel 2020, sempre edito dalla Cineteca di Bologna, un’altra opera di Robinson sulla scoperta di un film a lungo elaborato ma non realizzato, The Freak, che occupò gli ultimi anni della vita di Chaplin.

 

Elio Providenti Già responsabile della struttura Biblioteca, Archivi e Documentazione del Quirinale. Saggista, ha pubblicato in tre volumi l’epistolario giovanile di Luigi Pirandello, carteggi inediti di Croce, Alberto Cantoni e di Luigi Antonio Villari. Autore di Pirandello impolitico e Colloqui con Pirandello

 

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