Cultura

Cercando la formula… Con un pensiero a Montale

Troppe volte ci ostiniamo a cercare la profondità laddove non c’è, a esaltare come intuizioni fulminanti elucubrazioni mattocche, a elevare entusiasticamente prima per  abbattere poi sonoramente quelle che sono sin dal principio mediocrità lampanti. Sono solo alcune delle cattive abitudini di tempi confusi, in cui si strologano senza sosta i pensatori e i pensieri del passato alla ricerca di non sappiamo neppure cosa. Non certo la soluzione che ci può fare svoltare, cambiare passo, entrare in tempi nuovi. Assediati da analisi e da approfondimenti spesso di una noia e una ripetitività letali, non osiamo cercare soluzioni ma semplicemente rinviamo azioni e procrastiniamo scelte, come se avessimo davanti tutto il tempo. E invece ogni istante che passa scava tra noi e il futuro un baratro che somiglia sempre più a certi orridi di cui non si riesce neppure a immaginare il fondo. Cerchiamo o fingiamo di cercare la formula risolutrice senza renderci conto che si tratta di una assurdità. Semplicemente perché la formula non è una sola, così come non lo sono le soluzioni possibili. Che non sono certo cristallizzate in un idilliaco passato e altrettanto ovviamente non ci attendono belle e pronte in un futuro qualsiasi. Tempi di confusione. Ci sovvengono le parole di Montale: “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.  Codesto solo possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. La vera rivoluzione sarebbe incominciare a pensare che la provvisorietà in cui siamo immersi non è una condanna ma una opportunità. Insomma tutto è ancora, come sempre, possibile. Ciò ci sgraverebbe quantomeno dall’utopia di voler risolvere tutto e subito, che è poi il paravento di chi in realtà rifugge dall’azione (…tutto cambi affinché nulla debba mutare), e sfaterebbe il mito della ferrea programmazione come ricetta unica

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Cultura

La fretta immobile. Un riformismo visionario per far uscire la società dallo stallo

Andiamo sempre di fretta, in questi anni, ma non ci muoviamo quasi più. Perché se si tratta di cambiare qualcosa o anche solo di riformare, il tempo sembra dilatarsi con progressione geometrica. È pur vero che ognuno ha nella testa un proprio orologio, che scandisce minuti ed ore in maniera diversa: per uno una stagione dura un’istante, per un altro mezz’ora equivale a un ergastolo. Ogni tanto, per ritoccare la nostra percezione delle cose potremmo ricordare una stupenda favoletta sul tempo e sulla relativa attesa raccontata dal poeta triestino Carolus Cergoly. Che dice così: “Lassù a settentrione, in un paese che si chiama Svithjod c’è un macigno alto cento chilometri e largo altrettanto. Ogni mille anni un uccellino va ad affilarsi il becco contro la sua cresta. Quando il macigno così consumato sarà raso al suolo allora sarà tramontato un sol giorno di eternità”. Ciò detto per dare il giusto peso alle cose del mondo e ai suoi ritmi, sui quali abbiamo scarso o nullo imperio, è bene domandarci come cercare di equilibrare la nostra frenesia di vivere con la inquietante incapacità di procedere nei cambiamenti. Le ricette le conosciamo tutte, più o meno. C’è chi vorrebbe tornare ad un mitizzato passato e chi sentenzia che il progresso non si arresta mai. C’è chi invoca la decrescita e chi argomenta che è una follia. Eppure, approfittando anche della esperienza che abbiamo fatto e stiamo facendo in questi anni di pandemia e di grandi sconvolgimenti mondiali, dovremmo incominciare a meditare sull’uso che facciamo delle nostre ore. E anche provare ad accordare il nostro respiro con quello dell’universo. Ascoltare i suoni del mondo per armonizzarli col metronomo interiore. Evitando dissonanze gravi e arrivando finalmente a comprendere che il dono migliore che ci può fare questo secolo, già così complesso, è di poterci

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