Cultura

Pirandello, l’edizione integrale del Taccuino di Bonn

È stata di recente pubblicata l’integrale riproduzione di un taccuino di Luigi Pirandello, finora noto soltanto per gli stralci che ne avevano dato Corrado Alvaro nella «Nuova Antologia» del 1934 e poi Manlio Lo Vecchio-Musti nel volume dei Saggi Poesie Scritti vari. Il merito dell’edizione va alla Biblioteca-Museo Luigi Pirandello di Agrigento che, a differenza di altre pregevoli pubblicazioni come il Taccuino di Coazze, le Lettere di Luigi Pirandello a Giuseppe Schirò (1886-1890), o Conchiglie e Alighe Quaderni giovanili 1883-1884, ha per questo Taccuino di Bonn approntato un volume di dimensioni eccezionali, raccogliendovi contributi e commenti che sembrano schiacciarne l’esiguità, trattandosi d’un quadernetto di poco più di 100 carte che riguarda il periodo renano solo per la metà. Non mi tratterrò a valutare i contributi e i saggi che l’accompagnano per la semplice ragione che avendo anch’io collaborato, non è opportuno che giudichi un lavoro che è anche il mio. Mi limiterò a parlare del Taccuino di Bonn cercando solo di cavarne quel che mi pare più interessante: la storia di un giovane di ventidue anni che si trova per la prima volta per ragione di studio in un paese straniero di cui conosce a mala pena la lingua e dove in quel soggiorno dovrebbe conseguire un titolo che gli apra la possibilità di una carriera accademica. Ma egli lascia l’Italia per allontanare da sé una situazione incresciosa: un fidanzamento “ufficiale” con tutti gli obblighi che tale situazione, in Sicilia e in quel tempo, imponevano. Il legame che nel 1886 aveva contratto a Palermo con una cugina del ramo paterno era frutto dell’accensione di un diciannovenne più nutrito di sogni poetici, di fantasie d’amore, che di senso pratico e di adesione alla realtà, e di cui presto s’era pentito ma da cui non era più capace di districarsi. Partendo dall’Italia

Leggi Tutto
Cultura

In margine a I vecchi e i giovani. Note stravaganti sul romanzo di Pirandello

Qui di seguito chi legge troverà la dedica che Luigi Pirandello fece del suo romanzo appena pubblicato dall’editore Treves, ai suoi non vecchi genitori. Siamo nel 1913 e la dedica che qui trascrivo dice: ai miei non vecchi Genitori perché di cuore e di mente                                               più giovani di me, nella festa delle loro Nozze d’oro 28 Novembre                                                1863 – 1913 quest’opera, in cui i Lor nomi Stefano e Caterina vivono eroicamente o.d. c. Luigi Pirandello Il volume è custodito da Anna Maria Mendolia, discendente di Enzo, fratello minore di Luigi, e per sua gentile concessione la dedica venne riprodotta una prima volta in un mio scritto pubblicato sul periodico «Ariel», n. 2 dell’a. IX (1994). Ma allora non feci caso alla clausola finale, prima della firma, e credo che nessuno ci abbia poi più badato. Che significa quell’ o. d. c. ? Ho provato ora a interpretarlo come un saluto augurale, e a darmi una mano nel decifrarlo debbo ringraziare la professoressa Anna Maria Sciacca, provetta latinista, che ha intuito essere una formula gratulatoria latina. Nella laboriosa ricerca siamo arrivati alla conclusione che possa trattarsi di un omnibus depulsis curis che in italiano suona come un auspicio per scacciare ogni genere di preoccupazioni dai suoi genitori. E i nomi di Stefano e Caterina, che vivono eroicamente? Per la verità nel romanzo il nome di Stefano è identificato in Stefano Auriti caduto nella presa del forte borbonico di Milazzo, una morte eroica, indubbiamente, ma precoce, perché il padre di Luigi partecipò, è vero, all’impresa dei Mille, combatté, è vero, a Milazzo, ma non vi morì e ritornò per sposare Caterina, la sorella dei suoi amici e commilitoni, tutti reduci garibaldini, Francesco, Rocco, Vincenzo e Innocenzo Ricci-Gramitto. Questo nome, Ricci-Gramitto, pur figurando nel romanzo una sola volta (nella rievocazione di

Leggi Tutto
Cultura

Charlie Chaplin, vita e arte rivisitate da uno studioso di Pirandello. Con qualche sorpresa

Era spirato nel sonno a ottantotto anni la notte di Natale del 1977, e apprendendone la notizia quella mattina, mi venne fatto di pensare che avrei voluto avere la sua stessa fine, spegnersi nel sonno eterno come una candela, come un orologio senza più carica. Avevo letto l’autobiografia di Charles Chaplin nel 1965, quando era apparsa la prima volta da Mondadori nella traduzione di Vincenzo Mantovani, ma alcuni avvenimenti imprevedibili accadutimi in quell’anno mi avevano talmente sconvolto che nella mia mente si era spento il ricordo di quella lettura e il libro era andato disperso. Dopo varie ristampe negli Oscar Mondadori, è apparso in una nuova edizione dell’editore Mattioli di Fidenza, con un’introduzione di Gian Paolo Serino ma sempre con la vecchia traduzione, giuntomi inaspettatamente in dono natalizio, e l’ho ripreso in mano come fosse la prima volta, colpito dalle poche pagine di premessa con cui Chaplin inizia la storia della sua vita. Una sequenza d’immagini che parte da Kennington Road a Londra, dove un ragazzetto di poco meno di dieci anni guarda il passeggio delle persone ben vestite e spensierate nelle loro eleganti carrozze, per poi rientrare nelle retrostanti miserabili e degradate catapecchie di Pownall Terrace, dove al n. 3 vive con la madre. La scena è di grande desolazione: una donna di 37 anni, con un figlio, Charlie, ancora da mantenere, un tempo soubrette e cantante di vaudeville dotata d’una voce aggraziata all’improvviso spezzatasi e sparita, si trova privata, per le rate non pagate, dell’ultima fonte di guadagno, una macchina da cucire con cui servire una ridotta clientela. La poveretta precocemente invecchiata è ormai prossima a cedere alla depressione e alla disperazione che la porteranno al ricovero nel manicomio di Cane Hill. A quell’epoca tanto bastava a un medico per pronunciare la sua sentenza di ricovero; ed era

Leggi Tutto