Tra i rimproveri che vengono solitamente mossi alla generazione dei giovani – i cosiddetti postmillennials o generazione Z – c’è quello di aver perduto il senso della storia, di non avere profondità prospettica e di vivere in un eterno presente, veleggiando col favore delle odierne tecnologie in un mare di perenne simultaneità e orizzontalità. Vorrei spezzare una lancia a loro favore, con il soccorso- incredibile dictu – di Friedrich Nietzsche, che oggi forse ci saprebbe spiegare, meglio di tanti pensatori contemporanei, il senso del martirio della gioventù iraniana mentre rinnega i propri legami con la tradizione, con il passato e con le consuetudini religiose.
Tra gli scritti del filosofo che ogni tanto amo rileggere, attratta dagli aspetti anche creativi del suo pensiero, tramato com’è di apologhi, metafore, parabole laiche, figurano Le considerazioni inattuali, un’opera considerata a torto “minore”, divisa in quattro sezioni che non rivelano particolari legami tra loro, se non riconducendole alla filigrana polemica e anti-filistea del pensiero del “maestro del sospetto” quale tutti conosciamo. Riflettendo su alcuni passaggi della seconda delle sue Inattuali rimango ancora una volta stupita, oltre che per i legami serratissimi, anche se impliciti, con i grandi scrittori del primo Novecento, soprattutto per la modernità della prospettiva che essa offre in termini culturali. Il titolo “Sull’utilità e il danno della storia per la vita” indica il focus del discorso che riguarda il valore e il non-valore della storia, legittimando fin dagli esordi l’impostazione critica del filosofo e il suo sentimento “inattuale”, cioè antistoricistico.
La citazione di Goethe che apre la Prefazione (D’altronde detesto tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza ampliare o eccitare immediatamente la mia attività) è già un chiaro indizio del rifiuto della tradizionale concezione della storia come “magistra vitae”, e introduce all’idea, indubbiamente inattuale, che il senso storico contemporaneo sia una “virtù ipertrofica” e che la professione di filologo e il suo stesso essere allievo dei tempi passati- specialmente greci – gli consentano di operare “contro il tempo” e “sul tempo”, a favore del tempo a venire. L’apologo successivo del gregge (come non pensare al Leopardi del Canto notturno?) che pascola ignaro o il riferimento al bambino, che non guarda indietro nel tempo e non comprende la parola “c’era”, incarnano simbolicamente una felicità legata all’oblio, a un sentire non storico, aprendo alla considerazione che vi è un grado di insonnia, di ruminazione di senso storico, in cui l’essere vivente viene danneggiato e alla fine va in rovina, sia esso un uomo, un popolo o una civiltà.
La loro forza plastica consisterà invece nella capacità di rimodellarsi, di sostituire il perduto, di avvertire istintivamente che ciò che è storico e ciò che non lo è sono ugualmente necessari per la loro salute. Nietzsche distingue tre rapporti umani con la storia: uno monumentale quando il vivente è attivo e ha aspirazioni, uno antiquario, fatto di conservazione venerante e uno critico, quando l’uomo soffre e necessita di liberazione. Nel primo caso, ammonisce l’autore, si costruisce un inganno per analogia, un’illusione di identità e di eternità che stimola l’entusiasta al fanatismo e il coraggioso alla temerarietà; se poi questa storia finisce nelle mani e nelle menti di egoisti e ribaldi, i danni che essa può arrecare se si tratta di individui impotenti e inerti sono incalcolabili: si tratta di un “trapianto” senza discernimento. Già questo concetto mi pare degno di una riflessione attualizzante…
Abbastanza spesso l’uomo ha invece bisogno di trattare il passato in maniera critica, di rompere e scioglierlo, di interrogarlo scrupolosamente e giudicarlo. Giudici non saranno la giustizia o l’indulgenza: la vita stessa avrà questo compito non facile, perché occorre molta forza per poter vivere e dimenticare, nel senso che vivere ed essere ingiusti sono una cosa sola. Sembra impossibile che proprio da un filologo amante della Grecità come Nietzsche provengano questi ammonimenti e queste indicazioni profondamente demitizzanti rispetto a una concezione “ammuffita” dei processi storici. Ogni epoca è infatti la risultanza degli smarrimenti, delle passioni e degli errori, anzi dei crimini delle generazioni precedenti e non è possibile liberarsi totalmente da questa catena. Il passato si condensa nella formula memento mori, mentre appare intimidito il memento vivere, il grido insopprimibile dell’epoca moderna, cui Nietzsche attribuisce quella che chiama autocoscienza ironica, cioè l’oscillante presentimento che non ci sia molto da rallegrarsi, anzi il timore che non ci si possa trastullare con la conoscenza storica come con un passatempo, che il presente non vada appiattito sul passato, sul sentimento speranzoso e coraggiosamente affrontato del procedere, del cercare la felicità dietro le montagne da scalare.
Per l’uomo sovra-storico il mondo è compiuto in ogni suo atto: la sua chiaroveggenza decodifica i geroglifici della storia e ne coglie i tratti di universalità in ogni momento. Non è infatti nel processo che si affissa la conoscenza storica e il passato non insegna nulla al presente, anzi negli uomini storici più consapevoli ed evoluti essa è attenuata fino a un generale scetticismo, fino alla capacità di riconoscere che vive meglio di tutti colui che non attribuisce importanza all’esistenza. Il filosofo esistenzialista a questo punto sembra aver preso del tutto il sopravvento sul filologo filoellenico; nella parte conclusiva del discorso però Nietzsche torna ai suoi amati Greci, riconoscendo loro che essi impararono poco alla volta ad organizzare il caos, concentrandosi sui veri bisogni e lasciando morire quelli apparenti. Sembra di leggere Marcuse.
Ma il colpo di coda nicciano è tutto nel finale, nel monito rivolto ai “moderni”: bisogna riconoscere che la cultura può essere qualcosa di diverso da una decorazione della vita, aderire al concetto di cultura come physis nuova e migliorata, senza interno ed esterno, senza simulazione e convenzione, come accordo tra vivere, pensare, apparire e volere. Un richiamo paideutico che a me pare altamente etico e attualizzabile anche come risposta al disordine contemporaneo di cui tanto si parla e si straparla.
Caterina Valchera – Docente, filologa