“Ancora Via Fani? Basta! È storia passata”, parola di assassino

Quando il 21 aprile del 1978 Paolo VI rivolse agli “uomini delle Brigate Rosse” una supplica rimasta scolpita nella storia (“vi prego in ginocchio,  liberate l’on. Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni”) non poteva ancora sapere tre cose molto importanti; due cruciali, rispettivamente per la vita nazionale italiana e per quella della Chiesa, la terza potenzialmente capace di modificare l’esito di quel rapimento.

Ma, evidentemente, la santità di papa Montini, poi assurto agli onori degli altari, non gli aveva conferito (o non ancora) il dono della preveggenza. Le tre cose che Paolo VI, nel suo spirituale e insieme umanissimo tormento per la sorte del grande politico italiano, ignorava erano che la sua implorazione sarebbe restata inascoltata, che egli stesso, appena quattro mesi dopo, avrebbe cessato di vivere e che uno dei terroristi assassini, al tempo ventisettenne, proveniva da una famiglia vicinissima al Vaticano, al punto che, come accadeva talvolta per i figli di alcuni dipendenti della Santa Sede, era stato lo stesso Montini ad amministrargli la Cresima.

Forse, se il papa avesse saputo che del “commando” di Via Fani faceva parte Alessio Casimirri, figlio del direttore della Sala stampa vaticana durante tre pontefici, Pio XII, Giovanni XXIII e, per il periodo iniziale, appunto, lui stesso, si sarebbe rivolto direttamente anche al killer nel quale si era trasformato quel ragazzino, un tempo così devoto. Chissà se, chiamato personalmente in causa dal papa, il brigatista avrebbe avuto un moto di resipiscenza.

Come ad ogni anniversario in cui si torna a parlare di Moro, nella mia mente si forma un grumo di ricordi. Quello della strage compiuta in Via Fani, con i cinque componenti della scorta massacrati, due carabinieri, il maresciallo maggiore Oreste Leonardi e l’appuntato Domenico Ricci, e tre poliziotti, il vicebrigadiere Francesco Zizzi e gli agenti Raffaele Iozzino e Giulio Rivera; l’incontro con Moro, qualche anno prima, mentre alla Sapienza, l’università in cui insegnava, era attorniato dagli studenti; la figlia del capo scorta, Cinzia Leonardi, con cui anni dopo saremmo diventati amici, e che un destino con lei davvero ingiusto ha portato via a 52 anni, la stessa età che aveva il padre caduto proteggendo il presidente della DC.

Ma poi c’è il ricordo di una persona che, sebbene meriterebbe la damnatio memoriae, non mi riesce di togliermi dalla mente. Si tratta proprio di Alessio Casimirri, da me conosciuto in circostanze che vorrei raccontare.

Diciotto o diciannove anni dopo l’eccidio di Via Fani, l’assassinio di Moro e la morte di Giovanni Battista Montini, che per alcuni era stata causata o almeno favorita dall’esecuzione dello statista salentino, legato al papa da amore quasi filiale,l’ avevo incontrato a Managua, capitale del Nicaragua, l’ultimo ancora latitante dei brigatisti che avevano partecipato alla strage per rapire Moro.

Inoltre Casimirri è ritenuto responsabile di altre azioni sanguinose, tra le quali l’uccisione materiale del giudice Girolamo Tartaglione. Il terrorista, che in contumacia è stato condannato a sei ergastoli e non ha mai scontato un solo giorno di carcere, è ormai cittadino nicaraguense, ha una compagna del posto con cui ha avuto tre figli, gode della protezione del regime sandinista e a Managua vive agiatamente grazie all’attività di ristoratore, che esercita in due locali, La cueva del buzo (La grotta del sub), nella capitale, e il Doña Inés a San Juan del Sur, sulla costa pacifica, dove seguita a esercitare la pesca subacquea, attività che dopo il tiro al bersaglio umano gli è sempre riuscita benissimo.

Nel suo rifugio nicaraguense Casimirri, oggi 71 anni, vive come alcune centinaia di stranieri (qualche decina gli italiani) che per spirito d’avventura o perché devono far dimenticare trascorsi poco edificanti hanno scelto di mimetizzarsi in una delle ultime ‘frontiere’ dell’America Latina.

Lui però non appartiene alla razza degli ex impiegati frustrati, dei bancarottieri, dei trafficoni o dei “tossici” più o meno “recuperati”. Lui, Brigate Rosse e pesca a parte, ha svolto anche attività coperte almeno in parte dal segreto di Stato, come l’esperto di esplosivi e l’aver organizzato una squadra speciale di incursori sommozzatori per conto delle forze armate sandiniste, che naturalmente non hanno mai confermato.

Quando dopo essermi qualificato come giornalista (altrimenti avrebbe potuto prendermi per un agente dei servizi) gli avevo chiesto del suo passato infantile, dei giochi nei giardini vaticani, dei rapporti con la famiglia di origine, della prima moglie Rita Algranati, una esponente delle BR che dopo la separazione e una lunga latitanza è stata arrestata al Cairo 18 anni fa, “Camillo”, questo il suo antico nome di battaglia, era sempre stato evasivo.

Della vicenda Moro, che aveva definito con distacco “quella storia”, non aveva voluto parlare. Aveva però precisato: il silenzio lo romperò solo quando sarà trovata “una soluzione politica, globale e collettiva, che chiuda definitivamente il capitolo della lotta armata”. Di più non aveva detto, né esternato, né spiegato.

Alla domanda su come si ponesse di fronte alle vittime del terrorismo e al dolore dei loro familiari, aveva risposto che “certi sentimenti” preferiva “non metterli in piazza, come hanno fatto altri”.

Parecchio tempo dopo, in occasione del ventennale della strage, confidando sul fatto che per telefono non avrebbe riconosciuto la mia voce, lo chiamo da Città del Messico, dove in quegli anni vivevo, seguendo da lì i vari Paesi centroamericani. Contattarlo al ristorante non è stato troppo complicato. Alcune chiamate, seguite da altre telefonate di controllo, poi la comunicazione si stabilisce.

Chiamo dal Messico. Grazie di aver accettato di parlare con me, proprio oggi…

Dall’altro capo una vocina stridula interrompe bruscamente:

Sì, ma mi dica di che si tratta.

Còlto un po’ di sorpresa, spiego:

– Sa, oggi sono 20 anni che… Già, che? Che avete assassinato a sangue freddo cinque persone che facevano onestamente il loro lavoro, per rapirne una sesta da voi già destinata all’altro mondo? Oppure, che il gruppo di fuoco ha colpito con geometrica precisione? O anche, che avete ammazzato come fosse un cane rabbioso il padre della mia amica Cinzia Leonardi?

Finalmente mi esce un riferimento, incongruo come lingua italiana ma chiaro, anzi chiarissimo al mio interlocutore:

Sono 20 anni che è successa Via Fani…

– Ah (risponde gelida la vocina) è per quello che mi chiama? Ancora!

So che è difficile rendere con la parola scritta il senso di una inflessione, di una intonazione, servendosi appena di punti interrogativi, esclamativi o di sospensione. Dopo 24 anni, però, assicuro che il tono di quell’ “ancóra!” ce l’ho inciso nei timpani come un ghigno cattivo.

Non esprimeva solo freddezza (la freddezza evidentemente necessaria a chi può far parte di un “gruppo di fuoco”, più o meno geometrico, chirurgico o millimetrico che sia); anzi, a pensarci bene non esprimeva quasi per niente freddezza.

Essenzialmente fastidio e insofferenza per il disturbo arrecato dal giornalista ficcanaso.

– Già, avrei dovuto immaginarlo. I giornalisti si ricordano che esisti solo quando si tratta di impicciarsi dei tuoi sentimenti, di scavare nel privato della gente… Ma quella è una storia passata e se ne potrà parlare compiutamente quando si sarà trovata una soluzione politica, globale e collettiva…

Del solito vaniloquio seguito, prima che Casimirri chiudesse con un “basta!” la conversazione, confesso che non ricordo più niente. Risento però quel tono di disappunto, rimastomi dentro forte e chiaro per la vita.

 

Carlo Giacobbe – Giornalista, scrittore, già corrispondente da varie Capitali

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