Nel secondo decennio di questo secolo tutti siamo rimasti scioccati da un fenomeno che si è drammaticamente amplificato fino a richiedere politiche internazionali e nazionali di prevenzione e di repressione senza precedenti.
Gli attentati suicidi e la relativa retorica, che incitano tanti al «martirio» per colpire istituzioni e persone, si differenziano profondamente da altri atti violenti che in precedenza venivano qualificati come «eroici» o «terroristici» a secondo da qual punto si guardasse.
Il coinvolgere poi Dio appartiene al rafforzamento etico-religioso dei teorici della violenza. In verità, la questione è fortemente antropologica non teologica. Chi parte da una visione greco-latina, in cui si sottolinea la dignità umana in stretta relazione con la libertà, di cui il soggetto è detentore in sé e che esercita in una polis organizzata, tende sempre a bilanciare l’individuale e il comune.
In questo contesto la tradizione biblica ha sviluppato i concetti della dignità in relazione a Dio, essendo l’essere umano, uomo e donna, creato a «Sua» immagine e somiglianza, ma anche di «Popolo di Dio» quale ambito sociale. L’impronta cristiana si appella anch’essa ad una dimensione «superiore» che si è innestata poi nella visione greco-romana.
L’Occidente è debitore a queste radici, e il diritto alla dignità e all’esercizio delle proprie libertà, marcate nel «Patto internazionale dei diritti civili e politici» (1966), non possono più essere impunemente violate, benché così tanto spesso lo siano: si pensi al diritto alla vita, all’eguaglianza, alla manifestazione del pensiero e all’esercizio del credo, compreso quello religioso.
Nel mondo occidentale tutto ciò appare quasi scontato, almeno dal punto di vista teorico. Ma viaggiando per il mondo (Medio Oriente, Asia, Africa, America Latina) in cinquant’anni tra servizio diplomatico per la Santa Sede e attività pastorale, la questione della dignità e delle libertà non mi è parsa così scontata; oggi poi le migrazioni, con la ricchezza di culture altre, portano a confrontarci e a volte a scontrarci.
Nel Medio Oriente, ad esempio, dove lo stile di vita tribale per la durezza dell’ambiente, ha condizionato cultura e rapporti, l’appartenenza ad una «tribù» era indispensabile alla sopravvivenza dell’individuo; lì il concetto di individuo perde le forti tinte legate alla sacralità della persona (come intesa in occidente), e si concentra sulla dimensione sociale del gruppo che si apre o si chiude, anche linguisticamente, come nel caso delle piccole minoranze cristiane.
Nel mondo arabo la sopravvivenza che è sempre nel gruppo si sviluppa nella dimensione dell’«Umma», che nel Corano diventa «Comunità dei credenti». Nella società islamica l’Umma prende il sopravvento su tutto; di fatto, ne ha condizionato fortemente la vita politica, sociale, culturale e religiosa. Così è ancora oggi. Sacrificare la propria vita per la sopravvivenza dell’Umma è considerato più che accettabile; nelle forme più estreme poi si possono teorizzare anche atti di violenza in forma quasi cultuale!
Il peregrinare, oggi così in voga (a parte i limiti imposti dalla pandemia), facilitato dai mezzi di trasporto e dalle tante possibilità di viaggiare e di stabilirsi in luoghi diversi dai propri, porta alla scoperta di altri nuovi modi di concepire la dignità e le libertà.
Nel mondo asiatico, per certi versi così affascinate, prevale la relazione tra l’essere umano e la natura di cui esso è intimamente parte. La dignità dell’essere umano deriva da un insieme marcato fortemente da relazioni con la natura stessa che si colora tenacemente dei contorni della sacralità, alla quale si deve rispetto e timore ed in cui sono vive forme di compenetrazione e di trasformazione della vita stessa.
Il mondo africano, oggi contaminato dagli occupanti di turno, ha perso in buona parte le proprie caratteristiche (ancora presenti a macchia di leopardo), legate al senso della relazione con gli spiriti della famiglia e dei propri antenati. La famiglia e l’ambito etnico-ancestrale hanno marcato le popolazioni di un continente ricco e sorprendente che però ha dato vita anche a violenze quasi inimmaginabili, favorite dagli interessi inconfessati del colonialismo passato e dal neo-colonialismo di oggi, spesso privi di scrupoli. L’antica dignità legata alla dimensione atavica è in via di estinzione. È una perdita alla quale però l’umanità non dovrebbe assuefarsi. Ma come, senza un sussulto di tutti?
Le crisi, in verità, danno vita a trasformazioni e nuovi ibridi, o, come usa dire Papa Francesco per la sua provenienza latino-americana, in «meticciati». L’espressione è stata consacrata in occasione del Sinodo dell’Amazzonia (2019), in cui il modo di configurare la vita e l’esercizio della dignità, con i suoi valori – è stato detto – non sono monocromatici ed acquistano sfumature in relazione ai diversi luoghi del continente e della sua componente umana.
Ma la simbologia indigena che aveva predominato prima della presenza spagnola e portoghese, è anch’essa in via di estinzione, magari relegata allo studio nelle facoltà di antropologia o di gruppi socio-religiosi combattivi. In quel continente è nata, con l’inclusione afro-asiatica del tempo coloniale e poi delle immigrazioni europee, una nuova forma culturale, appunto meticcia, destinata a convivere con enormi sacche di povertà che mettono continuamente in crisi la dignità dell’uomo e della donna.
L’incontro tra uomini e popoli è inevitabile e bisogna, come scrive il Pontefice in Querida Amazonia, sedersi alla tavola comune, affinché identità e realtà culturali diverse dialoghino, evitando di scegliere la strada dell’inimicizia e, al tempo stesso, non lasciare che le forti spinte della globalizzazione portino a neo-conflittualità e a neo-chiusure che sbriciolino quei sogni in cui la dignità umana e la libertà continuano ad essere vagheggiate.
Il fascino che le libertà e la dignità, come il proprium della persona umana, esercitano su ogni individuo e nelle società organizzate, rimane indiscusso. Davanti a tante migrazioni (comprese quelle da paesi islamici) che hanno per meta l’Occidente, ci si domanda: È solo per una questione di lavoro e di benessere?
È solo per una questione di fuga da luoghi terribilmente martoriati da povertà, da guerre e da odi inestinguibili? O non è questione proprio del fascino esercitato da società dove le libertà e la dignità rappresentano l’ideale in cui vivere, in cui costruire il proprio futuro per sé e per i propri figli? E ciò avrebbe senso se non in forme di socialità rispettose al tempo stesso del bene del singolo?
*Cardinale, Gran Maestro dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro