Si chiude l’anno delle celebrazioni dedicate a Dante con un bilancio che pende dalla parte del “dovere della memoria” piuttosto che dell’occasione afferrata.
Una dose omeopatica di liturgie, il solito attor-comico declamatore, l’adempimento della presenza televisiva nelle reti pubbliche e para pubbliche come dovere contrattuale e in più qualche fortunata uscita editoriale di autori che strizzavano l’occhio a liceali in pensione, hanno esaurito l’offerta del settecentesimo dalla morte del genio che inventò la lingua italiana.
Eppure, oltre il dovere della memoria, peraltro adeguatamente adempiuto da istituzioni dedicate, come la Dante Alighieri e l’Accademia della Crusca, ci sarebbe un oceano di cose da fare per la lingua che parliamo (sempre più poveramente) solo noi e qualche circolo elitario di raffinati parlatori fuori confine. Lingua che, appunto, dobbiamo a Lui, all’appena celebrato.
Secondo Ethnologue, una rivista che pubblica ricerche e statistiche sulle lingue nel mondo, l’italiano è parlato da 68 milioni di persone, il che lo collocherebbe al 27mo posto nella classifica mondiale, a pari merito con lo swahili: tre gradini più sotto rispetto alla classifica delle popolazioni degli Stati sovrani. Tanto per capire le proporzioni gettando un occhio ad altri Paesi europei: a parte il solido primato dell’inglese, 1,348 miliardi di parlanti (tallonato ad un “dipresso” dal cinese mandarino, 1,300), abbiamo al quarto posto lo spagnolo, con 600 milioni, al settimo il francese, con 267, all’ottavo ex aequo il russo e il portoghese, con 258, e al tredicesimo il tedesco con 135 milioni.
Si dirà: si tratta di imperi coloniali che imponevano la loro lingua ai popoli sottomessi. Certo, ma se proprio vogliamo seguire la pista degli imperi potremmo dire parecchio con i nostri ascendenti romani, proto-diffusori di lingue e culture. Comunque, al netto dei parlanti di madrelingua, le istituzioni culturali pubbliche di Francia, Spagna, Portogallo, Germania – gli inglesi non credono di averne bisogno – si muovono per promuovere, diffondere e consolidare la conoscenza della lingua madre in giro per il mondo. Noi arranchiamo alquanto.
Se non fosse per la buona disposizione di singoli e abnegati promotori negli istituti di cultura italiana all’estero, di qualche ambasciata e delle già encomiate attività della Dante, della Crusca, cui si aggiungono la Treccani et similia, un’azione coordinata e dotata di visione non ci è parso di intravederla.
Salvo compiacersi del fatto che l’italiano è ormai considerato lingua colta, con cattedre di italianistica che spuntano qua e là nelle università e qualche curiosità che si apre nelle élite. Mi si consenta, diceva quel signore: ci sono anche ostinati cultori della lingua sanscrita, se è per questo, lingua utile ai praticanti di yoga e agli appassionati di Upaniṣad.
Eppure c’è chi si fa promotore d’italiano nel mondo da sempre e spesso senza che manco ce ne accorgiamo. È il Papa, Francesco in modo costante e commovente, e chi prima di lui ha guidato la Chiesa. Ma il carisma, l’autorità morale e l’enorme popolarità raccolta in ogni angolo del mondo da Bergoglio, hanno fatto del suo parlare italiano ben altro che un ossequio alla lingua ufficiale del Vaticano: l’hanno imposta come lingua veicolare dell’etica condivisa del nostro tempo.
C’è da domandarsi quanto Papa c’è nel revival d’interesse nei confronti dell’italiano in giro per il pianeta. Così come parrebbe utile domandarsi se quel patrimonio immenso di italiani e discendenti di italiani nel mondo, circa 80 milioni, debba essere condannato alla seconda dimenticanza, dopo la prima che si consumò nei confronti dei padri e degli avi costretti alla diaspora, senza neanche tentare di stabilire un contatto linguistico, spegnendo dunque l’ultimo legame con la madrepatria.
E allora una modesta proposta: signor presidente del Consiglio, ora che è ancora fresca la celebrazione del settecentesimo di Dante, facciamo una cosa di senso perché non sia stato solo un dovere della burocrazia della memoria.
Facciamo partire dal nuovo anno un premio nazionale per chi si sia impegnato a diffondere l’italiano nel mondo. Il primo, se permette, andrebbe dato a Papa Francesco.
Perché ha scelto di parlare la nostra lingua, lingua di bellezza e di pace. Lingua mediterranea. E non l’inglese, lingua della finanza, della potenza, della comunicazione sbrigativa.
Non mi pare cosa da poco.
Pino Pisicchio – Professore di Diritto pubblico comparato, ex deputato di più legislature