L’Italia vista da Gennaro Sasso, “maestro, tra i pochissimi, del Novecento”

Il filosofo ha rivolto larga parte della propria attenzione alla tradizione filosofica, intrecciandola come nessun altro attraverso numerosi volumi e saggi, dedicati, oltre che a Croce, a Gentile, e ad altri esponenti dell’idealismo, ancora prima a Machiavelli, poi a Dante e a diversi filosofi e storici del Novecento, quali Carlo Antoni, Federico Chabod, Delio Cantimori, Rosario Romeo, Santo Mazzarino, e Arnaldo Momigliano, per citarne solo alcuni.

Le pagine del volume di Gennaro Sasso, “Minimi ricordi. Storici, filosofi, amici“, recentemente pubblicato per i tipi di Viella, sono, in larga parte, dedicate a studiosi insigni con cui l’autore ha avuto rapporti di vicinanza, di amicizia, e di confronto intellettuale nel corso dei decenni: Giovanni Ferrara, Margherita Isnardi Parente, Ovidio Capitani, Girolamo Arnaldi, Rosario Romeo, Giuseppe Giarrizzo, Tullio Gregory, Giuseppe Talamo, Luigi Pedrazzi.

Alcune pagine sono dedicate a due figure di diverso profilo rispetto alle altre: Paolo Bogliaccino e Gianna Rossi. Il primo, uomo di studi e di grande cultura, ma non appartenente, in senso proprio, alla “corporazione dei dotti”; la seconda, “la signorina Rossi”, la quale ebbe la responsabilità della segreteria di una rivista, “La cultura”, che rivide la luce, negli anni Sessanta, grazie all’iniziativa di Guido Calogero e dello stesso Sasso.

Altre pagine accennano alla vita universitaria dell’autore, quando era studente, e offrono uno spaccato dell’Università di quegli anni, della Facoltà di Lettere e Filosofia, a Roma, in cui insegnavano alcuni dei più bei nomi di allora. In queste pagine, fra l’altro, Sasso richiama l”insegnamento di Luigi Scaravelli, al quale, più che ad altri, dichiara di dovere per quanto ha appreso “nell’interpretazione dei testi e del modo di leggerli”, tanto da parlare delle sue lezioni come forse “dell’esperienza più straordinaria” fatta da studente universitario.

Riferendosi, inoltre, agli anni della propria “iniziazione democratica”, quelli immediatamente successivi alla caduta del fascismo, Sasso si sofferma, fra l’altro, su Luigi Salvatorelli e “La nuova Europa”, in cui “l’unione della politica con la cultura vi si realizzava con semplicità, direi con naturalezza, senza teorizzazioni relative o al loro nesso necessario o alla reciproca autonomia”, una rivista che ebbe un ruolo non secondario in tale “iniziazione”.

Ciò premesso, è opportuno, al fine di collocare il volume nel quadro della ricerca di Sasso, richiamare altri due suoi lavori, risalenti a tempi più o meno lontani: un libro intervista, La fedeltà e l’esperimento. Filippo Scarpelli, Francesco Savero Trincia e Mauro Visentin interrogano Gennaro Sasso (1993), e La voce dei ricordi (2012). Questi ultimi, assieme a Minimi ricordi, costituiscono una sorta di trilogia, in cui Sasso risponde positivamente ad alcune lodevoli sollecitazioni esterne a tornare a riflettere sul proprio itinerario intellettuale, quindi, di volta in volta, su vicende e polemiche teoriche, avvenimenti, e figure del presente e del passato.

Occorre anche tenere presente che l’occasione da cui i tre lavori traggono origine è diversa: La fedeltà e l’esperimento prende spunto da un volume di Sasso, Essere e negazione (1989), e si estende ad altre sue “esperienze di studio”; La voce dei ricordi appare, originariamente, nell’ultimo volume della raccolta Filosofia e idealismo (6 volumi, 1994-2012).Qui, fra l’altro, Sasso  accenna alla ragione di fondo, che lo aveva indotto ad aprire la lunga stagione di studi dedicati agli idealisti, ovvero il convincimento che, contrariamente all’orientamento corrente, “con l’idealismo occorresse mettere in atto un confronto filosofico”, pertanto, in quanto tale, del tutto lontano sia dalle facili e rozze liquidazioni che lo consideravano “una nefandezza da aree depresse”, sia da qualsiasi forma di difesa apologetica.

Quindi, se nei primi due contributi a prevalere, in modo diversamente modulato, più nel secondo, in ordine di tempo, che nel primo, sono temi filosofici, legati alla storia intellettuale di Sasso, Minimi ricordi è un contributo di storia della storiografia in cui vengono raccolti schizzi biografici, scritti nel corso del tempo, volti a illustrare ciò che gli studiosi in questione realizzarono “nel campo degli studi, dei pensieri da essi pensati, e che, in vario modo, si intrecciarono, e ancora si intrecciano, con i miei”.

In altri termini, indirizzati a tratteggiare la loro personalità intellettuale, a far emergere alcuni loro apporti nei rispettivi ambiti disciplinari, spesso la loro capacità di attraversare diverse discipline, di possedere, quindi, uno sguardo largo, non semplicemente confinato all’interno dei loro relativi settori di insegnamento accademico, senza trascurare di accennare ai loro rispettivi contributi al dibattito politico e culturale.

Minimi ricordi è anche altro, in realtà

I “ricordi” di Sasso, infatti, prendono avvio dagli anni Quaranta del secolo scorso, giungendo fino ai giorni nostri, per cui si può rintracciare, al loro interno, un apercu sulla storia italiana della seconda metà del Novecento su cui vale la pena di soffermarsi. Si tratta, infatti, di un tema di indubbio interesse, perché ci si sta riferendo al contributo di uno studioso, Sasso, che, accanto a una significativa produzione teoretica, in cui si è misurato con questioni cruciali del pensiero filosofico occidentale, ha rivolto larga parte della propria attenzione alla tradizione filosofica, anche teorico-politica, storiografica e letteraria italiana, intrecciandola come nessun altro, dagli anni Cinquanta a oggi, attraverso numerosi volumi e saggi, dedicati, oltre che a Croce, a Gentile, e ad altri esponenti dell’idealismo, ancora prima a Machiavelli, poi a Dante e a diversi filosofi e storici del Novecento, quali Carlo Antoni, Federico Chabod, Delio Cantimori, Romeo, Santo Mazzarino, e Arnaldo Momigliano, per citarne solo alcuni.

Cosa pensa, in linea generale, uno studioso, non meno insigne di quelli da lui analizzati in Minimi ricordi, e con questa attenzione alla storia intellettuale italiana, dell’Italia della seconda metà del Novecento? Di come è sorta e poi si è sviluppata la sua politica, la sua cultura, la sua democrazia? Cosa ne pensa uno studioso che, oltretutto, è stato testimone, e dall’inizio, delle loro trasformazioni nel corso del tempo?

Sotto questo profilo, risulta felice la sua scelta di anteporre all’analisi degli autori, dopo una parte iniziale dedicata a illustrare le ragioni del volume, e a precisare che non si tratta di un’autobiografia, pur contenendo alcune pagine autobiografiche, sostanzialmente quelle riferite agli anni giovanili dell’Università, il capitolo rivolto agli anni Quaranta, quelli della propria “iniziazione democratica”. Qui, in pagine assai dense, vengono affrontati vari temi – le ragioni del consenso al fascismo, Guglielmo Giannini e il qualunquismo, patria, antifascismo, Resistenza, Partito d’azione – che, a volte, tornano, o comunque si collegano, direttamente e indirettamente, a quelli trattati nei capitoli successivi.

Anzitutto, occorre prendere avvio da un dato di fondo, sottolineato da Sasso: finita la guerra, la guerra non finisce, in realtà, ma continua sotto altre forme e modalità. Pertanto, la grande crisi europea, apertasi con la Grande Guerra, non trova il suo compimento con la Seconda guerra mondiale, ma prosegue anche dopo a far sentire i propri effetti nefasti. Infatti, le forze, precedentemente unite nella lotta contro il nazional-socialismo e il fascismo, si contrappongono e tale contrapposizione segna la politica, la democrazia e la cultura per diversi decenni sino alla caduta del comunismo sovietico. Se, infatti, “la guerra, che avrebbe potuto derivare dalle pretese egemoniche fu evitata, non evitato, nelle nazioni occidentali e, soprattutto, in Italia, fu il pericolo che la lotta politica si svolgesse nel segno di una contrapposizione radicale, rivelatasi tanto più grave nelle conseguenze che ne furono prodotte in quanto dalla politica la contrapposizione si estese alla vita culturale, che fu allora caratterizzata dalla lotta violenta combattuta da visioni del mondo che si contrapponevano nel segno della civiltà, e dell’eccellenza, che l’una riconosceva a sé e negava all’altra”.

Al riguardo, se si va al profilo di Ferrara, e ai riferimenti di Sasso al suo libro, Il fratello comunista, “insieme la storia e la diagnosi della nostra generazione”, si può trovare un esempio di quella contrapposizione all’interno di un nucleo familiare, i cui protagonisti sono Giovanni Ferrara, Maurizio, il fratello comunista, e il padre Mario, liberale e democratico, rispetto alla quale, Giovanni è dalla parte del padre. Di una generazione, in altri termini, alla quale apparteneva chi, avendo o meno, un fratello comunista, ‘in idea” lo aveva comunque, perché con lui aveva combattuto “la battaglia per la sopravvivenza della libertà”, per cui era un fratello, che, tuttavia, dopo, scegliendo il comunismo, aveva messo in crisi la comune appartenenza familiare.

“L’uomo qualunque”, di Guglielmo Giannini

Ora, se il tema della contrapposizione politica e culturale, in particolare di quest’ultima, non è estraneo ai due contributi precedenti di Sasso, cui si è fatto riferimento, qui la sua attenzione si focalizza su un soggetto nuovo, un protagonista di quegli anni, anche se per poco tempo, ossia Giannini e il suo settimanale, “L’Uomo qualunque”, un tema la cui portata è tale da costituire l’aspetto cruciale delle pagine, dedicate a quegli anni, in Minimi ricordi. E lo è perché tale orientamento esprime un’ostilità verso la politica, certamente non nuova nella storia italiana, e destinata, una volta venuta meno quella contrapposizione, a ripresentarsi con maggiore forza. Come è noto, Giannini porta avanti una polemica durissima contro la politica e i politici, proponendo una contrapposizione fra “la folla” e  il “vampiro mai sazio del suo nobile sangue”, rappresentato dai politici, appunto, e dagli intellettuali.

Una posizione, quella di Giannini che, pur scagliandosi contro il dottrinarismo dei partiti politici e contro la tirannide delle ideologie, in realtà, era, come Sasso osserva giustamente, essa stessa un’ideologia, e con un “tratto eversivo”. Infatti, il suo bersaglio era lo Stato, identificato come “un Leviatano fiscale, desideroso di estrarre il denaro dalle tasche del malcapitato uomo qualunque”. Allo Stato, quindi alla politica, doveva, secondo Giannini, subentrare uno Stato amministrativo, quindi. In quanto tale, non politico, volto esclusivamente ad “amministrare con saggezza l’interesse dei singoli”, tenendoli lontani “dai demoniaci pensieri della politica” e, parallelamente, da “ogni idea che alludesse a principi e a ideali”.

Ebbene, Sasso attribuisce il successo dell’”Uomo qualunque” alla capacità di interpretare l’esigenza di sicurezza di larga parte della borghesia – questo bisogno era stato, per Sasso, la ragione di fondo del consenso verso il fascismo, dovuto fondamentalmente a ragioni di convenienza e non di adesione ideale e teorica – che, dopo, uscita stremata dalla guerra, non aveva più sogni di grandezza, ma era desiderosa di non essere turbata nelle proprie tranquillità domestiche. Un successo, quello di Giannini, che durò poco, certo, perché quella borghesia, dopo la parentesi qualunquista, si affidò alla Democrazia cristiana, “non senza il rischio che le istanze reazionarie che erano nel movimento dell’ uomo qualunque passassero nel partito che, intendendo purificarle e normalizzarle, ne fu in parte condizionato”.

Pertanto, in tale prospettiva, la democrazia, che risultò da questo “travaglio”, non poteva che essere una democrazia anomala, con un equilibrio “statico, di egemonie contrapposte”, di natura conservatrice, caratterizzato dalla “congenita incapacità di interpretare quel che si agitava nel profondo, dandogli espressione adeguata”. Da una parte, quella comunista aderì alla democrazia liberale, ma in vista di un superamento della stessa in direzione di un’altra democrazia, quella comunista, appunto; dall’altra, in quella democristiana, tale adesione ci fu, ma ci fu anche quel condizionamento; da un’altra ancora, il Partito d’azione risentì gravemente di tale equilibrio (ne fu “la prima vittima”). Quel partito d’azione che voleva veramente la “trasformazione democratica”, ma che non aveva la forza di realizzarla, coinvolgendo, per un verso, la parte migliore della borghesia e, per un secondo verso, convincendo il proletariato a realizzare le proprie istanze nel quadro di una condivisione della democrazia liberale, quindi rigettando i sistemi totalitari.

Una democrazia anomala che nel tempo, mostrò sempre di più le sue debolezze e i suoi limiti, perché il partito comunista, abbandonando le istanze rivoluzionarie si burocratizzo, e la Democrazia cristiana, che pure aveva “titoli di nobiltà politica”, in alcuni suoi rappresentanti, “fece passare, attraverso il suo filtro democratico le cose più torbide, non senza che quello, il filtro, ne risentisse alquanto”.

Una democrazia anomala, cui, in qualche modo, ci si abituo, come se, in Italia, la democrazia non potesse esprimersi se non di quelle forme, e con quei difetti, presentati come se fossero pregi”. Naturalmente, continua, Sasso, così non era, ma neanche era vero che, venuta meno quella contrapposizione, si sarebbe aperta una stagione nuova, nel segno dell’alternanza, e “il vento della libertà e del progresso avrebbe cominciato, o ripreso a soffiare impetuoso nella giusta direzione”, perché le forze in gioco in direzione di un nuovo equilibrio, erano le stesse che avevano tenuto in piedi quello vecchio, per cui erano arrivate stanche e logore al nuovo appuntamento della storia, e incapaci di dare vita a un reale e positivo rinnovamento. E a profilarsi, al fondo, non era un’Italia nuova, come veniva presentata dai suoi fautori, bensì un’Italia vecchia.

Se si va al profilo di Arnaldi, Sasso fa riferimento anche a momenti e a questioni rispetto alle quali il dissenso con lui fu “radicale”, poi accenna a un cambiamento, da parte di Arnaldi rispetto ad alcune sue posizioni precedenti, e attribuisce tale cambiamento non soltanto “alle buone ragioni che seppe dare a se stesso”, ma anche alle sue “buone maniere”, al suo “interiore tratto aristocratico”, alla “civiltà della sua persona che troppo contrastava con l’inciviltà profonda di quel personaggio che, avventurosamente emerso in quegli anni, ha contribuito in modo decisivo a dare all’Italia una sorta di colpo di grazia”. Qui, anche se il nome non viene mai pronunciato, e non si aggiunge altro nel merito, il personaggio cui Sasso allude è quel personaggio che, all’interno di un progetto di potere, ha ripreso l’armamentario retorico di Giannini, parlando del teatrino della politica, di azienda Italia, di discesa in politica, mentre in realtà, parafrasando il titolo di un libro di Natalino Irti, in politica, non si scende, ma si sale, almeno così avviene in una politica autenticamente intesa.

Sono tornate, in altri termini, con forza (è il caso di ribadirlo), e in forme nuove, prassi e retorica antipolitica che poi non si sono fermate a chi le ha reintrodotte, nei primi anni Novanta, ma hanno variamente attraversato le altre forze politiche, a volte in modo marcato, abbassando gravemente il livello del ceto politico, un aspetto di cui possiamo constatare quotidianamente le gravi implicazioni (l’ampia letteratura esistente sul declino italiano, negli ultimi trent’anni, sotto i più diversi profili, non lascia adito a dubbi). È ciò anche perché, proprio in quegli anni, venne introdotto e realizzato, in politica, un principio, chiunque e ovunque, abbandonando ogni criterio di selettività (al meglio, va da sé), che poi, nel corso dei decenni successivi, non soltanto non è stato disapplicato, ma è stato rigorosamente applicato, più o meno, da tutti.

La vecchia Italia ha vinto, quindi, e quella che l’ha contrastata, in vario modo, con alterne vicende, con capacità e incapacità, ha subito una sconfitta definitiva, travolta da una temperie storica che, con la caduta del comunismo, ha portato con sé, non il trionfo delle democrazie liberali, ma loro crisi, e che, ovviamente, ha coinvolto l’Italia di più e prima di altri paesi, in quanto anello debole delle democrazie occidentali? Assolutamente no, quell’Italia c’è ancora, anche se è indebolita, anche se è ancora più minoritaria di quanto lo fosse in passato, anche se fa fatica a esprimersi, a farsi sentire, a incidere nella cultura e nella politica, soprattutto a trovare un soggetto collettivo nel quale e con il quale portare avanti le proprie istanze di libertà e giustizia.

La riflessione di Sasso illuminale vicende dell’Italia del Novecento e la sua storia intellettuale

In ogni caso, chi intenda ricostruire le vicende dell’Italia del Novecento in modo adeguato, quindi con occhio attento alla sua storia intellettuale e non solo ai fatti sociali e politici, come avviene solitamente, farà bene a dedicare molta attenzione alla riflessione di Sasso, che, mediante i suoi lavori, si è più volte confrontato con le questioni irrisolte che l’hanno attraversata lungo i secoli. “Un grande studioso”, come recentemente lo ha definito un illustre recensore di Minimi ricordi, Irti, sulle pagine culturali del “Sole 24 Ore”. Uno studioso anche singolare, oggi. Perché, in tempi di specialismo estremo, egli è, come Arnaldi ha detto efficacemente, uno “specialista di più specialità”. Anche per questo, vale per lui, quello che lui ha detto di Ferrara: “un maestro: uno dei pochissimi, in Italia, negli ultimi decenni”.

 

Massimo Crosti – Professore di filosofia politica

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