La recente fiction televisiva su Giacomo Leopardi, ballon d’essai per restituire un certo grado di nobiltà alla cosiddetta Rete Ammiraglia, è originata – io credo – dal sincero intento di evitare la facile monumentalizzazione, di non glorificarlo come poeta dell’Infinito, per consegnarne invece alla generazione Z una rappresentazione più moderna, meno usurata e più “simpatica”, direi quasi attrattiva.
Non voglio in questa sede muovere critiche dettagliate al lavoro televisivo, ché occorrerebbero altri spazi e perché sulla stampa ci sono già state le debite recensioni e demolizioni, prima fra tutte – senza attenderne la fine – quella di Aldo Grasso. Vorrei però ancora una volta ribadire che queste “operazioni culturali” non restituiscono molto sul piano cognitivo e poco su quello emotivo.
Se c’è una cosa che manca nella riduzione in due puntate della vicenda biografica e letteraria del poeta recanatese è proprio lui. Non c’è Leopardi. E quindi vorrei parlarne un po’. Non mi riferisco al fatto – anzi encomiabile – che non si sia riproposta l’usurata, vulgata versio e falsa icona del giovane “gobbo e depresso” ma perché nel farlo la si è svuotata dei suoi più profondi sensi e delle sue idee più profetiche. Se si voleva accostare Giacomo alla sensibilità giovanile odierna, bastava attingere con maggior rispetto ad alcune fasi della sua ricerca, del suo “pensiero in movimento” come lo definì Solmi, per coglierne la perennità senza scadere nell’attualizzazione superficiale e poco fedele.
Tolta la “complessione” fisica inferma, tolta la non indispensabile somiglianza con l’originale, evitati o forse non accessibili i luoghi dell’anima, in particolare l’odiosamata Recanati, osservatorio privilegiato e ineguagliabile “frontiera” per l’immaginario leopardiano, bisognava almeno che emergesse in tutta la sua grandezza il giovane “favoloso”, appunto la sua potenza immaginativa nella prima parte della miniserie; nella seconda (il periodo dell’amore reale per Aspasia/Fanny Targioni Tozzetti e del chiacchierato sodalizio con Ranieri), si spegne addirittura quella che Binni ha consegnato a tutta la critica successiva come La protesta di Leopardi, cioè la forza polemica del suo pensiero nei confronti del circoli neo-cattolici napoletani e del loro disonesto ottimismo progressista.

Qui è stata indubbiamente applicata una sorta di censura preventiva: meglio concentrare l’attenzione del pubblico televisivo sugli aspetti un po’ pruriginosi e ancora non del tutto chiariti di quello strano trio Giacomo-Fanny- Antonio, piuttosto che aprire la pagina più interessante della produzione leopardiana, quella della satira e della riflessione antropologico-sociale. Il cosiddetto “ultimo Leopardi”, ancora poco esplorato e del tutto sconosciuto ai più. Il Leopardi che sa ridere delle menzogne anche politiche del suo tempo e che chiarisce la sua posizione nei confronti della politica, da lui considerata un capitolo di una generale antropologia, cioè un tema filosofico attinente a quel particolare aspetto della cultura che è l’aggregazione degli uomini in società. Per Leopardi l’uomo non è un animale sociale e dunque ogni forma di società e di governo conseguente, è in sé e per sé cattiva, poiché in qualche modo priva l’uomo della libertà e quindi della sua naturale “felicità”. La distinzione che egli fa tra società larga e società stretta, la prima propria delle civiltà antiche, la seconda dei tempi (infelicissimi) moderni, comporta per l’uomo la regolazione o addirittura la rinuncia all’”amor proprio” in una rete strettissima di vincoli, con lo stato che impone “la determinazione, precisazione di tutti i doveri e osservanze, morali, politiche, religiose, civili, pubbliche, private, domestiche ecc, che legano l’individuo agli altri individui” (Zib.874)
Se nel passato il nemico esterno era appositamente creato per “scaricare” all’esterno il naturale odio dell’altro, nel presente i governi lo regolamentano organizzando le guerre e lasciando che l’odio inter-individuale si scarichi sul corpo sociale. “Non si odia più lo straniero? ma si odia il compagno,il concittadino,l’amico, Il padre, il figlio; ma l’amore è sparito affatto dal mondo, sparita la fede,la giustizia,l’amicizia, l’eroismo, ogni virtù, fuorché l’amor di se stesso( Zib.890). Sembra una prospetti va prefreudiana il discorso della sublimazione dell’odio naturale dell’individuo a fini sociali… Il punto fermo è che per Leopardi si possono accogliere le illusioni del cuore, ma non quelle dell’intelletto: questa è la sfida che lancia al fariseismo contemporaneo, ai costruttori di chimere tecno-progressiste, di “fole” che falsificano la realtà.
La sua eroica battaglia contro le mistificazioni ideologiche – per molti versi attualissima, questa sì! – condotta negli anni del soggiorno napoletano, nella fiction televisiva è praticamente cancellata o “sussurrata” da un giovane intimidito e frastornato. Che una miniserie non potesse ambire a diventare una nuova tappa nella conoscenza dell’universo leopardiano era scontato in partenza, ma non è del tutto perdonabile che ne abbia dovuto sacrificare la complessità e profondità.

Nella prima puntata non è evidenziata affatto la transizione dolorosamente onesta nei confronti del “genere umano” dallo stato del dolce immaginar alla grande glaciazione, alla constatazione del deserto del vivere, dell’arcano formidabile del mondo. Nel secondo tempo è stata applicata una censura preventiva: meglio affidarsi alla ricostruzione pop dello “strano trio” Leopardi–Fanny-Ranieri che avventurarsi nelle ragioni anche politiche della satira leopardiana. Sacrificato come puro problema editoriale anche il valore altissimo delle Operette Morali incardinate sul tema Madre/Natura matrigna, un aspetto su cui invece si focalizzava il film di Martone. Forse si è evitato il confronto con quella potente scena dell’islandese-Leopardi che interroga la Gigantessa malevola.
È bene ricordare allora che alcune di quelle Operette che il poeta definì “prosette satiriche”, come il surreale Dialogo della Terra e della Luna, oltre ad aver determinato la scrittura delle Cosmicomiche di Italo Calvino e di tutto un filone fantasatirico della prosa del Novecento, sembrano sintonizzate su di noi, sull’attuale superbia antropocentrica legata al progresso tecnologico. Sono testi meravigliosi ispirati da una tensione morale altissima e dall’ostinazione leopardiana (la stessa che muoverà Calvino) a mostrare il rovescio delle cose, il lato oscuro della Luna. Per concludere, vorrei spezzare due lance a favore della trasposizione televisiva: aver ricordato l’esperienza fallita del giornale Le Flâneur, un dettaglio spesso tralasciato anche dagli addetti ai lavori, e aver continuamente sottolineato- grazie alla magistrale interpretazione di Alessio Boni- il vincolo affettivo, mai venuto meno, tra il dolcemente dispotico Monaldo e il ribelle ma devoto Giacomo. L’ultima lettera scritta da Leopardi, firmata il suo amorosissimo figlio Giacomo, si chiude nel nome di questo bisogno del padre, un desiderio da lui stesso dichiarato a più riprese nel corso della sua dolorosa faticosissima esistenza.
Caterina Valchera – Saggista