“Schwa”, un linguista ci spiega cosa c’è dietro la misteriosa parola

Non è frequente che un tema specialistico diventi di massa, coinvolgendo un pubblico largo. Chi segue anche sbadatamente le cronache non politiche dei media avrà letto (o forse sentito parlare in qualche trasmissione televisiva) di una petizione lanciata con grande successo su Change.org intitolata “Lo schwa? No, grazie. Pro lingua nostra”. 

La petizione in pochi giorni ha raccolto quasi ottomila firme, tra cui quelle di personaggi molto noti, di intellettuali, di linguisti, che non nominerò per non aggiungere notorietà non necessaria. Come non nominerò chi è intervenuto a favore o contro (a volte citando tra virgolette, i testi sono pubblici), per evitare ogni rischio di pubblicità non richiesta e forse non voluta. 

La petizione comincia così: “Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa. I promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l’uso della “e” “rovesciata” non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche”.

Nonostante il dibattito in corso, forse non  tutti sanno esattamente cosa è lo schwa. Si tratta di un simbolo grafico, una specie di “e” rovesciata che non esiste nella tastiera del computer (per digitarlo bisogna cercarlo con l’apposita utilità “Simboli”) e che, secondo i suoi sostenitori, dovrebbe essere usato ogni volta che ci riferiamo a un’entità indeterminata di esseri umani (donne o uomini), in sostituzione della norma linguistica corrente, che prevede la desinenza maschile.

Ad esempio, non dovremmo più scrivere “tutti credono che il sole riscalda la terra”, perché quell’opinione può essere attribuita sia alle donne che agli uomini, e quindi non va bene utilizzare il pronome indefinito “tutti”, con desinenza maschile. Così, se si sta parlando di ragazze e ragazzi che studiano, non dovremmo più scrivere “un certo numero di studenti ha difficoltà con la matematica”, perché in tal modo la forma maschile prevale indebitamente su quella femminile. Quindi dovremmo mettere la “e” rovesciata al posto della “normale” “i”,  in fine delle parole “tutti” e ‘studenti'”.

Le cose si complicano ulteriormente nei casi in cui è necessario accordare al plurale sostantivi di genere diverso, maschile e femminile, coesistenti nella medesima frase. La coesistenza di genere maschile e femminile, strutturale nella lingua italiana, comporta soluzioni specifiche nella concordanza del plurale. In frasi in cui i nomi sono tutti maschili o tutti femminili, l’aggettivo mantiene il loro genere e si declina al plurale. “Indosso un abito e un gilet ben stirati” (perché abito e gilet sono maschili); “Porto sempre con me una cartella e una rubrica nere” (perché cartella e rubrica sono femminili). Se i nomi sono di genere diverso, l’aggettivo si declina al maschile plurale: “Ho fatto amicizia con un ragazzo e una ragazza spagnoli”. 

Se tre bambini e due bambine giocano in cortile posso correttamente dire: “Cinque bambini giocano in cortile”. La frase non cambia se nel cortile giocano quattro bambine e un bambino, cioè la scelta della forma maschile “bambini” non dipende dalla maggioranza numerica. È il cosiddetto maschile sovraesteso, normale nell’italiano. Qualcuno obietta che la scelta di preferire il maschile al plurale nel caso di coesistenza di maschile e femminile è discriminatoria, l’uso del maschile è prevaricante. Esistono soluzioni per evitare la (supposta) sopraffazione?

Chiunque capisce: chi sostiene con vigore l’uso della “e” rovesciata non ne fa una semplice questione grafica. Dietro la spinta per questo segnetto ci sono ragioni ideologiche che potremmo includere sotto l’etichetta del “politicamente corretto”, che si propone di non discriminare (neanche sotto il profilo della lingua) le donne rispetto agli uomini. 

L’esigenza è giusta, chi potrebbe dubitarne? Ecco perché prendono sempre più spazio  avvisi come “Le studentesse e gli studenti che intendono sostenere l’esame …” invece del più generico e non specifico “Gli studenti che intendono sostenere l’esame …”, come si sarebbe detto (senza troppo pensar su) sino a qualche anno fa. Nelle forme allocutive la prima modalità, oggi prevalente nel parlato e nello scritto, si espande perché viene vista come un segnale di attenzione verso le donne. 

Si diffondono formule come “Care amiche e cari amici”, “Care colleghe e cari colleghi”, “Care socie e cari soci”, ecc.. Il modello ha un antecedente nella tradizione dello spettacolo, nella quale è consueto rivolgersi al pubblico presente in sala con l’allocutivo “Signore e signori”. Prevale nella lingua della politica. 

Un candidato si indirizza a chi potrebbe votarlo con l’allocuzione “Care elettrici e cari elettori”, senza dimenticare di rivolgersi prima alle donne e poi agli uomini, con una galanteria che appare forse non del tutto sincera. È adottato nella comunicazione della Chiesa, a partire dal suo massimo esponente: “Sorelle e fratelli, sogniamo insieme!” si legge nella trascrizione di un discorso di Papa Francesco al IV incontro dei Movimenti Popolari. “Care Sorelle, Cari Fratelli, mi rivolgo a voi stasera con grande emozione e con profonda gioia” scrive Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo, tutto maiuscolo “Care Sorelle, Cari Fratelli” (trovo i due testi in rete). Può essere anche formula di congedo: “Un saluto caro a tutte e a tutti”.

La petizione da cui siamo partiti così prosegue: “Lo schwa e altri simboli […] che si vorrebbe introdurre a modificare l’uso linguistico italiano corrente, non sono motivati da reali richieste di cambiamento. Sono invece il frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività”. 

Alcuni si fanno la domanda: ma che modo è di scrivere? Insistendo spesso sulla confusione ingenerata da testi redatti con l’uso costante dello schwa, come se l’innovazione fosse universalmente condivisa e accettata. Ma invero, se la funzione fondamentale di un testo è la capacità di comunicare, andrebbero evitate modifiche che (sia pure con le migliori intenzioni) di fatto la rendono difficoltosa. Il culmine sembra raggiunto quanto il tratto innovativo diventa strutturale nei documenti del Ministero dell’istruzione  e nei verbali dei concorsi per professori. Viene tirata in ballo Maria Cristina Messa, ministra dell’Università e della Ricerca, accusata di essersi piegata “all’uso dello schwa in documenti ufficiali come le delibere con gli esiti delle selezioni del personale”.  Dunque, il tratto grafico assume sempre più connotati politici. 

Non mancano pareri contrari. La lingua, se deve cambiare, cambia, scrive qualcuno, e delle petizioni su Change.org se ne frega altamente. Rimane la magra figura di un manipolo di intellettuali che si fanno spaventare da una “e” rovesciata, ignorando quello che è dietro lo schwa, mentre i tempi cambiano e la mentalità pure. 

Altri si spingono a ricordare che, nell’intento di opporsi a novità linguistiche inarrestabili, durante il ventennio fascista si pretendeva di italianizzare i cognomi stranieri con buffi risultati: non Louis Armstrong ma Luigi Braccioforte, non Benny Goodman ma Beniamino Buonuomo. L’ultima volta in cui qualcuno ha voluto imporre alle persone quali parole utilizzare eravamo nel ventennio fascista, si obietta. Più voci si alzano insieme per sviluppare una riflessione sensata: come potrebbe mai una petizione online fermare quella che è una sperimentazione linguistica già in atto? Chi avrebbe il potere di farlo? Inverso è difficile per il singolo rimettere in gioco il sistema di valori che si davano per assodati. 

Uno passa decenni credendo di aver capito come funziona il mondo, e invece no, ti dicono che quello che credevi di sapere è tutto sbagliato. Normale che alcuni rimangano confusi e magari si ribellino, quando i cambiamenti avvengono troppo in fretta. I grammarnazi che si stracciano le vesti per qualsiasi evoluzione linguistica sono in fondo un esempio da manuale: “Ho faticato tanto per il mio diploma di liceo e ora mi dici che le regolette che ho imparato con tanta fatica non contano più?!? Ma io ti denuncio!”. Fino al punto di chiamare in ballo la riforma luterana: “A tutti i detrattori dello schwa, ricordatevi che le 95 Tesi di Lutero si diffusero in Italia, pur proibite, grazie ai detrattori che scrissero testi per confutarne il valore. (Disclaimer: non è che io impazzisca per lo schwa, però, ragazzi, anche chissenefrega…)”.

Per la verità nessuno pensa di denunziare nessuno, ci mancherebbe che qualcuno debba subire un processo se usa nello scritto la “e” rovesciata. Né c’è, mi pare, chi vuol trasformare in eresia religiosa l’uso dello schwa. La questione è diversa. È giusto e opportuno, quando parliamo o scriviamo, prestare attenzione alle scelte relative al genere, evitando ogni forma di sessismo. Ma, per raggiungere l’obiettivo, non si può forzare la lingua mettendola a servizio di un’ideologia.

Risulta difficile applicare posizioni ideologiche o politiche alle consuetudini della grafia, che si sono fornate attraverso processi storici durati secoli. Davvero poco praticabile, per giunta, risulterebbe la “e” rovesciata, che non si trova sulla tastiera del computer (né tanto meno, sulle macchine da scrivere), corre il rischio di essere modificata quando si passa da un mezzo a un altro (ad esempio da un computer a un giornale) e non è facilissima da vergare a mano, finché non ci si abitua. O dobbiamo concludere che chissenefrega, tanto nessuno scrive più a mano. 

Proprio mentre i professori più accorti, dalla primaria all’università, sostengono convintamente l’opportunità (anzi la necessità) del recupero della scrittura manuale, fondamentale perché va ben al di là della chiarezza (a fini interpretativi) dei testi scritti, riguarda la qualità della crescita armonica dell’essere umano. L’area più ampia e sviluppata della corteccia cerebrale è collegata ai movimenti più fini: quelli compiuti dalle mani e dalla bocca. Le mani sono responsabili di infinite attività, compresa quella della scrittura accurata.

Come sempre nella lingua, non valgono divieti o imposizioni. Sull’introduzione dello schwa nello scritto decideranno, senza forzature, senza accettazioni indiscriminate e senza chiusure aprioristiche, coloro che scrivono, di qualsiasi livello sociale e culturale. Padroni della lingua siamo tutti noi, nessuno comanda. La decisione sui nuovi segni grafici è affidata al tempo e alle scelte collettive. Con consapevolezza, per quanto possibile: i processi storici non ammettono improvvisazioni.

 

Rosario Coluccia – Professore emerito di storia della lingua italiana. Accademico della Crusca

 

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