Cultura

“Schwa”, un linguista ci spiega cosa c’è dietro la misteriosa parola

Non è frequente che un tema specialistico diventi di massa, coinvolgendo un pubblico largo. Chi segue anche sbadatamente le cronache non politiche dei media avrà letto (o forse sentito parlare in qualche trasmissione televisiva) di una petizione lanciata con grande successo su Change.org intitolata “Lo schwa? No, grazie. Pro lingua nostra”.  La petizione in pochi giorni ha raccolto quasi ottomila firme, tra cui quelle di personaggi molto noti, di intellettuali, di linguisti, che non nominerò per non aggiungere notorietà non necessaria. Come non nominerò chi è intervenuto a favore o contro (a volte citando tra virgolette, i testi sono pubblici), per evitare ogni rischio di pubblicità non richiesta e forse non voluta.  La petizione comincia così: “Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa. I promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l’uso della “e” “rovesciata” non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche”. Nonostante il dibattito in corso, forse non  tutti sanno esattamente cosa è lo schwa. Si tratta di un simbolo grafico, una specie di “e” rovesciata che non esiste nella tastiera del computer (per digitarlo bisogna cercarlo con l’apposita utilità “Simboli”) e che, secondo i suoi sostenitori, dovrebbe essere usato ogni volta che ci riferiamo a un’entità indeterminata di esseri umani (donne o uomini), in sostituzione della norma linguistica corrente, che prevede la desinenza maschile. Ad esempio, non dovremmo più scrivere “tutti credono che il sole riscalda la terra”, perché quell’opinione può essere attribuita sia alle donne che agli uomini, e quindi non va bene utilizzare il pronome indefinito “tutti”,

Leggi Tutto
Cultura

Una serie televisiva ai ‘’raggi x’’ del linguista. Tra pubblicità subliminale e ‘’falsi amici”

Emily in Paris è una serie televisiva creata da Darren Star (citato nell’Enciclopedia Treccani online, sceneggiatore di prodotti di grande successo come «Melrose Place» e «Sex and the City»), distribuita sulla piattaforma Netflix dal 2 ottobre 2020. La prima stagione, in dieci puntate, ha avuto grande successo anche da noi. Ne è protagonista Emily Cooper, venticinquenne ragazza statunitense che da Chicago si trasferisce a Parigi per lavoro. Ha ricevuto dal suo capo il compito delicato di introdurre la visione americana della vita e del lavoro in una importante società di marketing francese («Savoir» ‘sapere’, nome emblematico), appena acquisita dagli americani.  Emily si confronta con la vita di Parigi e si destreggia tra la sua carriera, nuove amicizie e vicende amorose: l’incontro/scontro tra culture diverse, coesistenti nel crogiolo parigino, dentro e fuori l’ambiente di lavoro, è presentato in forma sorridente e indubbiamente gradevole. Il contatto tra diversi modi di essere e di sentire offre spesso il fianco ad equivoci, in cui la lingua gioca un ruolo importante. Indirizzandomi a lettori italiani, mi rifaccio alla versione in italiano (in lingua originale alcuni esempi sono diversi, ovviamente). Il quarto episodio della seconda stagione (anche questa in dieci puntate, partite in Italia negli ultimi giorni di dicembre 2021) si intitola «Jules ed Em». Emily, frequentando un corso per imparare il francese, conosce Petra, una coetanea proveniente da Kiev, anche lei a Parigi per lavoro. Stringono amicizia, vanno in giro un po’ a caso, visitano negozi lussuosi. Nelle scintillanti Galeries Lafayette la ragazza ucraina, per impulso improvviso e con fare sorridente, ruba una borsetta di pregio. Emily non è d’accordo, l’oggetto rubato va immediatamente restituito. Emily grida: «Non lo sai cosa è successo a Jean Valjean quando ha rubato una baguette? Non hai mai visto I miserabili?».  Emily allude al fatto che costituisce lo spunto

Leggi Tutto
Cultura

Genere e lingua, fenomenologia di alcune tendenze nel mondo

A volte capita che un episodio fortuito, capitato per caso, ti faccia riflettere su aspetti della realtà che fino a quel momento non avevi considerato a fondo, nella loro complessità. Credi che siano lontani, visto che non riguardano direttamente la tua persona, la sfera dei tuoi familiari e dei tuoi amici. E alcune questioni appaiono un po’ astratte, quasi sfocate. Può aver senso parlare di fatti linguistici, di fronte a problemi che coinvolgono la vita delle persone? La parola inglese «transgender» è composta dall’accostamento di «trans» “al di là” e «gender» “genere sessuale” e indica chi si identifica in modo transitorio o persistente con un genere diverso da quello assegnato alla nascita. Può essere usata come sostantivo (è un transgender) e come aggettivo (movimento transgender, locale transgender), per definire l’atteggiamento personale, sociale e sessuale che combina caratteristiche del genere maschile e di quello femminile, senza identificarsi interamente e definitivamente in nessuno dei due. Le persone transgender sono individui che hanno un’identità o un’espressione di genere che si discosta dal sesso assegnato alla nascita. Esiste anche il corrispettivo italiano: «transgenere», molto meno diffuso. Ma ora non voglio discutere della presenza spesso eccessiva degli anglicismi nella nostra lingua e della preferenza che sarebbe giusto accordare a parole italiane che possono ragionevolmente essere usate in luogo di quelle straniere. Questa volta parlo d’altro. La parola ha un significato originariamente politico e culturale, è un termine ombrello che punta a includere senza discriminazione tutte le forme di non conformità di genere. Definisce il movimento che contesta la visione duale (o binaria) dei generi, secondo la quale le identità di genere nell’essere umano sarebbero soltanto due, sarebbero immutabili e scaturirebbero del sesso genetico degli individui. Il genere rappresenta il modo in cui il soggetto mostra la propria identità al resto del mondo, il modo in cui ci vestiamo,

Leggi Tutto
Cultura

Qual è lo stato di salute della lingua italiana? Ce lo spiega un accademico della Crusca

Tra le grandi lingue europee, l’italiano ha una storia assai particolare, forse unica, nella quale predomina il marchio della letterarietà. La lingua italiana, costantemente vivificata dal ricorso alla cultura classica (il latino, naturalmente, e anche il greco, che costituiscono serbatoi preziosi ai quali essa attinge nel corso di tutta la propria storia) e da rapporti di dare e avere con molti idiomi diversi, presenta una peculiarità: pur sottoposta alle tensioni che producono i contatti con altre lingue (oggi in primo luogo l’inglese, nei secoli passati molte altre) e gli scambi con la variegata realtà dialettale (in Italia particolarmente vivace e nient’affatto destinata all’estinzione, anche oggi i dialetti sono ben vivi), percorsa inoltre da normali processi di neoformazione da un lato e di obsolescenza  dall’altro che ne modificano la struttura (grafia, fonomorfologia, sintassi e lessico), si caratterizza per una evidente riconoscibilità in diacronia e una (relativa) stabilità nel tempo che conferiscono un aspetto in qualche modo familiare anche a opere remote della letteratura. Lo dichiarava Gianfranco Contini già alcuni decenni addietro, nel suo stile densissimo ed efficace, che non riproduco testualmente, limitandomi a indicarne la tesi di fondo. Un italofono di media cultura, anche non nativo, è in grado di comprendere senza difficoltà particolari il significato primario ed elementare di molti luoghi della Commedia o del canzoniere petrarchesco. Chi non capisce cosa significhino, in senso letterale, frasi come: «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita»? o come: «Per alti monti et per selve aspre trovo / qualche riposo: ogni habitato loco / è nemico mortal degli occhi miei»? La singolarità del caso italiano risiede dunque nel fatto che la nostra lingua si è modificata relativamente poco nel corso del tempo, diversamente da quanto accade ad altre lingue

Leggi Tutto