Una serie televisiva ai ‘’raggi x’’ del linguista. Tra pubblicità subliminale e ‘’falsi amici”

Cultura

Emily in Paris è una serie televisiva creata da Darren Star (citato nell’Enciclopedia Treccani online, sceneggiatore di prodotti di grande successo come «Melrose Place» e «Sex and the City»), distribuita sulla piattaforma Netflix dal 2 ottobre 2020.

La prima stagione, in dieci puntate, ha avuto grande successo anche da noi. Ne è protagonista Emily Cooper, venticinquenne ragazza statunitense che da Chicago si trasferisce a Parigi per lavoro. Ha ricevuto dal suo capo il compito delicato di introdurre la visione americana della vita e del lavoro in una importante società di marketing francese («Savoir» ‘sapere’, nome emblematico), appena acquisita dagli americani. 

Emily si confronta con la vita di Parigi e si destreggia tra la sua carriera, nuove amicizie e vicende amorose: l’incontro/scontro tra culture diverse, coesistenti nel crogiolo parigino, dentro e fuori l’ambiente di lavoro, è presentato in forma sorridente e indubbiamente gradevole. Il contatto tra diversi modi di essere e di sentire offre spesso il fianco ad equivoci, in cui la lingua gioca un ruolo importante. Indirizzandomi a lettori italiani, mi rifaccio alla versione in italiano (in lingua originale alcuni esempi sono diversi, ovviamente).

Il quarto episodio della seconda stagione (anche questa in dieci puntate, partite in Italia negli ultimi giorni di dicembre 2021) si intitola «Jules ed Em». Emily, frequentando un corso per imparare il francese, conosce Petra, una coetanea proveniente da Kiev, anche lei a Parigi per lavoro. Stringono amicizia, vanno in giro un po’ a caso, visitano negozi lussuosi. Nelle scintillanti Galeries Lafayette la ragazza ucraina, per impulso improvviso e con fare sorridente, ruba una borsetta di pregio. Emily non è d’accordo, l’oggetto rubato va immediatamente restituito. Emily grida: «Non lo sai cosa è successo a Jean Valjean quando ha rubato una baguette? Non hai mai visto I miserabili?». 

Emily allude al fatto che costituisce lo spunto di partenza per I miserabili (1862), l’opera di Victor Hugo che tutti conosciamo: ne sono stati tratti film (più volte), musical e serie televisive (ecco perché Emily chiede «Non hai mai visto?» e non «Non hai mai letto?»). Nel romanzo le vicende personali dei personaggi si intersecano con i grandi eventi che scuotono la Francia dopo la Rivoluzione francese: la battaglia di Waterloo, la restaurazione della monarchia, i moti rivoluzionari.

 Il racconto è attraversato da riflessioni di natura etica e morale. La storia si apre con l’incontro tra il vescovo di Digne (Alta Provenza), dedito alle opere di carità, e Jean Valjean, un galeotto appena uscito dal bagno penale di Tolone, dove ha subito una durissima condanna per aver rubato un tozzo di pane per sfamare la sorella e i nipoti (pena poi resa più lunga e più aspra da una serie di tentativi di evasione andati a male).

E dunque ha ragione Emily quando ricorda a Petra che Jean Valjean ha scontato molti anni di galera per aver rubato una baguette, il noto filone di pane dalla forma allungata, tipico francese (che anche noi chiamiamo così). Il sostantivo femminile, di origine francese, è entrato senza modifiche nella nostra lingua a partire dal 1933 e progressivamente è diventato di largo consumo. Usano il francesismo giornalisti come Gianni Brera nel «Guerin Sportivo» del 1960: «Mandava Cantoni a comprare un cacciatorino e una baguette di pane e se l’abbuffava di tutta voglia» e Mathilde  Bonetti, in «Epoca» del 1995: «La cucina cajun, quella importata dai francesi che lavoravano nelle paludi del Mississipi a fine ’8oo, è a base di crèpes ai gamberi, baguette con crema di avocado,  polpa di granchi e tabasco» e uno scrittore come Stefano Benni, nel romanzo «Elianto» del 1996: «Subito si dirigevano al ben armato buffet, rigurgitante di baguettes di diverso calibro, brioches calde, kipfel, marmellate, uova strapazzate e caraffe di aranciata e caffè». Oggi nelle panetterie i clienti esigono la baguette, quasi più nessuno compra un filone.

Ma Petra ha rubato una borsetta, non un tozzo di pane. Si tratta della mitica borsa «Baguette» di Fendi, già esibita sullo schermo da attrici famose e oggetto del desiderio di molte donne affascinate dai richiami che vengono dai mondi rutilanti della moda, del cinema, della televisione. Con un furbo e consapevole equivoco linguistico, potremmo dire a fini propedeutici, Emily accosta un tozzo di pane rubato da un miserabile e un oggetto molto costoso, che (in omaggio a certe suggestioni subliminali) deve essere posseduto, a prezzo di sacrifici (ma non ricorrendo al furto), anche da chi non se lo potrebbe permettere. Pubblicità sottilissima veicolata sotto forma di  apologo moraleggiante.

L’episodio che abbiamo descritto non è l’unico della serie che possa attrarre l’attenzione del linguista. Nella prima stagione, quinto episodio, «Faux amis» ‘falsi amici’, Emily siede al tavolino di un caffè con l’amica Mindy Chen, orientale da tempo emigrata in Francia, che conosce bene, oltre alla propria, le lingue inglese e francese.

In un francese incerto Emily ordina «Un café, les fruits et un croissant avec le préservatif». Alla risposta del cameriere («c’è un distributore automatico per quello, nel bagno degli uomini»), Emily capisce di aver fatto una gaffe, che le viene spiegata da Mindy Chen. Senza saperlo la povera Emily ha chiesto al cameriere un profilattico, un condom: in francese «préservatif non significa marmellata», come credeva la giovane americana, traducendo maldestramente «fruit preserve» della sua lingua, che in inglese significa ‘conserva, preparato a base di polpa di frutta e zucchero’, di cui lei voleva fosse farcito il suo croissant (un croissant con marmellata, diremmo noi). 

L’accostamento tra due termini che significano cose diverse in lingue diverse è un «falso amico», chiarisce Mindy Chen, che aggiunge: in francese «conte» non vuol dire ‘conte’ ma ‘fiaba’, «medecin» non è ‘medicina’ ma ‘dottore’. Concludendo soavemente, passando dalla linguistica ai rapporti personali: «tu e Camille siete false amiche, perché ti piace il suo fidanzato». Anticipando con questa battuta episodi cruciali delle puntate successive, in cui sono coinvolti Emily e altri protagonisti della serie.

«Faux amis» (inglese «false friends»,  italiano «falsi amici») in linguistica indica parole o espressioni di una lingua straniera che presentano somiglianze fonetiche, morfologiche o etimologiche con un altro lemma della lingua-madre di un parlante, pur avendo un significato parzialmente o completamente diverso.

Succede: quando un individuo entra in contatto con lingue diverse, associa impropriamente forme diverse. Ecco alcuni esempi che riguardano lingue con cui gli italiani entrano spesso in contatto. Il fr. «fermer» non significa ‘fermare’, ma ‘chiudere’; l’ingl. «library» non è ‘libreria’, ma ‘biblioteca’; lo spagn.  «burro» significa ‘asino’, l’alimento non c’entra; il lat. «classis» significa ‘flotta’, non ‘classe’.

Anche una serie televisiva di successo aiuta a riflettere sulla lingua.

   

*Professore emerito di Storia della lingua italiana. Accademico della Crusca

 

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