Qual è lo stato di salute della lingua italiana? Ce lo spiega un accademico della Crusca

Cultura

Tra le grandi lingue europee, l’italiano ha una storia assai particolare, forse unica, nella quale predomina il marchio della letterarietà. La lingua italiana, costantemente vivificata dal ricorso alla cultura classica (il latino, naturalmente, e anche il greco, che costituiscono serbatoi preziosi ai quali essa attinge nel corso di tutta la propria storia) e da rapporti di dare e avere con molti idiomi diversi, presenta una peculiarità: pur sottoposta alle tensioni che producono i contatti con altre lingue (oggi in primo luogo l’inglese, nei secoli passati molte altre) e gli scambi con la variegata realtà dialettale (in Italia particolarmente vivace e nient’affatto destinata all’estinzione, anche oggi i dialetti sono ben vivi), percorsa inoltre da normali processi di neoformazione da un lato e di obsolescenza  dall’altro che ne modificano la struttura (grafia, fonomorfologia, sintassi e lessico), si caratterizza per una evidente riconoscibilità in diacronia e una (relativa) stabilità nel tempo che conferiscono un aspetto in qualche modo familiare anche a opere remote della letteratura.

Lo dichiarava Gianfranco Contini già alcuni decenni addietro, nel suo stile densissimo ed efficace, che non riproduco testualmente, limitandomi a indicarne la tesi di fondo. Un italofono di media cultura, anche non nativo, è in grado di comprendere senza difficoltà particolari il significato primario ed elementare di molti luoghi della Commedia o del canzoniere petrarchesco. Chi non capisce cosa significhino, in senso letterale, frasi come: «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita»? o come: «Per alti monti et per selve aspre trovo / qualche riposo: ogni habitato loco / è nemico mortal degli occhi miei»?

La singolarità del caso italiano risiede dunque nel fatto che la nostra lingua si è modificata relativamente poco nel corso del tempo, diversamente da quanto accade ad altre lingue europee di cultura. Formatasi su un impianto letterario e arcaizzante (le “tre corone” trecentesche) essa è rimasta abbastanza stabile per secoli e solo al raggiungimento tardivo dell’unità politica nel 1861, con l’avallo della riforma manzoniana che spingeva in direzione dell’uso vivo (e con l’opera di scrittori abituati a scriver chiaro come Collodi, De Amicis, Salgari),  quel modello ha poco alla volta allargato i propri perimetri e ha potuto acquistare una diffusione crescente.

La storia millenaria della nostra lingua si dipana  attraverso minute vicende di autori, di opere, di parlanti, insomma mille episodi e rivoli, spesso non rettilinei e sicuramente non “teleologicamente” preordinati allo sbocco finale. Per tali non semplici vie solo in tempi relativamente recenti si è finalmente raggiunto un risultato straordinario,  l’italianizzazione collettiva della nostra nazione. Anche in questo il caso italiano si rivela singolare: in effetti, appena da pochi decenni la maggior parte degli italiani usa correntemente nella comunicazione orale la nostra lingua, antica e di matrice tanto prestigiosa.

Cruciale per il raggiungimento dell’obiettivo è stata l’azione di potenti fattori extralinguistici di unificazione linguistica, individuati da De Mauro nella Storia linguistica dell’Italia unita, libro di importanza straordinaria di quasi sessant’anni fa (1963).Elementi molteplici e determinanti, collegabili al passaggio dalla società agro-pastorale alla società industriale e terziaria, e oggi telematica, hanno radicalmente mutato i rapporti tra italofoni e dialettofoni: le azioni convergenti di burocrazia ed esercito, urbanesimo e  migrazioni interne, industrializzazione, scuola, stampa e mezzi di comunicazione di massa hanno modificato la situazione “storica” di difficoltosa italofonia e di prevalente dialettofonia. Al momento attuale il quadro linguistico è profondamente mutato rispetto ad appena sessanta o settanta anni fa: gran parte degli italiani parla italiano e il processo non è reversibile, almeno nel senso che non è pensabile che diminuisca la percentuale di italiani in grado di esprimersi correntemente in lingua.

Diversa questione è come si configuri il processo di ristandardizzazione in corso e quale tipo di italiano venga usato nei differenti contesti comunicativi: sono frequenti, non solo tra gli addetti ai lavori e tra gli operatori dell’istruzione ma anche nei media e persino nell’opinione comune, constatazioni sull’uso maldestro o inefficace della nostra lingua, spesso accompagnate da toni di deprecazione per l’ “imbarbarimento” cui la stessa sarebbe oggi sottoposta (si parla di italiano dell’uso medio e di neostardard,  ma anche di italiano nuovo, di nuovo italiano, di italiano in movimento, di lingua in forte ebollizione, di lingua selvaggia, di malalingua,  ecc.).

Le discussioni che affiorano spesso nella stampa e in rete, la frequenza di trasmissioni radiofoniche e televisive specificamente dedicate alla lingua italiana,  le rubriche e i siti che trattano di questioni linguistiche, da un lato costituiscono sintomo di interesse reale verso certi temi anche da parte del pubblico dei non specialisti e nello stesso tempo spesso tradiscono incertezza, da parte degli utenti, sulle scelte linguistiche da adottare e sul giudizio riservato alle tendenze in atto.

La dialettica tra norma e uso, le oscillazioni e le incertezze di fronte a diverse possibili soluzioni linguistiche dominano la scena italiana, la cui storia ha visto in passato una netta predominanza della grammatica e delle regole rigide rispetto alle manifestazioni effettive della lingua. Vorrei precisare. Non sto predicando il lassismo indiscriminato o un lasciar far senza regole: anche in linguistica, come in altri campi, il liberismo sfrenato produce danni collettivi. Ma un fatto è certo.

Nonostante i problemi che la nuova situazione comporta, è estremamente positivo che l’italiano, elemento distintivo della nostra storia, sia  finalmente diventato patrimonio collettivo e mezzo largamente diffuso, nella variabilità delle sue manifestazioni e pur in forme a volte un po’ vacillanti.

Si tratta di comprendere indicando anche i punti di crisi, senza pretesa di costringere gli utenti della lingua all’adozione di terapie forzate: agiamo insomma da osservatori attenti al presente e rispettosi della storia, non da terapeuti scriteriati. Nelle forme che storicamente assume, la lingua  è un bene prezioso per almeno due motivi. In primo luogo essa è fattore primario dell’identità di un popolo, specchio di una comunità e delle sue rappresentazioni. Nel 2011, ricorrendo il centocinquantesimo anno dell’unità d’Italia, è emerso in piena evidenza il nesso inscindibile tra lingua e nazione e il ruolo fondamentale che la lingua ha storicamente svolto nel processo di formazione dello stato unitario, vero cemento sociale e umano. In secondo luogo, come mi sono sforzato di mostrare in questa relazione, la lingua è lo specchio e la sedimentazione della nostra cultura, quale si è sviluppata nel corso dei secoli, generazione dopo generazione.

Nel corso della sua storia l’italiano, promosso dalla sua eccellenza letteraria e culturale e dal dinamismo degli individui che lo parlano, si è spesso rivelato capace di superare i confini e di espandersi all’estero, con veicoli molteplici, non solo letterari: la musica, la gastronomia, la religione e la chiesa cattolica, le arti, i commerci e l’imprenditoria, la marineria, l’emigrazione, ecc.  Il DIFIT (Dizionario degli italianismi in francese, inglese e tedesco) mette a confronto in maniera sistematica l’incidenza dell’italiano su tre grandi lingue (francese, inglese e tedesco), cercando di individuare le trafile di penetrazione e la fortuna delle parole italiane in queste culture: all’incirca, si contano 2.700 italianismi in tedesco, 2.300 in inglese, 2.000 in francese.  Non male, per una lingua che spesso viene poco considerata che coloro che la parlano per nascita e dovrebbero trattarla con rispetto e con amore.

La ricostruzione qui proposta è in molti punti parziale. E tace del tutto su vari argomenti che meriterebbero  attenzione: per fare un solo esempio, non considera la presenza pervasiva ed eccessiva dell’inglese (o meglio dell’angloamericano), lingua con cui l’italiano fa i conti in maniera forse un po’ troppo passiva, rispetto all’atteggiamento più fiero e consapevole mantenuto da altre lingue di grande tradizione, come il francese, il tedesco, lo spagnolo, ecc. Secondo il «Laboratoire européen d’anticipation politique – Europe 2020», le maggiori tendenze linguistiche dei prossimi anni saranno: la rinascita del francese, la fine dell’anglo-americano come lingua egemonica della modernità, l’uso crescente del russo nell’Europa centro-orientale, la crescita a livello internazionale dello spagnolo. Non so se queste previsioni siano fondate e non spiegare perché non si considerino le lingue parlate di milioni di individui in Cina, in India, in Brasile. Segnalo però con una punta di rammarico l’esclusione dell’italiano, dotato di una storia gloriosa ma oggi forse più considerato all’estero che in patria.

Concludo.

Mi sono sforzato di presentare alcuni aspetti della questione della lingua nel ventennio iniziale del terzo millennio. Non si tratta di dibattiti pedanti tra pochi addetti ai lavori ma di questioni cruciali nella vita del popolo italiano.

«Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale». Sono le parole, a tutti note, che Gramsci scriveva chiuso tra le pareti del suo carcere; e che, condividendole, mi permetto di affidare alla riflessione di chi legge.

 

*accademico della Crusca, Professore emerito di Storia della lingua italiana

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