Filosofia della guerra ibrida, tra pensiero occidentale e dottrina confuciana

Molti conflitti, oggi, non rappresentano solo un attacco fisico e distruttivo, bensì una destrutturazione identitaria e politica del bersaglio: non si vedono eserciti ma è comunque guerra

Pagine di giornali, titoli da talk show ed articoli online: tutti, oggi, parlano di guerra. Dal conflitto russo – ucraino a quello tra Israele, Hamas ed Hezbollah, la guerra torna – nuovamente – nelle vetrine dell’iperconnessione informativa mondiale. Proprio grazie a questa iperconnessione, però, insieme al concetto di guerra convenzionale ha potuto evolversi, velocemente con grande efficacia, il concetto di guerra ibrida.

La concezione occidentale di guerra e di azione può rappresentare un ostacolo per la piena comprensione di cosa realmente siano disinformazione e guerre ibride.

L’azione e il risultato

Il pensiero occidentale, erede legittimo della tradizione filosofica e scientifica greca, definisce l’azione in vista del suo fine ultimo, il suo obiettivo. Ci si muove in vista di un risultato, pianificando attentamente le mosse per raggiungerlo.

È quella che François Jullien chiama modellizzazione: per essere efficaci, costruiamo modelli ideali nei quali tracciamo dei piani e ci poniamo obiettivi. Prima la pianificazione e, solamente dopo, la sua applicazione pratica.

Il filosofo francese François Jullien

Il filosofo francese François Jullien

 

La concezione occidentale di azione e di efficacia discende dal pensiero platonico: un buon generale deve possedere tutte le qualità di un ottimo geometra. L’efficacia di una azione o di una strategia dipenderà, secondo il pensiero occidentale, dalla sua corretta pianificazione.

Anni dopo, la logica mezzi-fini e la concezione geometrica e fisica dello scontro bellico trovarono la loro applicazione grazie al generale prussiano Von Clausewitz, che concepì la guerra e la sua strategia attraverso modelli, forme e angoli. Per il prussiano, seguendo la logica aristotelica del muoversi in vista di un fine, ogni sforzo sarà indirizzato per il raggiungimento dell’obiettivo. L’efficacia di un’azione bellica sarà proporzionale alle difficoltà incontrate e solamente il mutare delle circostanze potrà interporre difficoltà tra il piano e la sua applicazione.

Il pensiero strategico cinese

Agli antipodi dal pensiero occidentale, la concezione asiatica – in particolare quella cinese – di azione e di guerra può rivelarsi utile per una migliore comprensione delle guerre ibride.

Il pensiero strategico cinese, ad esempio, concepisce la pianificazione come un limite ed il totale affidamento alla modellizzazione come un auto-imprigionamento: se il mutare degli eventi può rendere fallibile il piano, sarà meglio sfruttare le circostanze già esistenti piuttosto che tentare una modifica o crearne di nuove.

Il concetto di “potenziale della situazione”, colonna portante del pensiero strategico cinese, concepisce l’azione come una valutazione, un calcolo della potenzialità insite nel contesto di partenza. Al contrario della concezione occidentale, l’azione avrà un unico e preciso scopo: in ogni occasione si cercherà un vantaggio, ogni circostanza sarà valutata per poterne intercettare la potenzialità favorevole senza doverne operare alcuna brusca modifica. Lo scontro bellico è, secondo il pensiero cinese, la ricerca dei fattori favorevoli in ogni situazione e, ove non ce ne fossero, la lenta e discreta inversione del loro potenziale, da sfavorevole a favorevole.

Confucio

Una statua di Confucio a Montevideo

Trasformazione discreta e silenziosa

Se l’Occidente concepisce la guerra come una azione fisica, temporale e circoscritta e mirata ad un fine specifico, il pensiero cinese la intende come una lenta e costante, discreta e silenziosa trasformazione delle circostanze e del loro potenziale: non è contrasto e resistenza alla forza dell’avversario, ma compromissione delle sue risorse per arrivare ad una vittoria facile e sicura, non necessariamente eroica. Non guerra come distruzione tout court, bensì guerra come destrutturazione, come lento prosciugamento delle energie cognitive e morali del nemico, della sua potenzialità, mirando a disunirlo, confonderlo, spossarlo.

Oggi, la dialettica bellica convenzionale ha lasciato il posto a guerre ibride, economiche ed in particolare cognitive.

Più l’iperconnessione, digitale e sociale aumenta, più questa permette alla disinformazione di dilagare: l’avversario andrà confuso e disorientato, impattando sulle sue zone di fallibilità cognitiva, manipolandone la percezione della realtà e le convinzioni. Scatenare il caos e seminare confusione nelle fila avversarie vuol dire condannare il nemico all’immobilità, alla spossatezza.

Alla base di ogni azione e decisione, infatti, vi è un processo conoscitivo che possa permettere al soggetto di passare dal dubbio alla padronanza delle informazioni a lui utili per poter agire autonomamente. L’assenza di una corretta informazione, negli scenari bellici così come nella vita civile e politica di ogni realtà democratica, rappresenta un serio ostacolo alla propria indipendenza, autonomia ed efficacia di azione.

Propaganda digitale

Propaganda digitale

Più i processi conoscitivi saranno affidati a comunicazioni e informazioni contenute nelle piattaforme digitali e più le nostre percezioni e credenze potranno essere vulnerabili a tentativi – più e meno riusciti – di manipolazione. Le guerre di propaganda e informative costituiscono un efficace, silenzioso e paziente condizionamento delle convinzioni e credenze dei cittadini, del loro morale, è un’opera di manipolazione radicale e profonda che permette una naturale crescita dei suoi effetti, senza forzarli.

Guerra, oggi, non rappresenta un attacco fisico e distruttivo, bensì una destrutturazione identitaria e politica del bersaglio: non si vedono eserciti ma è comunque guerra.

 

Jacopo Marzano

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