Sen. Manieri: andare oltre la visione di un Matteotti solo “martire antifascista”

Il suo pensiero riformista fu incisivo, centrali i temi della istruzione e dell’emigrazione. Recensione di una parlamentare e intellettuale socialista al libro "L’oppositore", di Mirko Grasso. Quello sprezzante giudizio di Gramsci

Sono numerose le pubblicazioni e le iniziative di rievocazione della figura di Giacomo Matteotti in occasione del centenario del suo assassinio ad opera dei sicari di Mussolini, il 10 giugno 2024. Tra queste un interesse particolare riveste il libro di Mirko Grasso, L’oppositore. Matteotti contro il fascismo, edito da Carocci, 2024; un’opera rigorosa dal punto di vista storiografico, con riferimenti documentali inediti, che colloca Matteotti in una linea più avanzata di lotta ed opposizione al fascismo rispetto alla letteratura ormai vastissima sul deputato antifascista, in gran parte ancora ancorata alla narrazione eroica e martirologica di matrice comunista e più specificamente gramsciana.

Grasso ricostruisce la vicenda umana, politica e parlamentare di Giacomo Matteotti, l’incisività del suo pensiero politico riformista, il suo rifiuto della violenza nella lotta politica ovunque si annidasse e la sua difesa delle libertà democratiche come elementi costitutivi di una nazione moderna e civile. Il che secondo Grasso lo porta a cogliere da subito i caratteri di novità del fascismo rispetto a ogni precedente fenomeno reazionario. Come Salvemini, egli mette in luce le ambiguità della politica di Giolitti che aprono di fatto la strada a Mussolini e chiama all’azione unitaria “ pur nella feconda diversità dei metodi e dei principi politici” tutti i socialisti e democratici nell’opposizione attiva al regime nascente  “contro la tattica dell’attesa e della sonnolenza” ( Cfr. GRASSO p. 146)

Nel 1919 Matteotti viene eletto deputato dopo una campagna elettorale intensa e difficile. È l’anno di fondazione dei Fasci di combattimento, della nascita di Ordine Nuovo di Gramsci, dell’impresa di D’Annunzio, dell’assalto alla sede milanese dell’Avanti e dello sciopero generale, ma anche delle elezioni politiche con la nuova legge elettorale proporzionale che superava i collegi uninominali e allargava il diritto di voto a tutti i cittadini maschi ventunenni che avevano espletato il servizio militare, aprendo le porte all’affermazione dei grandi partiti di massa.

Gli interventi in Parlamento

I suoi interventi in Parlamento s’incentrano su problematiche concrete anche sulla base della sua esperienza amministrativa e politica nei comuni del Polesine.  Centrali per esempio sono i temi dell’istruzione e dell’emigrazione. Matteotti propone campagne per l’alfabetizzazione, sostiene la creazione di asilo nido e giardini per l’infanzia secondo la lezione di Maria Montessori, invoca maggiori finanziamenti per l’istruzione, chiede ambienti scolastici idonei e moderni, classi meno numerose. Nel suo intervento alla Camera l’8 agosto 1920 dice: “prego vivamente il ministro del tesoro e quello della pubblica istruzione di volere uscire dalla nebulosità dei discorsi filosofici che ci ha fatto il senatore Croce, e venire all’attuazione di qualche cosa dando i fondi necessari per l’istruzione “ (Discorsi parlamentari di G. Matteotti, pubblicati dalla Camera dei deputati, 1970, p.107).

L’attenzione all’istruzione pubblica, così come emerge dal libro di Grasso, è una costante dell’azione  del parlamentare socialista, che nei tre anni successivi alla sua entrata in Parlamento e fino al suo assassinio si salda agli altri due cavalli di battaglia alla base della sua ferma opposizione a Mussolini, ossia la critica sempre più mordente della politica finanziaria   e la denuncia martellante delle violenze e della collusione insopportabile della forza pubblica con le squadre fasciste armate e pagate dagli agrari.

Attraverso la critica del bilancio fascista, condotta con argomentazioni dettagliate  e indagini supportate da dati, Matteotti squarcia la demagogia faziosa e la propaganda mistificatrice mussoliniana mostrando i legami tra il fascismo, gli agrari e i grandi gruppi economici italiani, smascherando il mito del pareggio di bilancio vantato dal regime e mostrando al contrario il saccheggio dei soldi pubblici con i tanti sussidi concessi ai gruppi che avevano sostenuto l’ascesa di Mussolini, a danno dei redditi bassi e delle fasce popolari. Così Gobetti descriveva il metodo di Matteotti che lo rendeva differente anche rispetto alla tradizionale retorica socialista: “Ragionava a base di fatti, freddo, preciso, tagliente. Metodo salveminiano. Quando affermava, provava. Niente esasperò più i fascisti del metodo di analisi di Matteotti che sgonfiava uno dopo l’altro i loro palloni retorici” (C. Rosselli, Eroe tutto prosa in “Almanacco socialista” .1934, p.16).

Il bilancio

Il bilancio è anche lo strumento con il quale Matteotti denuncia l’involuzione della democrazia italiana al cospetto

Un giovane Matteotti

dei paesi avanzati europei, particolarmente evidente sul terreno dell’istruzione. Il dato economico è il puntello dal quale egli parte per smontare la politica scolastica fascista, per denunciarne l’impostazione fortemente classista, la svalutazione delle scuole professionali e tecniche, il depotenziamento delle primarie e per quanto riguarda le Università  la proliferazione clientelare delle facoltà che si scontra con l’inadeguatezza degli investimenti: “Quanto all’ordinamento, egli scrive, le Università diventano libere… di cercarsi i mezzi per vivere,  ma perdono il diritto di eleggersi i Rettori, Presidi, Professori, che viene in parte assorbito dal Governo. Gli stessi programmi d’insegnamento sono elaborati ancora dalle facoltà, ma devono ricevere l’approvazione del Consiglio superiore della pubblica istruzione, nominato interamente dal Governo” (cfr. M. Grasso, p.135). Esprime inoltre forte preoccupazione per l’introduzione del giuramento politico da parte dei docenti, per l’obbligatorietà dell’insegnamento della religione cattolica che lede la laicità dell’istruzione pubblica e per lo svuotamento delle rappresentanze elettive delle istituzioni scolastiche.

Nell’aprile del 1924 Matteotti coglie la diversità di fase politica che si era aperta e l’accentuazione della natura violenta e repressiva del regime, la sua natura illegale e la corruzione degli apparati mussoliniani.  “Non esiste, egli dice, e non è mai esistito un programma fascista; esiste un metodo, che è la violenza, a servizio di alcuni ceti e gruppi di persone” (GRASSO, p.133). E la violenza non è un’idea, ma un crimine, da condannare e combattere sempre, qualunque sia la forma politica da essa assunta.

Questo convincimento lo spinge, in un contesto storico fortemente segnato dallo scontro tra socialisti riformisti e comunisti e socialisti rivoluzionari, a prendere posizione a difesa delle libertà democratiche anche nei confronti dei predicatori della “rivoluzione bolscevica” e a denunciare la natura autoritaria e dittatoriale del partito unico del proletariato. Nella difficile campagna elettorale dell’aprile del 1924  Matteotti infatti attacca duramente la politica comunista convinto che fascismo e comunismo siano due facce della stessa medaglia: “Il fascismo trova nel suo avversario che gli somiglia, un naturale alleato” perché “fascismo e comunismo  si tengono l’un l’altro: l’uno giustifica l’altro, l’uno è necessario all’altro per  poter continuare ciascuno coi propri metodi di dittatura e di violenza col pretesto di impedire la dittatura e la violenza della parte opposta”( in Grasso , cit. p.147).

Denunciando l’uccisione per mano fascista del candidato socialista Piccinini, replica  a quanti della corrente rivoluzionaria accusavano i riformisti di tradimento e di connivenza con il regime e rivendica la totale, coerente e ferma opposizione  dei socialisti al regime fascista ma al tempo stesso segna la differenza di questi rispetto ai comunisti: “I socialisti unitari si oppongono anche in questa lotta elettorale al Governo, e ne sopportano gli urti e le violenze dichiaratamente maggiori che contro tutti gli altri, per il concetto di libertà e di democrazia. Essi credono fermamente che non vi possono essere né elezioni, né Governo civile e moderno senza libertà. Essi deplorano che il popolo italiano, solo tra i popoli civili debba essere considerato come suddito, da guidarsi con la minaccia del bastone Essi si rifiutano di sancire la violenza di una fazione dominante, sia essa comunista, sia essa fascista” (in Grasso, cit. p.148). Contro l’atteggiamento attendista di quelli che auspicano il tanto peggio tanto meglio che farebbe accendere la scintilla della rivoluzione, il riformista Matteotti avanza la linea concreta di una riunificazione di tutti i socialisti e democratici nella lotta attiva al fascismo, senza più scissioni e scomuniche , e in questo senso scrive a Turati, purtroppo senza esito.

Contro ogni ipotesi aventiniana di astensionismo invita tutti ad andare a votare pure nella consapevolezza delle condizioni disperate in cui le elezioni si sarebbero svolte e dell’esito scontato di esse, ma necessaria a “puro scopo di affermazione ideale”. La partecipazione al voto è un diritto-dovere di ogni cittadino al quale non si può e non si deve mai rinunciare, al di sotto di qualsiasi temperie politica. La via maestra è sempre la conquista libera e pacifica, democratica, del consenso popolare.

Il giudizio di Matteotti

È noto il giudizio sprezzante che su Matteotti dette Gramsci che liquidò, in quanto sterile e infecondo, il riformismo di Matteotti che porterebbe la classe operaia a “passare di delusione in delusione, di sconfitta in sconfitta, di sacrificio in sacrificio” e alla fine ad essere “pellegrina del nulla”. In quest’ottica, Matteotti sarebbe niente altro che un martire e il suo assassinio l’ultima e più drammatica prova dei limiti del riformismo (Gramsci,1924b,p.1) e quindi della necessità del comunismo e del partito della rivoluzione proletaria come unica  via per sconfiggere non solo  “il fascismo di Mussolini e di Farinacci, ma anche il semifascismo di Amendola, Sturzo e Turati” (Gramsci 1924c,p.3). Come si sa le cose non sono andate politicamente e storicamente così.

In Italia la nascita della Repubblica democratica è stata lo sbocco di un processo politico segnato dalla fine del conflitto mondiale e dalla guerra di liberazione, alla quale presero parte comunisti, socialisti, cattolici, liberali e repubblicani che insieme, lasciando da parte ciò che li divideva, seppero unitariamente e democraticamente traghettare il Paese nel consesso dei paesi liberi e democratici, scrivendo con la Costituzione una delle pagine più belle della storia nazionale.

Di contro, là dove la rivoluzione proletaria c’è stata ha dato luogo a una dittatura, quella sovietica, i cui tratti non sono stati meno tragici, autoritari e repressivi di quelli delle dittature nazifasciste. Aveva torto Gramsci e avevano ragione Amendola, Sturzo, Turati e aveva ragione Matteotti, di cui andrebbe riscoperta l’originaria definizione di che cosa significhi essere riformista, soprattutto da parte di una sinistra, qual è quella italiana, oggi in evidente difficoltà nell’elaborazione di un pensiero critico sul presente e nel disegnare la rotta di una società più libera e giusta. Per Matteotti è riformista quella politica che punta a garantire le libertà individuali e collettive, a lenire le sofferenze sociali e ad assicurare a tutti migliori condizioni di vita e di lavoro senza ricorrere al gergo della rivoluzione o della fede, ma attraverso l’azione incessante e consapevole nelle istituzioni parlamentari e amministrative nonché attraverso la creazione di una robusta rete associativa, partiti e sindacati, quali luoghi di dibattito, di confronto, di crescita e di formazione delle leadership politiche. Il riformismo è una miscela di visione,di slancio ideale e di pratiche concrete in grado di apportare cambiamenti positivi, gli unici possibili e reali. Si è riformisti, diceva Matteotti, proprio perché rivoluzionari, intendendo dire che le riforme finalizzate a dare risposte concrete al di fuori di schematismi ideologici e di ogni demagogia populista, sono gli strumenti migliori per cambiare le cose e conseguire l’obiettivo di una società più libera e giusta per tutti.

Oggi, per noi,  il tema non è più quello della rivoluzione proletaria o del comunismo, ormai morto e sepolto, ma di quale politica costruire in grado di dare risposte all’altezza dei gravi problemi umani e sociali esistenti, ormai di dimensioni mondiali, in un mondo mutevole e profondamente cambiato.

Come ha osservato Tony Judt, con il crollo del socialismo reale si è sfilacciata tutta la matassa di dottrine che aveva tenuto insieme la sinistra per più di un secolo (T.JUDT, Guasto è il mondo, p.104) , ma la crisi che da lungo tempo stiamo vivendo, ha messo a nudo anche l’ultima illusione che dal crollo del Muro aveva pervaso persino la sinistra, ossia   quella del mercato, capace di creare maggiore benessere per tutti e di un liberismo convinto di aver chiuso i conti con il socialismo e le istanze di uguaglianza e di giustizia sociale da esso rappresentate.

Oggi, più che mai, c’è la necessità di restituire forza e credibilità all’azione politica riformista, che si faccia carico degli squilibri e dei conflitti, delle disuguaglianze crescenti e delle forme di dominio, delle povertà e delle disgregazioni sociali, e sia capace di ricercare, attraverso il confronto-scontro democratico, soluzioni condivise. Una necessità che urge soprattutto in Italia, dopo decenni di demagogia populista e di false rivoluzioni che hanno cancellato dal dibattito pubblico e dal panorama politico persino il termine socialismo.

Per ciò, ritornare a fare i conti con le correnti storiche del riformismo italiano ed europeo, riallacciare il filo spezzato di una visione politica, quella del socialismo democratico e libertario, riacquista peso e significato nel quadro della politica italiana e dell’attuale fase del mondo.

 

Maria Rosaria ManieriGià senatrice del Psi per varie legislature, questore del Senato. Docente di Filosofia morale, saggista. Autrice di vari volumi, tra cui “Donna e capitale”, tradotto all’estero

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