Dirsele… per non darsele!

Alla ricerca di radici "colte" della singolar tenzone Meloni-De Luca, vista da una studiosa del linguaggio

Amburgo, fine anni Sessanta. Sono in viaggio premio dopo il conseguimento della laurea, insieme ad altri cugini. Interrompiamo la visita della città sull’Elba per andare a prelevare dal battello un amico ritardatario rispetto alla data del tour. La nostra guida tedesca si chiama Gerda. L’amico scende a terra, ci viene incontro e all’atto della presentazione le dà la mano, la stringe dicendo “Gerda… con la G come Milano?!”

Eravamo giovani, liberi dalla scorta familiare, disposti a tutto nella città delle donne in vetrina, ma rimanemmo agghiacciati da quella battutaccia gratuita e inopportuna. Insultante nei confronti di una giovane che era lì come guida ufficiale del gruppo italiano e che pertanto era in grado di decodificare l’inopportuno calembour dell’italico ingegno. Provai un disagio e una vergogna che a tanti anni di distanza sono ancora vividi nel ricordo. E si sono riaffacciati al momento dello scambio di saluti tra due nostri rappresentanti delle Istituzioni avvenuto di recente e ormai mediaticamente “consumato”.

Vorrei tornarvi sopra però secondo una prospettiva che mi è più congeniale, quella letteraria. Riflettendo a posteriori sulla licenziosità linguistica dei protagonisti di questo duetto, vi ho ritrovato i segni tipici della romanità: la corporeità escrementizia dell’asse metaforico che rinvia alla corporeità della tradizione fescennina dell’età arcaica, come pure il gusto dell’altercare, dello scambio di botta e risposta di tipo ingiurioso. Una tecnica, quella del “rinfaccio” ripresa in età medievale dai poeti realistico-borghesi e sperimentata anche da Dante nella tenzone con Forese Donati o negli scherzi scollacciati con Cecco Angiolieri. Nihil sub sole novum.

Michail Bachtin

Forse ormai la politica si è “carnevalizzata”, per usare una categoria interpretativa cara al grande Michail Bachtin, visto che corrisponde ad alcuni dei caratteri che egli attribuiva alla festa del rovesciamento dei ruoli. Il carnevale, in opposizione alla festa ufficiale, era il trionfo della liberazione temporanea da regole e tabù (compresi quelli linguistici!), celebrava l’abolizione – ovviamente provvisoria- delle gerarchie e dei rapporti gerarchici, una liberazione manifestata in pubblica piazza.

Un momento antropologico e sociale di eccentricità dei gesti, dei comportamenti e delle parole. Nella festa del Carnevale sacro e profano si confondono, spesso si rovesciano sulla spinta di una tendenza alla profanazione, al sacrilegio degli ideali più alti, dei valori ufficiali, delle forme tradizionali. Tutto diventa parodia, controcanto demistificatorio grazie alle forze produttive della terra, del corpo e al gusto per le oscenità. Sulla scena della politica attuale (che mi appare così carnevalizzata) irrompe difatti da tempo ciò che normalmente restava ob-sceno: situazioni e ruoli vengono rovesciati in un’idea di perenne fluire e di perenne mobilità.

Zigmunt Bauman

Forse è colpa allora della società “liquida” teorizzata da Zigmunt Bauman? Ma forse sbaglio a cercare queste radici “colte” nel turpiloquio che ha invaso la sfera della politica istituzionale. Forse al guappo campano, la Giorgia nazionale ha inteso contrapporre la vox populi romanesca, quella delle statue parlanti, i cui lazzi violenti e anonimi erano destinati proprio ai potenti del tempo. Bel paradosso. O forse ha parlato in lei- quasi come ventriloquo paranormale- Rugantino, maschera del bullo trasteverino, sverto de’ cortello e prima ancora de’ parole, incarnazione perenne del romano che deve avere sempre l’ultima parola, che deve usare con violenza colorita l’arte del rinfaccio e il cui motto di vita è “Me n’ha date, ma io je n’ho dette!”.

La tradizione della Commedia dell’Arte nel nostro paese è mantenuta in vita proprio dagli esponenti di quell’altra arte omnium bonorum con cui Cicerone- spesso citato a memoria da De Luca- identificava la politica. Qui-in assenza di boni- si continua con la recita a soggetto. Ma che non si chieda anche il plaudite finale. Il pubblico non si diverte più. Disgustato diserta il Teatro.

 

Caterina Valchera Docente, saggista

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