Prima che il gallo canti

Noterelle sulla dialettica e la fenomenologia del potere, e le condizioni che lo accompagnano: solitudine, vertigine, infedeltà, invidia, arroganza e (in)gratitudine (dei clientes)

Recenti casi accaduti a esponenti di governo, e vicende più o meno simili vissute da personaggi di altri versanti politici, inducono ad alcune considerazioni di carattere generale, e alla possibile identificazione di alcune tendenze più o meno ricorrenti e quindi “strutturali”.

Non ci interessano specificamente i casi personali o personal-politici (negli anni del ’68 era un gran gridare: il personale è politico, il privato è politico) e quindi non ci soffermeremo più di tanto su quella che sbrigativamente chiameremo la vicenda Sangiuliano. Né praticheremo lo sport nazionale del voyeurismo mediatico, compulsivo e ossessivo, messo in mostra sulla maggior parte dei giornali e andato in scena su tante trasmissioni televisive, con puntate quotidiane, che,  tra gli altri effetti collaterali – lo ha denunciato proprio in una di queste trasmissioni e anche con un certo fastidio Massimo Cacciari –  hanno da una parte quello di trasformare “un caso” “nel” caso ingigantendolo oltre i suoi effettivi contorni,  e dall’altro oscurando di fatto questioni di vitale importanza per la vita quotidiana dei cittadini.

Esauritasi l’onda degli aspetti pruriginosi da feuilleton ottocentesco, restano sul terreno alcune questioni di fondo strutturali e direi consustanziali all’esercizio, alla gestione del potere. Problemi non solo di oggi, ma di millenni. Qui le citazioni si affollano. Potremmo cominciare da un verso dell’Ecclesiaste, la bibbia dei laici e degli intellettuali: Nulla di nuovo sotto il sole. E infatti fenomeni opachi connessi con la gestione del potere – nelle varie manifestazioni fenomenologiche attraverso i secoli – ci sono state: nepotismo (c’è stato nella storia sempre un cognato, un suocero, un genero, Napoleone e Mussolini sono solo degli esempi), favoritismi, a volte leggerezze e perfino, incredibile a dirsi, ingenuità. Perché anche l’uomo di potere non cessa di essere una persona umana.

Ma per rendere meno generico il discorso e non ridurlo a “brevi cenni sull’universo”, andiamo al cuore della natura del potere, e alle sue indispensabili condizioni di esercizio: lo spirito di servizio, il senso dello Stato, il personale disinteresse. Dignità e onore, indica la nostra Costituzione, per chi esercita una funzione pubblica.

Ma a noi interessa in questa sede anche il lato umano del potere: chi lo esercita si sente sempre attorniato da seguaci, beneficiati, clientes. Non soffre certo di solitudine, in tanta “folla”, almeno così parrebbe, chi detiene il potere; ma in realtà l’uomo di potere è sostanzialmente solo con la sua coscienza e con il senso del compito chiamato a svolgere. Egli è solo soprattutto nel momento della decisione.

Questa solitudine si manifesta poi rumorosamente nel momento della caduta. Chi cade in disgrazia, o per errore o perché abbandonato dalla sorte, resta solo, ed è un fuggi fuggi di coloro che prima lo osannavano.

Come mostrano esempi antichi, moderni e contemporanei

Il catalogo degli esempi è vasto, più del catalogo delle conquiste di don Giovanni.

Non per mischiare sacro e profano, ma sempre restando nell’ambito dell’umano troppo umano: Gesù prima acclamato dalle folle, un giorno disse a  Pietro che gli manifestava devozione e ubbidienza: prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte.

Pietro, sbigottito, negò. Ma quando Gesù cadde in disgrazia presso gli ebrei e fu arrestato, qualcuno della folla additando Pietro disse: Vedete quello lì? Stava con il Nazareno. Pietro si difese in sostanza, se non proprio con queste parole: Il Nazareno chi? Chi lo conosce? Lo disse altre due volte, e alla terza volta che rinnegò Gesù il gallo cantò. Pietro si ricordò delle parole del Maestro e pianse amaramente.

Gesù conosceva le pieghe più nascoste dell’animo umano, aveva una profonda scienza dell’uomo e non solo per preveggenza intuì aria di tradimento da parte di Gidsa.

Gesù non era un uomo di potere, perlomeno di potere mondano, ma conosceva l ‘uomo. Gli uomini di potere dovrebbero conoscere di quale stoffa è fatto l’essere umano, che è anche un modo per conoscere se stessi. Dell’essere umano sensibile alle sirene del potere, ad offrire servizi, ad andare in soccorso del vincitore (Flaiano), pronto ad applaudire chi vince e ad abbandonare chi perde.

Una canzone in voga anni fa – non meravigli questa commistione di alto e basso, ma è la vita stessa che è così – recitava: la vita (anche degli uomini di potere NdR) è un gioco, mischia le carte, ride chi vince, chi perde piange.

Chi perde piange e resta solo.

Anche Dante con l’esempio del gioco della zara

Nella Divina Commedia Dante ci rappresenta una situazione di questo genere, a proposito del gioco della Zara (un gioco d’azzardo del Medioevo):

Eloquenti questi versi:

quando si parte il gioco de la zara/

colui che perde si riman dolente/

repetendo le volte, e tristo impara/

con l’altro se ne va tutta la gente.

Chi perde resta solo.

“Guai – ammoniva Francesco Guicciardini nel ‘500 – a trovarsi là dove si perde”.

Certo, si può perdere restando in piedi, avendo agito con onore e coraggio. Ma chi perde a volte si becca anche l’alone perfido e beffardo dello sfigato, dello sfortunato.

“La sfortuna è come una scomunica”, scriveva Concetto Marchesi, grande storico della letteratura latina.

Una curiosità umana, troppo umana

Gennaro Sangiuliano

Senza entrare  nel merito della vicenda Sangiuliano, tralasciando la domanda se sia stato più vanitoso o imprudente, o vittima di un concorso di circostanze sfavorevoli – ci sono le  indagini e le parole dell’ex ministro e ora anche un suo esposto alla magistratura – una curiosità , umana, tropo umana, ci spinge a domandarci: dopo aver dato le dimissioni, cioè dopo averle confermate visto che erano state in un primo momento respinte dalla presidente del Consiglio, quanti di coloro che chiedevano favori, amicizia, selfie, sono rimasti al suo fianco o si sono fatti sentire?

Quanti lo hanno chiamato, magari limitandosi a farlo con messaggi di nascosto, come Nicodemo per paura dei farisei?

Quante telefonate sono arrivate e arrivano sul cellulare dell’ex ministro Sangiuliano?

Qui scatta l’altra componente fenomenologica che, come una malefica sirena fa da corteggio alle altre sirene allettatrici del potere: la (in) gratitudine umana.

Aveva ragione Andreotti, che, ormai spente le fiamme delle discordie civili, si rivela un saggio della Repubblica: la gratitudine – diceva- è  il sentimento della vigilia (nel senso che il postulante che si rivolge al potente, il giorno prima che ottenga il beneficio, si prosterna e si dichiara perennemente grato, dr otterrà quello che ha chiesto;  salvo poi sparire).

In molti casi invece accade che per alcuni la gratitudine sia non già il sentimento della vigilia ma dell’anti-vigilia.

C’è una conclusione a questo discorso? ognuno faccia la sua. La nostra è che il potere può essere come una mina: da maneggiare con cura, può servire (dovrebbe sempre servire) per  costruire il futuro, il bene della società. Ma il potere può diventare anche una trappola, una maledizione, un boomerang.

Chi lo  ha esercitato con spirito di servizio, disinteresse personale, senso dello Stato, dignità e onore, indicati dalla Costituzione, ha fondate speranze di salvarsi. Di più: di guadagnarsi il rispetto e forse anche la gratitudine dei contemporanei, e il ricordo dei posteri.

Per questo uno è statista e l’altro un politicante, o semplice gestore del potere. Per questo, nella grande marea della politica e della storia, ci sono i sommersi e ci sono i salvati.

 

Mario NanniDirettore editoriale

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