Per Israele.
Basta la parola, verrebbe da dire, con un famoso slogan degli anni Sessanta. Per Israele è il titolo di un libro in cui Andrea Camaiora, giornalista, saggista, Ceo & founder di The Skill, grida – se così possiamo dire – il suo omaggio, anzi il suo atto d’amore per Israele, vittima di un proditorio attacco terroristico, quello sferrato da Hamas il 7 ottobre, con la scia di lutti, massacri, distruzione, e una tragica sequela di cui non si vede ancora la fine.
Nel libro c’è anzitutto l’omaggio personale dell’autore che si schiera dalla parte di Israele, senza se e senza ma, e deplora e rigetta tutti i contorsionismi di chi solidarizza ma.., di chi condanna Hamas però…, di chi insomma sull’aggressione a Israele – frutto anche della negazione a quel Paese democratico dello stesso diritto all’esistenza- costruisce spiegazioni complesse.
Questo è un esempio lampante, sembra di capire dal ragionamento di Camaiora, di come a volte la complessità, la tanto sofisticata e praticata complessità, non solo non aiuti a capire ma rischi addirittura di stravolgere la verità. E la verità è – ricorda l’autore – che qui c’è un Paese aggredito e c’è un aggressore. Punto.
Inevitabile il parallelo con l’Ucraina, di cui tra pochi giorni ricorre il secondo anno dell’aggressione russa spacciata ipocritamente per “operazione militare speciale”: anche in questo caso ci sono le anime belle che solidarizzano con Kiev ma aggiungono, distinguono, cavillano. Andrea Camaiora invita a scegliere, a schierarsi: e la scelta è “tra libertà e oppressione, democrazia e dittatura, ragione e follia, pace e guerra, umanità e bestialità, tra l’Occidente con i suoi difetti e le sue contraddizioni ma anche con il suo carico di umanesimo, e la negazione di una civiltà umana che – al di là di ogni Credo o Non Credo- si fonda sul rispetto della persona umana, sull’amore verso il prossimo, sull’uguaglianza tra uomo e donna, sul valore non negoziabile della Vita, su una ‘Cultura della Vita’ contro una ‘Cultura della Morte’”.
La scelta – secondo Camaiora- se non può arrivare all’altezza eroica e umanamente non facile di uno Schindler o di un Perlasca, deve almeno essere un atto operoso di consapevolezza che ” è nostro dovere rischiare qualcosa per scegliere la parte giusta della Storia e della Civiltà. E testimoniare la verità, il che significa: ricordare oggi che in Medio Oriente, ogni giorno, Israele, con la sua esistenza dimostra che un altro mondo, un mondo migliore, è anche lì possibile. Un mondo certamente imperfetto, non privo di limiti ma contraddistinto da libertà, democrazia, prosperità. Una stella di speranza che brilla nel buio di una notte che sembra interminabile. Eppure quella stella continua a brillare e illumina, guida e infonde coraggio e conforto a coloro i quali lottano perché le cose cambino”.
Scrivendo questo libro, Camaiora ha avuto anche la buona idea di andare a cercare i discorsi e i messaggi che due grandi Papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ( l’assenza dell’attuale Pontefice non sembra casuale) hanno pronunciato e/ o indirizzato alle comunità ebraiche di Roma, della Germania ( Colonia e Berlino) e d’America, in un arco temporale che va dal 1986 al 2011. Ma sono citati anche altri Pontefici, Giovanni XIII, evocato dal rabbino Elio Toaff per un suo cordiale gesto verso gli ebrei ( di cui diremo) e Pio XII, che fu bersaglio di infamanti quanto ingiuste accuse di non aver aiutato gli ebrei o addirittura di collusione con il Terzo Reich, accuse di cui è stata dimostrata l’infondatezza.
I due Pontefici, nei loro discorsi e messaggi naturalmente non trattano l’aspetto politico in senso stretto ma vanno alla radice dell’antisemitismo e del razzismo e ai motivi che per secoli hanno visto la stessa Chiesa Cattolica guardare con sospetto, se non con ostilità, gli ebrei, considerati deicidi ( la famosa preghiera per i “perfidi giudei”).
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La svolta, la discontinuità nei rapporti tra Chiesa cattolica ed ebraismo, tra ebrei e cattolici, e nella percezione del popolo ebraico da parte del popolo cattolico, è venuta con il Concilio, con il famoso documento Nostra Aetate. Facendo riferimento a questa carta fondamentale, diventata poi terreno di nuova consapevolezza da parte cattolica dei nuovi rapporti con gli ebrei, i due pontefici hanno sottolineato alcuni punti irrinunciabili, quasi di non ritorno sula strada della lotta a ogni forma di antisemitismo. E questa è la pars destruens.
Poi c’è la pars construens che è la ricerca delle radici comuni tra la fede cristiana e l’ebraismo, che ha fatto dire a Giovanni Paolo II “gli ebrei sono i nostri fratelli maggiori” e a Benedetto XVI, forte della sua armatura teologica, che la salvezza “viene dai giudei”.
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Gli insegnamenti dei Papi. Parole inequivocabili e definitive di Giovanni Paolo II sugli ebrei
L’incontro che Giovanni Paolo II fece alla Comunità ebraica di Roma nel 1986 – la prima volta, sottolineò poi Benedetto XVI, di un cristiano e di un papa in visita alla Sinagoga – fu molto cordiale e commovente. Papa Wojtyla ricordò alcuni gesti di amicizia e vicinanza degli ebrei romani, che avevano partecipato in piazza san Pietro nella notte di veglia che precedette la morte di papa Giovanni; la presenza di ebrei alle numerose udienze pontificie negli anni passati; quella volta, ricordata dal rabbino Toaff nel suo saluto, in cui papa Giovanni fece fermare l’auto sulla quale era a bordo mentre passava davanti alla Sinagoga, ne scese e benedì gli ebrei che uscivano dal Tempio.
Ma in particolare Giovanni Paolo II si soffermò sul decreto Nostra Aetate, varato dal Concilio, un decreto che “deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo da chiunque”, da chiunque, sottolineò il papa. Che poi volle ricordare la lapide con l’iscrizione in lingua ebraica che aveva visto visitando il lager di Auschwitz (, il cui nome polacco è Oswiecim, perché si trova, appunto, in Polonia).
“Questa iscrizione suscita il ricordo del popolo, i cui figli e figlie erano destinati allo sterminio totale. Questo popolo ha la sua origine da Abramo che è padre della nostra fede come si è espresso Paolo di Tarso. Proprio questo popolo che ha ricevuto da Dio il comandamento ‘non uccidere’ ha provato su se stesso in misura particolare che cosa significa l’uccidere. Davanti a questa lapide non è lecito a nessuno di passare oltre con indifferenza”.
Dopo aver ricordato che il decreto Nostra Aetate ha segnato una svolta decisiva nei rapporti della Chiesa cattolica con l’Ebraismo, e con i singoli ebrei, Papa Giovanni Paolo II sottolineò tre punti fondamentali (del paragrafo 4 di quel decreto):
- La Chiesa di Cristo scopre il suo legame con l’Ebraismo scrutando il suo proprio mistero. La religione ebraica non ci è “estrinseca” ma in un certo qual modo è “intrinseca” alla nostra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e in un certo modo si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori
- Come ha affermato il Concilio, agli ebrei, come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettiva, per ciò “che è stato fatto nella passione di Gesù”. … É quindi inconsistente ogni pretesa giustificazione teologica di misure discriminatorie o, peggio ancora, persecutorie. Il Signore giudicherà ciascuno “secondo le proprie opere”, gli ebrei come i cristiani.
- Il terzo punto è conseguenza del secondo: non è lecito dire, nonostante la coscienza che la Chiesa ha della propria identità, che gli ebrei sono “reprobi o maledetti”, come se ciò fosse insegnato, o potesse venire dedotto, dalle Sacre Scritture, dell’Antico come del Nuovo Testamento. Gli ebrei rimangono carissimi a Dio, che li ha chiamati con una “vocazione irrevocabile”.
“Su queste convinzioni – disse Giovanni Paolo II – poggiano i nostri rapporti attuali. Nell’occasione di questa visita alla vostra Comunità, io desidero riaffermarle e proclamarle nel suo valore perenne.”
Il Papa tuttavia mise in guardia contro facili ottimismi, affermando che “ciascuna delle nostre religioni, pur nella piena consapevolezza dei molti legami che le uniscono, vuole essere riconosciuta e rispettata nella propria identità”. E quindi niente sincretismi o “equivoche appropriazioni”. E poi aggiunse questa avvertenza:”la strada intrapresa è ancora agli inizi, e ci vorrà ancora parecchio, nonostante i grandi sforzi da una parte e dall’altra, per sopprimere ogni forma seppur subdola di pregiudizio”.
E non mancava una esortazione rivolta all’interno della Chiesa: “Vorrei ricordare ai miei fratelli e sorelle della Chiesa Cattolica, anche di Roma, il fatto che gli strumenti di applicazione del Concilio in questo campo preciso sono già a disposizione di tutti. Si tratta di due documenti pubblicati nel 1974 e nel 1985 dalla Commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l’Ebraismo. “Si tratta solo di studiarli con attenzione, di immedesimarsi nei loro insegnamenti e di metterli in pratica”. Come dire, dantescamente: le leggi son, ora applicatele.
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A sua volta, nei suoi discorsi e messaggi Benedetto XVI ha fatto spesso riferimento alle parole di Giovanni Paolo II e al decreto Nostra Aetate, definito da Ratzinger, nel suo discorso ai presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane, nella sala del Concistoro nel 2009,, una “ pietra miliare nel cammino verso la riconciliazione”.
Benedetto XVI aggiunse in quella occasione parole inequivocabili e definitive anche lui: “La Chiesa è profondamente e irrevocabilmente impegnata a rifiutare ogni forma di antisemitismo e a continuare a costruire relazioni buone e durature fra le due comunità”. A questo punto evocò l’immagine di Giovanni Paolo II che sosta presso il Muro del pianto, a Gerusalemme, implorando il perdono di Dio dopo tutta l’ingiustizia che il popolo ebraico aveva dovuto subire.
Faccio mia, disse il papa, la sua preghiera: “Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome fosse portato alle genti: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi suoi figli, e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’Alleanza”(26 marzo 2000).
Dopo aver ricordato la Shoah, “un crimine contro l’umanità, un capitolo terribile della nostra storia che non dovrà mai essere dimenticato”, Benedetto XVI parlò della memoria, del ricordo: “il ricordo è memoria futuri, un ammonimento a noi per il futuro e un monito a lottare per la riconciliazione. Ricordare significa fare tutto il possibile per prevenire qualsiasi recrudescenza di questa catastrofe della famiglia umana, edificando ponti di amicizia duratura”.
E sempre all’insegna del ricordo sono le parole pronunciate al Reichstag di Berlino, nell’incontro con i rappresentanti della comunità ebraica tedesca durante il viaggio apostolico del 2011: “Oggi mi trovo in un luogo centrale della memoria, di una memoria spaventosa: da qui fu progettata e organizzata la Shoah, l’eliminazione dei concittadini ebrei in Europa”. Ricordate le molteplici iniziative comuni e gli incontri annuali tra vescovi e rabbini, in Germania, Benedetto XVI, il teologo Ratzinger, disse testualmente:”Dobbiamo renderci sempre più conto della nostra affinità interiore con l’Ebraismo. Per i cristiani non può esserci una frattura nell’evento salvifico. La salvezza viene appunto dai Giudei”.
Dopodiché Ratzinger puntualizzò: “Il messaggio di speranza, che i libri della Bibbia ebraica e dell’Antico Testamento cristiano trasmettono è stato assimilato e sviluppato da giudei e cristiani in modo diverso. Dopo secoli di contrapposizione, riconosciamo come nostro compito di far sì che questi due modi della lettura degli scritti biblici – quella cristiana e quella giudaica – entrino in dialogo tra loro, per comprendere rettamente la volontà e la parola di Dio”.
Dalle parole di questi due grandi Pontefici – Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – vengono dunque chiari messaggi definitivi di condanna dell’antisemitismo e di speranza crescente nel cammino di riconciliazione tra ebrei e cristiani, superando antichi rancori e pregiudizi. Ma viene anche con altrettanta chiarezza una esortazione a tenere viva la memoria di ciò che è stato, dei crimini commessi contro l’umanità perpetrati con il genocidio e i massacri. Che purtroppo continuano ancora oggi, disprezzando la vita umana, negando il diritto di Israele ad esistere, nel buio totale della ragione e sotto la spinta dell’odio feroce senza confini.
Eppure, scrive Camaiora nell’Introduzione al libro, “Sembrerebbe perfino scontato dire che si può non amare qualcuno senza per questo volerlo morto o annientato. Che si può credere in altri ideali o in un altro Dio senza per questo sgozzare, torturare, progettare sopraffazioni di ebrei, cristiani o musulmani. Che ci si può battere per un mondo diverso, a nostro modo di vedere peggiore, senza per questo sporcarsi le mani di sangue”.
Anche in questo senso il libro Per Israele è un importante contributo a tenere viva la memoria e a tenere sveglia la coscienza su ciò che accade ogni giorno in Medio Oriente e in altri luoghi di guerra e di morte che ci sono nel mondo.
Simone Massaccesi – Redattore