Riforma costituzionale. Ripensaci, Giorgia

Il rischio di una eterogenesi dei fini. Riforma pasticciata, e qualche sproposito. Se verrà bocciata, non sarà obbligata a togliere il disturbo. Questo no. Ma perderà quello che ha di più caro: la faccia. Ecco. Il consiglio di ripensarci

Per darsi coraggio, Giorgia Meloni ha affermato che il disegno di legge costituzionale licenziato dal consiglio dei ministri è ottimo. Verrebbe da dire ottimo e abbondante come il rancio militare, il più delle volte una schifezza.

 

 

 

No, le cose purtroppo non stanno così. Perché la meta del premierato sarà pure luminosa, ma la direzione di marcia non porterà a niente. Peggio, l’eterogenesi dei fini l’avrà ancora una volta vinta. Con il risultato che si registrerà un arretramento rispetto al premierato di fatto con il quale l’inquilina di Palazzo Chigi calca la scena. Ammesso e non concesso che la riforma superi le colonne d’Ercole del referendum confermativo. Altrimenti saranno dolori seri per Giorgia e i suoi cari.

Cominciamo col dire, come si è accennato, che Giorgia oggi cavalca un premierato di fatto. Non è stata eletta dal popolo, è vero. Ma prima delle elezioni politiche i leader del centrodestra hanno convenuto che sarebbe diventato presidente del consiglio il capo del partito più votato. E Fratelli d’Italia ha avuto un tale successo elettorale da surclassare i suoi alleati. Tant’è che nelle consultazioni al Quirinale Sergio Mattarella non ha dovuto sudare sette camicie per conferire l’incarico alla Meloni e poi per nominarla presidente del consiglio. Un presidente del consiglio, si badi, che ha le caratteristiche del primo ministro vero e proprio. All’inglese. Al punto di poter chiedere al capo dello Stato e ottenere lo scioglimento anticipato delle camere. Come accade di norma nel Regno Unito. E lo scioglimento puramente minacciato è un elisir di lunga vita per il governo.

E veniamo al progetto di riforma. A quanto pare, il testo ha mille padri. Ha subito un’infinità di compromessi al ribasso. E a furia di limare per non dispiacere al presidente della Repubblica, al parlamento e al gatto, è saltato fuori un elaborato con non poche criticità. Vediamole. L’articolo 1 si sbarazza dei senatori a vita di nomina presidenziale, buttando il bambino con l’acqua sporca. I senatori a vita nominati da Luigi Einaudi hanno dato un notevole contributo ai lavori del Senato. Se poi in seguito non tutti si sono rivelati all’altezza, sovente disertando i lavori della Camera alta e atteggiandosi così a fantasmi, la colpa non è tanto loro ma di chi li ha nominati. Perciò penso che tuttora abbiano una loro ragion d’essere. A patto che agiscano con dignità e onore, come stabilisce l’articolo 54 della Costituzione. Sì a modifiche suggerite dall’esperienza ma no alla loro abolizione pura e semplice. Fermo restando che i senatori a vita attuali, fantasmi compresi, resteranno in carica.

L’articolo 3 definisce ancora presidente del Consiglio l’inquilino di Palazzo Chigi e non prevede che possa proporre al capo dello Stato la revoca dei ministri. Perciò continuerà ad essere rispetto ai ministri un primus inter pares e non un primus solus come si conviene a un primo ministro. Prevede l’elezione a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni. Uno sproposito. Perché la durata di cinque anni, cioè fissa, è contraddice il rapporto fiduciario. Perciò il governo durerà finché avrà la fiducia delle camere. Quanto al premio di maggioranza, è meglio codificarlo nella legge elettorale. La previsione della fiducia iniziale dovrebbe considerarsi presunta, data l’elezione popolare del premier. E invece no. L’articolo 4 è pasticciato. Prevede che in caso di mancata fiducia iniziale il capo dello Stato reincarica il premier eletto. E il Quirinale procede allo scioglimento se il premier reincaricato non ottiene di nuovo la fiducia. Se poi il premier cessa dalla carica per qualsivoglia motivo, il Colle può conferire l’incarico al premier dimissionario (ma può cessare anche per una crisi di nervi o per altro ancora) o a un altro parlamentare eletto in collegamento al premier eletto “per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli indirizzi programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha chiesto la fiducia alle Camere”.

Si prevede che il premier di riserva sia un parlamentare per escludere un “tecnico”. Ma perché escludere sempre e comunque un’ipotesi del genere in casi limite? E poi siamo sicuri che con questa normativa i ribaltoni saranno relegati in soffitta? Non ci giureremmo. Fatto sta che se anche la riforma andasse in porto, la Meloni perderebbe il potere di scioglimento garantito dal premierato di fatto. Ma poi la sullodata riforma andrà veramente in porto? Perché i cittadini al referendum confermativo non si troveranno davanti a un quesito del seguente tenore: “Volete voi l’elezione popolare diretta del primo ministro?”.  Ma sarà questo, ai sensi dell’articolo 16 della legge 25 maggio 1970, n. 352: “Approvate il testo della legge costituzionale … concernente… approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero… del …?”. Arabo per il quidam de populo. E se la riforma verrà bocciata, Giorgia non sarà obbligata a togliere il disturbo. Questo no. Ma perderà quello che ha di più caro: la faccia.

Le opposizioni per la prima volta avranno un bersaglio comune. I giornali infarciti di costituzionalisti a senso unico suoneranno la grancassa. E Giorgia sarà additata come il nemico pubblico numero uno. Di qui un legittimo interrogativo: Giorgia, ma chi te lo fa fare? Come quella birba di Luca Ricolfi ha già ben detto.

 

Paolo Armaroli – Professore emerito di Diritto pubblico comparato. Docente di Diritto parlamentare

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