Ciao Armenia. Lo scorrere del tempo

Pubblichiamo questo articolo del professor Francesco Gallo Mazzeo, di ritorno dall’Armenia dove ha soggiornato per svolgere una missione culturale, contribuendo alla sistemazione del patrimonio artistico e museale di quel Paese. Chiamarlo articolo è un po’ riduttivo: è piuttosto una poesia, una musica, un caleidoscopio, con vibrazioni sonore, emotive e concettuali che restano nella memoria e danno un’idea di quel grande Paese, così lontano così vicino

Gli estremi si toccano. Tempi lontani e tempi vicini. Insieme danno una strana sensazione di non esserci e di esserci, nello stesso momento, allungando e stringendo i pensieri, le emozioni, come una fisarmonica, che si sente da lontano e induce al sogno, alla poesia, mentre la luce del giorno si fa chiara, chiarissima e ti attira, come in un incanto di apparizioni che parlano la lingua di oggi e fantasmi che sibilano strane strofe millenarie.

Le strade sono larghe, per un traffico che è essenziale, come lo era da noi negli anni ’50 del passato secolo, un po’ caotico ma cantilenante, danzante, non stridulo e arrabbiato. L’Armenia è una lunga striscia di terra, che ha come suo cuore, la Sede del Catholicos, la città di Yerevan, il lago Sevan. Come a dire, che tutto sia sotto controllo, osservato dalla ieratica mole del Monte Ararat, che, però, è oltre il confine turco, per quella stana geografia di potere, voluta prima dai nostri cugini costantinopolitani e poi resa eterna dai turchi ottomani e dai sovietici, per cui nessuno è padrone in casa propria, con una stana partitura, per cui chi possiede il corridoio di una casa, non possiede la camera da letto e lo stesso non possiede la cucina e il bagno (uno solo) è di un altro proprietario.

In questo modo ognuno è nemico dell’altro, senza pace, con la stessa disperazione e impotenza (vedi Nagorno Karabak e Nakicevan) mentre, dall’alto, qualcuno che ha diviso, impera; fingendo di essere amico, ora dell’uno, ora dell’altro, facendo solo i propri interessi.

I turchi si rifiutano di riconoscere lo sterminio genocidiale, fatto un secolo fa e stringono il più possibile l’Armenia indipendente, che andò bene ai bolscevichi, nel farne uno staterello cuscinetto del loro impero (mentre le carte storiche parlano di una immensa Armenia).

Oggi, dopo la guerra lampo che ha cancellato il Nagorno Karabak (temo per sempre), in uno stato di sospensione concettuale di belligeranza, con il vicino Azerbajgian, la vita prosegue come può, cercando i motivi di fondo per una pace futura e duratura e per dare una speranza, ai tanti (specie giovani) che vogliono costruire il loro avvenire nel lontano Canada e a quegli altri, la maggioranza, che vogliono stare in quelle montagne, già romane e del primo cristianesimo, oggi protese a fare frutteti, vigneti, botteghe artigiane, piccole industrie e tutto quello che fa di un popolo, un popolo appunto, orgoglioso della sua resistenza nel tempo e all’esistenza nella libertà di oggi.

Se ti abitui ai frequenti passaggi di cicogne (quelle che nel lontano passato, facevano piene le culle italiane e oggi le lasciano vuote) ai grandi silenzi che avvolgono l’aria o abbandoni, le luci, i colori, i bar, i ristoranti, della turbinante Yerevan, entri in un’atmosfera che ti rende vivibili, anche gli impossibili, come la millenaria prigione/tomba, dove per anni venne tenuto prigioniero Gregorio ( San Gregorio Armeno) luogo in cui nessuno potrebbe sopravvivere per più di qualche giorno; ma si vede che i miracoli della fede non sono solo narrazioni vuote, fantasie, ma eventi tangibili, che lasciano il segno.

Oppure il Sacrario dove sono ricordati i milioni di armeni innocenti, uomini, donne, vecchi, bambini, mitragliati, dopo giorni di inedia, senza pane e senza acqua e poi gettati nelle foibe, vivi o morti che fossero.            Ho ancora nelle orecchie, il canto monodico a cappella dei monaci e delle devote, che ti fanno capire l’arcano della fede ( credo quia absurdum, di Quinto Settimio Florente Tertulliano) su cui si basa ogni speranza e poi il fluire sonnolento delle note che fuoriescono dal duduk, un flauto magico, capace di darti pace, se vuoi pace, di farti piangere se vuoi piangere, di cantare, laudare, se vuoi cantare e laudare.

Dopo avere visto, il bacino martoriato del Sevan, che i sovietici stavano facendo scomparire, come avevano fatto per intero, con quello di Aral, tanto grande da essere chiamato mare, ho visto un grande esempio di futurismo e sperimentalismo cinematografico, diventato museo, quello di Sergej  Iosifovic Parajanov, autore del capolavoro Il colore del melograno,osteggiato perché spirito libero, amico di tutti gli innovatori, di Louis Aragon, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni.

Spirito libero, ai tempi in cui la libertà era un reato, oggi è un faro per tutti noi. Gli spiriti liberi possono soleggiare in tutte le stagioni, come testimonia la vita e la morte di Karen Demirchyan, un liberal socialista,democratico, patriota, sulla cui scrivania storica ho avuto modo di sedere, anche solo per una foto ricordo. La sua bella nipote, ha frequentato per laurea l’Istituto Marangoni di Milano,uno dei luoghi in cui lo spirito degli italiani eleganti, donne e uomini, si trasmette, per fisica dei materiali e metafisica delle forme, in gusto, eleganza, stile. Una parte per il tutto. Ciao Armenia.!

 

Francesco Gallo MazzeoDocente emerito ABA di Roma, Docente di linguistica applicata ai nuovi linguaggi inventivi delle arti visive in Pantheon Institute Design & Technology di Roma e Milano

 

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