D’Annunzio, 160 anni dopo: un ricordo di gioventù che più dannunziano non si può

Quando scocca l’ora dell’etera? A quindici anni e cinque mesi Gabriele D’Annunzio – che poi diventerà vate di poesia e di lenzuola – vive in un bordello il meno poetico degli esordi sessuali. Lo racconta Giordano Bruno Guerri in Gabriele D’Annunzio – l’amante guerriero, un libro che vale la pena di rileggere sempre, specie a 160 anni dalla nascita del Vate.

C’è che il giovane Gabriele non è ancora l’inventore dell’ “Eia eia Alalà”, l’agitatore delle notti fiumane, il soldato che sogna una sirena a bordo del suo Mas in rotta verso Buccari.

È allora un adolescente che, malgrado il dieci in condotta e voti da secchione al Cicognini di Prato, bacia una ragazza davanti alla statura di Chimera nel museo Etrusco di Firenze “suggestionato dalla bocca della belva triplice”, e si diletta a scandalizzare le guardarobiere del collegio non celando la virtù più indecente.

Ancora più satiro che amante – il guerriero verrà dopo – Gabriele durante una gita fiorentina decide di compiere il grande salto, in quella che chiamerà l’ora dell’etera: vendere l’orologio del nonno, corrompere i sorveglianti e infilarsi in un postribolo. “Aveva portato con sé – scrive Bruno Guerri – una fiala d’essenza profumata che spezzò nel lupanare dopo aver spiegato alla piccola meretrice che doveva fingersi di chiamarsi Lucrezia”.

La descrizione della donna lascia fin troppo spazio all’immaginazione: “Una gran gorgona dalla criniera di serpi ridotta a una parrucca di stoppa rossastra”. Mentre nell’orgasmo il Vate non può che restituire una immagine, se non eroica, certo dolce di quell’assalto al mistero carnale: “Sentii una mano sudaticcia che mi compresse nella bocca il grido spasimoso. Poi sentii placare i miei sussulti da una tenerezza quasi materna, da non so che malinconica dolcezza da ninnananna, da una pietà semplice che pareva ritrovasse la monotonia delle cantilene in una lontananza indefinita”.

L’amico, che lo aveva accompagnato al bordello, rimane tuttavia assai meno rapito da cotanta beltà: “Come aveva veduto davanti a sé il fosco antro spalancato dall’improvviso scoscio della meretrice s’era messo a gridare e tempestare come in punto di sparire nel baratro senza fondo: Gabriele che cosa brutta! Che cosa orrenda, Gabriele”.

Non si scandalizzino i sacerdoti del politicamente corretto: c’è che per capire il carattere di Ariel, tutta agitazione, tormento e insonnia, bisogna andare alla biografia del padre, Francesco Paolo anche lui dissipatore di donne e di patrimoni. Il figlio –  Giordano Bruno Guerri ci restituisce le parole di Gabriele – riceve dal papà “la potenza, l’impeto, la sensualità, la crudeltà, la prodigalità ma anche l’amore dei cani e dei cavalli, dei profumi e delle donne e dei frutti, il piacere dello sperpero”.

Quel gusto – arcitaliano- per l’esagerazione, l’impostura ma anche la grandezza: come quando Gabriele quasi anticipa la gloria fiumana sostenendo di essere nato su un brigantino in mezzo al mare Adriatico oppure quando in uno slancio superomista mette in giro la voce di ricordarsi le grida della madre partoriente. Sempre lui, l’uomo dal multiforme ingegno, l’Odisseo nato alla fine del lungo Ottocento: Gabriele d’Annunzio, il comandante, il poeta, l’accademico d’Italia, il Vate.

 

Andrea PersiliGiornalista

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