Ricordo di un gigante del sindacato, Giuseppe Di Vittorio

A 65 anni dalla morte, si batte per l’unità sindacale a difesa degli ultimi e dei lavoratori

CulturaPolitica

Lo incontrava di nascosto, su un treno, litigandoci tutta la notte: la mattina seguente gli stringeva la mano, dopo averci trovato un accordo.

Nel secondo dopoguerra, tra fame e disordini sociali, con la polizia del ministro Mario Scelba che ancora sparava ad altezza d’uomo nelle manifestazioni, il presidente della Confindustria Angelo Costa aveva intuito che dall’altra parte c’era un comunista con cui – in fondo- ci si poteva intendere: Giuseppe Di Vittorio, segretario della Cgil, un uomo che sapeva tirare la corda della trattativa, ma mai fino al punto di spezzarla; e che – pure non usando i termini di Elio Vittorini sui ‘pifferai della rivoluzione’- all’autonomia del sindacato nei confronti del partito (il rigido e centralista PCI di Palmiro Togliatti) teneva più d’ogni altra cosa.

Angelo Costa

 

Perché quella battaglia per i diritti dei lavoratori – che a 65 anni dalla morte l’Italia oggi ricorda – il sindacalista pugliese l’aveva combattuta in prima persona, con gli occhi sinceri di chi a dieci anni vede il padre, “curatolo” di cavalli, morire per la fatica sui campi e a dodici – costretto per fame a lavorare da bracciante nel latifondo di Cerignola- assiste allo sciopero dei suoi compagni, represso nel sangue dalle guardie regie. E scopre senza aver letto Gaetano Salvemini- lui che l’italiano aveva appreso segnando i termini sconosciuti su un quaderno e scoprendone i significati su un vocabolario acquistato con i pochi risparmi messi da parte- che persino il diritto di sciopero allora seguiva i confini regionali: al Nord l’allora presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, sognando un accordo con i socialisti riformisti di Filippo Turati, garantiva agli operai la massima libertà di azione; nel Meridione, dove invece a prevalere erano i braccianti, ne reprimeva qualunque agitazione come ai tempi dei “governi della sciabola” di fine Ottocento.

E diviene subito chiaro a quel ragazzo pugliese- costretto a dormire sulla paglia e picchiato dal mugnaio se chiede un filo d’olio in più sul pane – che tra i contadini della piana del Fucino, descritti dalla penna di Ignazio Silone in “Fontamara”, e i cafoni della Murgia non c’erano che pochi chilometri, quelli della Transumanza: che però aveva poco in comune con l’Arcadia uscita dalla poesia di Gabriele D’Annunzio, ma parlava di fame antica e sopruso arcaico.

Umiliati da secoli e per secoli sempre dagli stessi padroni, quei cafoni continuavano a lavorare le medesime terre alle medesime condizioni: medievali, al confine con la servitù della gleba. Sebbene liberale e non più assolutista, il nuovo Stato italiano dal 1861 non gli aveva garantito che un diverso tricolore: ma i latifondi rimanevano indivisi, sempre di quelli stessi baroni che avevano servito sotto i Borboni. A quei contadini, cafoni li chiamavano, non era dato che togliersi il cappello quando passava il padrone, raccomandarsi l’anima al Signore e sfogarsi con un prete che, anziché il vangelo di Dio, serviva quello dell’Agraria: e versava acqua in abbondanza sui bollori di rivolta.

Senza alfabeto e istruzione, queste donne e questi uomini non sapevano leggere le parole di chi combatteva la loro lotta: e l’uguaglianza di Rousseau come la libertà di Voltaire erano termini di una battaglia troppo moderna per essere contesa. Lì, nelle Murge, la vera guerra era sopravvivere: agli incidenti sul lavoro, per cui il padrone ricompensava la famiglia della vittima con tre sacchi di frumento; alle botte del mezzadro, che frustava con violenza chi chiedeva un po’ di minestra in più; alle malattie, che colpivano senza tregua chi era costretto a vivere in mezzo alle bestie.

Ed è proprio in quel clima, ancora spagnolesco e controriformista, che nella piazza della città di Cerignola quel giovane bracciante impara a sfidare l’”ancien Regime”, non togliendosi più il cappello al passaggio di “lorsignori” e vestendosi di bianco la domenica: uguale a loro.

Di più: organizza le prime Camere del lavoro della zona, chiedendo salari migliori e migliori condizioni di lavoro. E sotto la bandiera del sindacalismo rivoluzionario dell’Unione sindacale italiana (Usi), in punta di scioperi, blocchi stradali e occupazioni, ottiene persino un nuovo contratto collettivo: chi lavora a Cerignola, da qualunque altro paese provenga, non può avere un salario inferiore a quello pattuito per tutta la zona.

Della modernità, in ritardo di secoli, quel giovane diventa il bardo, organizzando i suoi “cafoni” ormai in grado di guardare i “signori” negli occhi senza più abbassare lo sguardo a terra: confortati dalla fiaccola dell’anarchia e da quelle vaghe idee di socialismo. Ma, conclusa la prima guerra mondiale, quella festa, appena cominciata con lo slancio vitale alla Filippo Corridoni e Alceste De Ambris, è già sul punto di finire.

Dopo il canto del cigno del biennio rosso, in cui i braccianti credono persino nella redistribuzione delle terre, Di Vittorio si accorge che i nemici di sempre rialzano la testa, stavolta con propositi di vendetta, decisi a farla finita una volta per tutte con i cafoni. Sotto le bandiere nere del figlio di un grande proprietario terriero, Giuseppe Caradonna, “ras” di una terra in cui il fascismo – lì più che altrove- altro non è che guardia bianca di una borghesia feudale e retriva, le camice nere a cavallo (gli squadristi di Caradonna arrivarono in sella anche durante la marcia su Roma) ributtano a terra lo sguardo dei braccianti, colpendoli con il manganello, l’olio di ricino e la rivoltella.

E Di Vittorio – che grazie all’incontro con il deputato socialista Giuseppe Di Vagno, che finirà ammazzato proprio con il piombo delle squadracce di Caradonna, entra nel partito socialista italiano diventandone deputato nel ’21 – si trova in quei due anni a contrastare le squadracce sul fronte politico, sindacale (insieme al suo amico Bruno Buozzi) e soprattutto militare, quando armi in pugno difende con un manipolo di arditi del popolo e legionari fiumani la Camera del Lavoro di Bari.

Bruno Buozzi

 

Convinto – lui che ha visto gendarmi e preti alla tavola del fascista e ha sempre rifiutato gli avvicinamenti di Benito Mussolini, considerando il suo movimento regressivo per i diritti dei lavoratori – che il fascismo si possa fronteggiare solo con la lotta armata, si avvicina nel tempo al partito comunista italiano, lontano da ogni sirena riformista. Eppure proprio nei successivi anni Trenta, ormai in esilio in Francia, quando il Pci chiama “socialfascista” il suo amico Bruno Buozzi solo perché ancora socialista, lui capisce che migliore alleato della reazione è il settarismo, e parte per la Spagna: nelle brigate internazionali a combattere il franchismo.

Stella polare l’unità dei lavoratori, difende l’organizzazione sindacale unitaria– la nuova Cgil, rinata nel patto di Roma del ’44- con il suo amico cattolico Achille Grandi e il socialista Oreste Lizzadri (Buozzi era stato ucciso dai nazisti durante la guerra) persino nei giorni durissimi della campagna elettorale del ’48. E anche dopo la scissione nella triplice Cgil-Cisl e Uil, che pure fa di tutto per evitare dopo l’attentato a Palmiro Togliatti, non esita a rivendicarne almeno l’unità d’azione, persino contro le direttive del partito: come quando definisce “assassini” i soldati dell’armata rossa che hanno represso la rivolta ungherese del 1956, sparando sui lavoratori di Budapest.

Giuseppe Di Vagno

 

Perché quel sindacalista, considerandolo un mezzo anziché un fine, non pensa al bisogno di comunismo – copyright da “La meglio gioventù”-, ma ai diritti dei lavoratori: animato com’era più dall’amore per i poveri che dall’odio contro i ricchi.

E oggi, a distanza di 65 anni da quando fu seppellito nel cimitero del Verano di Roma, la sua storia è ancora un esempio, con almeno tre insegnamenti che vanno dritti al cuore del sindacato: rimanere tra gli ultimi – ieri i cafoni, oggi i rider e i disoccupati; l’autonomia dalla politica (soprattutto quando al governo sono partiti “amici”); e infine l’unità sindacale come valore fondante, lontano da ogni estremismo parolaio ma anche contro ogni compromesso a ribasso sulla pelle degli ultimi.

 

Andrea Persili – Giornalista praticante

 

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