Le due culture. Odifreddi: la matematica ha un ruolo capillare nella cultura umanistica

“La presenza, a volte scoperta a volte più nascosta e sorprendente, delle scienze matematiche nei vari campi delle scienze umane: letteratura, psicologia, filosofia, politica, religione”. Alle ultime battute il dibattito sulle due (tre) culture, umanistica, scientifica e sociale. Iniziato con un articolo del professor Mario Capasso, pubblichiamo questi brani del professor Piergiorgio Odifreddi, che utilizziamo, in modo necessariamente rapsodico, per gentile concessione, e di ciò lo ringraziamo per la fiducia, dell’autore di Pillole matematiche. I numeri tra umanesimo e scienza, 2022, pagine 357, Carocci Editore

“Oggi tutti più o meno sanno che la civiltà tecnologica si fonda sul sapere scientifico, e che le scienze parlano il linguaggio della matematica. Ma pochi conoscono e capiscono questo linguaggio, e i molti dialetti in cui esso viene declinato nelle varie scienze. Una metà delle pillole del libro contiene dunque esempi di applicazione della matematica alla geografia, all’astronomia, alla fisica, alla chimica, alla biologia e all’economia.

L’altra metà delle pillole svolge invece un compito più inaspettato e sorprendente. Mostrare, cioè, come anche l’umanesimo faccia un grande uso della matematica, benché spesso gli umanisti non lo sappiano, e altrettanto spesso non se ne accorgano. Anzi, molti non sospettano neppure che si possano trovare aspetti matematici nella letteratura, nella pittura, nella musica, e addirittura nel gioco. E non aspettandosi di trovarli, quando li incontrano non li notano neppure.

Confesso senza vergogna che, prima di pensare di sorprendere il lettore, mi sono spesso sorpreso io stesso. Infatti, da principio non sospettavo che la matematica avesse un ruolo così capillare e ubiquo in entrambe le Due Culture, e soprattutto in quella umanistica. Agli inizi ne ho semplicemente notato qualche aspetto isolato in luoghi inaspettati. In seguito gli esempi mi sono cascati addosso a valanga, stimolati anche dal fatto che per quasi vent’anni ho tenuto una rubrica sul mensile Le Scienze, a partire dall’aprile 2004”.

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La divulgazione

“Divulgare significa portare a conoscenza del volgo, inteso nel senso nobile di una popolazione generica, un pensiero che appartiene a un individuo o a un gruppo specifici.

( ….) Nella civiltà occidentale, i primi a porsi il problema della divulgazione furono i pitagorici, che esercitarono la loro attività intellettuale in due campi complementari…

Il primo grande divulgatore fu Platone, che dedicò i suoi Dialoghi alla registrazione delle conversazioni, reali o fittizie, tenute da Socrate con i suoi discepoli. Oggi i suoi scritti sono ancora religiosamente studiati come testi scolastici, ma in realtà Platone li considerava delle opere divulgative, e nella Settima lettera dichiarò apertamente: “Sulle vere dottrine della mia scuola non c’è alcuno mio scritto, né mai vi sarà, perché esse non sono comunicabili a parole, e sono percepibili soltanto attraverso un’illuminazione”.

L’approccio maieutico e interattivo dei Dialoghi, tutto incentrato su un fitto scambio di domande e risposte tra maestro e allievo, è particolarmente adatto a mostrare la genesi delle idee, che normalmente segue un lungo e tortuoso percorso, costellato di tentativi ed errori.

In matematica, però, a partire dagli Elementi di Euclide è invalsa la moda contraria: presentare il prodotto finito attraverso una ricostruzione razionale a posteriori, che tende ad assomigliare più a un gioco di prestidigitazione che a un percorso intellettuale.

Ma la matematica non era affatto esclusa dai Dialoghi platonici: lo prova una famoso passo del Menone, in cui Socrate conduce passo passo uno schiavo alla soluzione del problema della duplicazione di un quadrato (il caso particolare del teorema di Pitagora per triangoli rettangoli isosceli), in quella che costituisce la prima testimonianza storica di una vera dimostrazione. Se i teoremi fossero anche oggi presentati in questo modo, la matematica apparirebbe sicuramente meno ostica e incomprensibile agli studenti e ai non addetti ai lavori.

La divulgazione colloquiale inaugurata da Platone è stata adottata in seguito da altri filosofi: dai perduti dialoghi di Aristotele, che erano ancora in circolazione nel primo secolo della nostra era, ai Dialoghi sulla religione naturale (1779) di David Hume, nei quali interloquivano un razionalista, un empirista e uno scettico.

Ma gli esempi storicamente e scientificamente più rilevanti sono sicuramente le due opere più famose di Galileo Galilei: Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) e i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638). ( …) Mentre i Discorsi contengono il lascito scientifico di Galileo, ed espongono scoperte che egli fece durante la sua intera carriera, il Dialogo  costituisce il massimo libro di divulgazione di tutti i tempi: non solo per lo stile dell’autore, che Italo Calvino arrivò a considerare  il più grande scrittore italiano, ma anche per le dirompenti conseguenze teologiche, filosofiche, sociali e politiche che ne seguirono.

Italo Calvino e i sentieri della scrittura - Il Fatto Quotidiano

Italo Calvino

L’erede moderno di Platone e Galileo è oggi il matematico francese Alain Connes, medaglia Fields nel 1982, che, elevando la propria voce al di sopra del chiacchiericcio mediatico, è riuscito nell’ardua impresa di creare un ponte di comunicazione tra la ricerca specialistica e il pubblico generalista.

Galileo Galilei fu anche artista e poeta: una mostra rivela l'altra faccia dello scienziato

Galileo Galilei

 

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Jonathan Swift e Isaac Newton

A cavallo tra il 1726 e il 1727 accaddero in Inghilterra due eventi memorabili, la cui memoria rimane viva ancor oggi: a ottobre furono pubblicati I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, e a marzo morì Isaac Newton.

Sir Isaac Newton: Quotes, facts & biography | Space

Isaac Newton

Il romanzo è passato alla storia come una spietata doppia satira: da un lato, della forma della letteratura di viaggio, e dall’altro lato, della sostanza della società inglese. Lo scienziato è invece passato alla storia come il padre fondatore della scienza moderna e l’ispiratore della tecnologia che da essa è derivata.

La satira di Swift non risparmiò però la scienza newtoniana: al contrario, questa divenne il bersaglio del terzo viaggio di Gulliver, nell’isola volante di Laputa e nel sottostante regno terrestre di Balnibarbi. I loro abitanti sono sempre assorti in pensieri astratti e dimentichi della vita concreta, coltivano soltanto la matematica, l’astronomia e la musica, indossano vestiti che raffigurano corpi celesti o strumenti musicali, mangiano cibi a forma di solidi geometrici, rappresentano i corpi in maniera cubista e si preoccupano soltanto di possibili cataclismi cosmici, dall’arrivo delle comete alle fluttuazioni solari.

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Jonathan Swift

Dal canto suo, la grande Accademia che ha sede nella capitale Lagado costituisce una parodia della Royal Society di Londra, fondata dal re Carlo II nel 1660 e presieduta da Newton stesso per un quarto di secolo, dal 1703 fino alla morte. Gli accademici del romanzo sono tutti intenti a effettuare ridicoli esperimenti degni del premio Ig Nobel, come estrarre energia solare dai cetrioli, o produrre cibo riciclando gli escrementi umani. Quanto gli scienziati politici, sono presentati come completamente matti, perché pretendono di convincere i governanti ad agire con saggezza, competenza e moralità.

Che (il letterato) Swift non fosse comunque digiuno di scienza, e intendesse anzi divulgarla in maniera spiritosa, lo dimostrano alcuni indizi da lui sapientemente disseminati nelle varie avventure raccontata.

A Lilliput, per esempio, dove le dimensioni lineari di Gulliver sono 12 volte quelle degli abitanti, i matematici locali calcolano che egli debba mangiare quanto 1724 lillipuziani: evidentemente Swift conosceva il principio di similitudine, secondo cui il volume di un corpo cresce in maniera proporzionale al cubo delle sue dimensioni (anche se il cubo di 12 è 1728, e non 1724, come sta appunto scritto nel romanzo, per errore o per scherzo).

Che Swift conoscesse anche la terza legge di Keplero, lo dimostra un sorprendente brano sui progressi astronomici effettuati dai laputiani (…).

Il romanzo di Swift contiene molti altri aspetti scientifici: dall’orologio che Gulliver tiene nel taschino, e che i lillipuziani credono essere un dio che egli consulta continuamente, a una macchina combinatoria che genera automaticamente parole e frasi, ispirata alle ruote di Lullo e alla calcolatrice di Leibniz. Per non parlare di Yahoo, che nel romanzo indicava una razza degenerata di uomini, soggiogati come schiavi dai saggi cavalli parlanti di Houynhnn, e oggi è diventato il nome di un motore di ricerca: chi ha orecchie per intendere, intenda.

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Swift, Carroll e Abbott: divulgare la matematica con delle storie

Si può (dunque) divulgare la matematica anche raccontando una storia. L’hanno fatto i reverendi Jonathan Swift e Lewis Carroll nei Viaggi di Gulliver (1726) e in Alice nel paese delle meraviglie (1865), sottoponendo i propri personaggi a rimpicciolimenti e ingrandimenti: cioè ai cambiamenti di scala tipici della geometria affine. E l’ha fatto l’abate Edwin Abbott in Flatlandia (1882), immaginando mondi con una dimensione in più o in meno delle tre solite, come si fa nella geometria multidimensionale.

La differenza tra queste tre opere sta nel ruolo che vi riveste la matematica: marginale nelle prime due, e centrale nella terza. Abbott sceglie infatti i suoi personaggi tra le figure geometriche, e li organizza in una gerarchia che va dalla infima linearità delle donne alla sublime circolarità del clero, passando per la crescente poligonalità del proletariato e dell’aristocrazia, in una metaforica presa in giro dell’età vittoriana.

Ma il suo vero scopo è allertare il lettore al fatto che, come gli abitanti del mondo a due dimensioni possono intuire qualcosa del nostro mondo a tre dimensioni, così noi possiamo intuire qualcosa di un mondo a quattro dimensioni.

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Il gioco e la matematica, il Papiro di Rhind e il puzzle di Archimede

Fare matematica giocando è un’antica tradizione. Risale ad almeno 3500 anni fa, quando lo scriba egizio Ahmes chiese nel Papiro di Rhind di quante cose parla questa storia: “In una proprietà ci sono sette case. Ogni casa ha sette gatti. Ogni gatto acchiappa sette topi. Ogni topo mangia sette spighe. Ogni spiga dà sette misure di grano”. La soluzione è 19.607, e si ottiene sommando i primi cinque prodotti consecutivi di 7 per se stesso.

Neppure i grandi matematici disdegnano l’approccio ludico alla propria disciplina: Archimede, per esempio, inventò uno straordinario puzzle chiamato Stomachion, costituito da 14 pezzi che si possono combinare a formare uno stesso quadrato, in ben 17.152 modi diversi.

Ma a contenere problemi di questo tipo sono soprattutto le opere di matematica ricreativa, tra i cui classici spiccano le Proposizioni per acuire i giovani (800 circa) di Alcuino di York, il Libro dell’abaco (1202) di Fibonacci, La forza della quantità (1508) di Luca Pacioli e i Problemi piacevoli e dilettevoli (1602) di Claude Gaspard Bachet.

A partire dall’Ottocento si è poi assistito a una vera esplosione di rompicacpi e di giochi matematici, grazie soprattutto alle invenzioni e alla divulgazioni di Lewis Carroll, Sam Loyd, Edouard Lucas, Walter Rouse e Henry Dudeney. L’argomento è diventato una vera e propria giungla, e la migliore guida per esplorarla è Il matematico si diverte (2010) di Federico Peiretti, che racconta l’intera storia dagli Egizi ai contemporanei.

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Fumetti, divulgazione scientifica e resa artistica

Pochi sanno che Google si chiama così perché i suoi fondatori volevano chiamarlo Googol, ma sbagliarono a scriverlo. A sua volta Googol, il grande numero pari a 10 elevato alla 100, si chiama così perché un bambino lo chiamò a sua volta Google, che era il personaggio di un fumetto degli anni Trenta, ma sbagliò a scriverlo. Grazie a questo doppio errore, oggi persino il motore di ricerca più famoso al mondo porta il nome di un eroe dei fumetti.

Fino a qualche decennio fa, però, i fumetti erano un prodotto editoriale riservato ai bambini normali, o agli adulti ritardati. La loro filosofia si fondava sul fatto che la comprensione delle parole scritte richiede un certo grado di sofisticatezza intellettuale, e l’uso delle immagini può essere d’aiuto a coloro che quella sofisticatezza non l’hanno ancora, o non l’avranno mai (…).

Oggi questi discorsi sanno di tempi antichi, perché i tempi moderni ci hanno tutti forzatamente convertiti alla multimedialità: ormai la scrittura è considerata soltanto una prima inter pares tra i media nel migliore dei casi, e sta rapidamente diventando l’ultima, nel peggiore.

Spesso però ci dimentichiamo che la multimedialità non è una novità, ed era già presente ai primordi della cultura: nei canti che costituivano i poemi antichi, nel teatro classico, nelle ritualità religiose e politiche, eccetera. I dialoghi platonici, in particolare, usavano già il discorso diretto e lo scambio di brevi frasi, appunto come nei fumetti.

Nell’orgia multimediale contemporanea, che vede la “cultura” dei social media veicolata da messaggetti, chat, selfie e video casalinghi, persino i fumetti d’antan sanno ormai di antichità, e assurgono al ruolo di prodotti vintage o di qualità. Ci si può dunque aspettare che anche la scienza e la matematica vi facciano capolino.

Il primo esempio storico è il cartone animato Paperino nel mondo della matematica (1959) della Disney: un riuscitissimo cortometraggio di mezz’ora, reperibile su YouTube, che riscosse un grande successo nelle scuole di mezzo mondo, e illustrava alcuni dei risultati dei pitagorici, dalle connessioni fra i numeri e la musica alle proporzioni matematiche nell’architettura e nell’arte.

In casi come questo la grafica animata sicuramente fornisce un ausilio per la comprensione e l’apprendimento, e va sottolineata come una prefigurazione della grafica computerizzata che ha rivoluzionato lo sviluppo e la didattica della matematica in tempi recenti (…).

I migliori fumetti matematici sono Ultima lezione a Gottinga (2008) di Davide Osenda e Logicomix (2008) di Apostolos Doxiadis e Christos Papadimitriou.  Pur concentrandosi su aspetti diversi, entrambi raccontano la stessa epica storia: quella della logica matematica nel periodo d’oro a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento. Ma è la combinazione di precisione matematica e di qualità artistica che ha permesso loro di raggiungere la massima vetta nel campo della divulgazione scientifica a fumetti.

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Il cinema, fondamentale per cambiare il sentimento comune verso la matematica

Se dovessimo selezionare il miglior film sulla matematica e sui matematici, la scelta cadrebbe probabilmente su L’uomo che vide l’infinito (2015), basato sull’omonimo libro di Robert Kanigel (…)

Se dovessimo invece indicar i film sulla matematica o sui matematici che hanno avuto più successo di pubblico, la scelta cadrebbe sicuramente su Will Hunting – Geno ribelle (1997) e A Beautiful Mind (2001), vincitori rispettivamente di due e quattro premi Oscar. (Ci sono) compromessi richiesti da Hollywood e dalle leggi di mercato che includono una certa prevalenza della verosimiglianza sulla verità, e dell’invenzione sulla fattualità, ( con) scene improbabili, o addirittura impossibili: prima fra tutte, il discorso strappalacrime tenuto dal protagonista di A Beautiful Mind alla cerimonia del premio Nobel, nella quale in realtà i vincitori non dicono una parola o si limitano a inchinarsi in silenzio di fronte al pubblico.

Ciò nonostante, i due film sono stati fondamentali per cambiare il sentimento comune della gente nei confronti della matematica, raccontando due sconvolgenti storie di geni: una inventata, e l’altra vera.

Will Hunting fece conoscere al grande pubblico l’esistenza della medaglia Fields, presentata nel film come uno straordinario onore, analogo a un premio Nobel per la matematica

 

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Dostoevskij e Musil, scrittori ingegneri apostati

Il 1864 fu un anno spartiacque per Fedor Dostoevskij. Prima di allora era stato uno scrittore realista e laico, da Povera gente (1844) a Umiliati e offesi (1861), e in seguito sarebbe diventato uno scrittore esistenzialista e religioso, da Delitto e castigo (1866) a I fratelli Karamazov (1880). In quell’anno egli pubblicò un manifesto dell’irrazionalismo intitolato Memorie da una topaia, il cui protagonista era un abbietto personaggio che si autodefiniva appunto “un topo da fogna”.

Nel romanzo, il cui titolo viene spesso tradotto Memorie dal sottosuolo, Dostoevskij abiura gli studi tecnici che aveva fatto da giovane, laureandosi in ingegneria, e sminuisce il pensiero scientifico e razionale nei confronti di quello umanistico e irrazionale, inaugurando un topos europeo che culminerà nel romanzo mostro L’uomo senza qualità (1930-1942) di Robert Musil, un altro ingegnere apostata come lui.

Il dogma centrale del pensiero scientifico viene identificato da Dostoevskij nell’espressione 2+2=4, che ricorre più volte nel romanzo come simbolo di coercizione razionale. Per esempio: “Protestare non è possibile: due più due fa quattro. La natura non chiede permesso, non ha niente a che fare con i desideri, non si preoccupa di sapere se le sue leggi piacciono o no. Bisogna accettarla com’è, con tutte le sue conseguenze. Ma, per Dio, che m’importa delle leggi della natura e dell’aritmetica, se a me ‘due più due fa quattro’ non piace? Magari non riuscirò a buttare questo muro a testate, ma non lo accetterò soltanto perché è un muro che non posso abbattere”.

Dostoevskij arriva addirittura a sostenere che l’uomo libero dovrebbe svincolarsi da questa costrizione aritmetica, proclamando invece che 2+2=5.

In conclusione:

“La coscienza sta infinitamente più in alto del “due più due fa quattro”. Dopo il “due più due fa quattro” non solo non reterebbe più nulla da fare, ma nemmeno nulla da conoscere (sempre parole di Dostoevkij).

La scelta del 2+2=5 come simbolo archetipico del pensiero irrazionale è in realtà molto precedente a Dostoevskij. Già la Ciropedia (1728) di Ephraim Chambers, che costituì il modello della più famosa Enciclopedia (1751-1780) di Denis Diderot e Jean-Baptiste d’Alembert, spiegava alla voce Assurdo: “Sarebbe assurdo affermare che due più due fa cinque, o negare che due più due fa quattro”.

Dostoevskij non è stato neppure il primo letterato a rivendicare il diritto, o almeno il desiderio, di sbagliare le addizioni. Lord Byron, per esempio, scriveva già nel 1813, in una lettera alla futura moglie Annabella: “Io so che due più due fa quattro, e mi piacerebbe anche sapere perché, ma devo ammettere che se riuscissi a far venir due più uguale cinque sarei molto più soddisfatto”.

Fortunatamente, non tutti gli umanisti sono della stessa risma. Per esempio, l’abate Emmanuel Joseph Sieyès scriveva nel pamphlet  Che cos’è il Terzo Stato? (1789), che divenne il manifesto della Rivoluzione francese: “Se la Costituzione stabilisce che duecentomila persone su 26 milioni di cittadini possono eleggere due terzi del parlamento, allora due più due fa quattro”.

E Victor Hugo commentava così il risultato del referendum del 1851 a favore del colpo di stato di Napoleone III, in Napoleone il Piccolo: “Non si va lontano se sette milioni e mezzo di votanti dichiarano che due più due fa cinque, la linea retta è la più lunga, e il tutto è minore delle parti”.

Nel Novecento è stato George Orwell a uguagliare il pensiero totalitario all’imposizione di equazioni sbagliate, scrivendo in 1984: “Se il partito dicesse che due più due fa cinque, e prima o poi lo dirà, dovremmo crederlo. D’altronde, come sappiamo che due più due fa quattro?”

Forse si era ispirato allo stalinista Yakov Cuminer che, in un manifesto del 1931, aveva scritto: “Due più due uguale cinque, ovvero l’aritmetica del primo piano quinquennale più l’entusiasmo dei lavoratori”.

O al nazista Hermann Goering, che aveva dichiarato: “Se il Fuhrer vuole, due più due fa cinque”.

In sintesi: attenzione alle idee del secondo Dostoevskij e di Musil, visto che costituiscono la linea più breve di collegamento tra Stalin e Hitler.

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Verne, invenzioni letterarie su solide basi scientifiche

Jules Verne è uno dei pochi romanzieri, per non dire l’unico, che ha fondato le proprie ardite invenzioni letterarie su solide basi scientifiche. A volte è addirittura arrivato a inserire nei suoi libri non solo formule isolate, ma interi capitoli di divagazioni matematiche. (…). In vari romanzi Verne ha lanciato proiettili nello spazio con dei cannoni, tenendo doverosamente conto della velocità di fuga necessaria per superare l’attrazione della Terra sulla sua superficie, e più in generale l’attrazione di un corpo di massa M a una distanza r dal suo centro. Nel capitolo IV di Attorno alla Luna (1870), intitolato “Un po’ d’algebra”, si trova una discussione  di quella che all’epoca si chiamava equazione delle forze vive, e oggi si chiama teorema dell’energia cinetica: il fatto, cioè, che la somma dell’energia cinetica e dell’energia potenziale di un corpo rimane costante  durante il suo percorso.

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Borges e Joyce affascinati dai grandi numeri

Nel memorabile racconto La biblioteca di Babele (1941), Borges così descrive l’insieme di tutti i libri possibili:

“L’universo ( che altri chiama biblioteca) si compone di un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile. A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali. Ciascuno scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme. Ciascun libro è di quattrocentodieci pagine. Ciascuna pagina, di quaranta righe. Ciascuna riga, di quaranta lettere color nero”.

Supponendo che l’alfabeto abbia 25 simboli, ciascuno dei quali può essere minuscolo o maiuscolo, e che ci siano 10 segni di interpunzione, il numero dei libri della biblioteca di Babele è dato dalle possibili combinazioni con ripetizioni dei sessanta simboli su 410 X 40 X 40 posti, che sono 60 alla 656.000: un numero, cioè, dell’ordine di 10 alla 10 alla 6. Per scriverlo esplicitamente servirebbero 1.666.468 cifre, e dunque quasi due volumi della biblioteca.

Borges non era l’unico letterato affascinato dai grandi numeri. Un altro era James Joyce, almeno stando a una passaggio di Itaca, il diciassettesimo episodio dell’Ulisse(…) . Il numero citato da Joyce è 9 alla 9 alla 9, dell’ordine di 10 alla 10 alla 8. Le sue 369.693.100 cifre riempirebbero 564 volumi della biblioteca di Babele, parecchio più corti di quelli che aveva in mente Joyce.

Del gioco impossibile della parola: Borges

Borges

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Musil, Broch, Canetti e l’abiura del pensiero scientifico-matematico

Nei primi anni Trenta dello scorso secolo le vite di un ingegnere, un matematico e un chimico si incrociarono a Vienna, nel momento in cui tutti e tre stavano producendo altrettanti capolavori della letteratura del Novecento. Si trattava di Robert Musil, Hermann Broch e Elias Canetti, che pubblicarono nell’ordine L’uomo senza qualità (1930-1942), I sonnambuli (1930-1932) e Auto da fé (1935).

Ciascuno dei tre romanzi narrava a modo proprio la dissoluzione dei valori nel periodo tra le due guerre mondiali, quando ormai l’Austria si era liberata dal giogo imperiale, ma stava per cadere sotto quello nazista. E ciascuno dei tre scrittori, nonostante la propria formazione, arrivò ad abiurare il pensiero scientifico-matematico, presentandolo come la radice di tutti i mali del mondo.

Quei tre romanzi monstre passarono alla storia, ma Broch affrontò le stesse problematiche in maniera più, equilibrata e leggibile nell’Incognita (1933), che fin dal titolo fa un esplicito riferimento alla matematica concisa.

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La musica e la scoperta di Pitagora

Sembra che l’unica scoperta dovuta a Pitagora sia un abbozzo della teoria matematica della musica: in particolare, l’attribuzione dei due rapporti numerici 2/1 e 3/2 ai due rapporti armonici di ottava e di quinta. Il che significa, per esempio, se una corda di violino è lunga il doppio di un’altra, allora le note suonate distano un’ottava, come due do consecutivi. E se invece una corda è lunga una volta e mezza l’altra, allora le note suonate distano una quinta, come un do e un sol consecutivi.

(…) Ad Archita, che fu la fonte pitagorica di Platone e lo incontrò a Taranto (va attribuito) il completamento della teoria musicale e le applicazioni della matematica alla politica, oltre alla prima istituzione del corso di studi quadripartito che diventerà poi il quadrivio: aritmetica, geometria, astronomia e musica.

In particolare Archita attribuì rapporti numerici a tutti i rapporti armonici della scala eptatonica, capendo che il legame tra i primi e i secondi è di natura logaritmica: cioè, per addizionare o sottrarre i rapporti armonici bisogna moltiplicare o dividere i loro rapporti numerici. Per esempio, poiché due quinte (do-sol e sol-re) corrispondono numericamente a 9/4 e musicalmente a un’ottava più un tono, togliendo un’ottava  si ottiene 9/8 come rapporto di un tono (do-re).

Moltiplicando e dividendo in vari modi i rapporti via via ottenuti, Archita riuscì ad assegnare a ciascuna nota della scala musicale una frazione corrispondente: in particolare, 9/8 ai cinque toni (do-re-mi- e fa-sol—la si) e 256/143 ai due semitoni (mi-fa e si-do). Ma si accorse che c’era un problema con questi ultimi, perché, in quanto mezzi toni, essi avrebbero dovuto corrispondere anche alla radice quadrata di 9/8, che essendo però un numero irrazionale, non può coincidere con 256/143 (…).

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La divina proporzione. I disegni di Leonardo

Leonardo da Vinci è stato uno dei grandi artisti del Rinascimento, ma non uno dei grandi scienziati della storia, nonostante la sua leggendaria agiografia lo presenti come un genio universale. L’equivoco nasce dal fatto che i suoi celebri codici erano zeppi di appunti enciclopedici e di schizzi fantasiosi, troppo spesso ottimisticamente interpretati come progetti di avveniristiche macchine.

Il più famoso di questi disegni, oggetto di molte imitazioni e riprodotto addirittura sulla nostra moneta da un euro, è il cosiddetto Uomo vitruviano,  che fin dal nome rivela le sue origini classiche. Verso il 1490 Leonardo venne infatti a contatto con Francesco di Giorgio Martini, che gli fece conoscere i propri studi del De architectura di Vitruvio. L’ispirazione del disegno di Leonardo deriva appunto da un brano di questo trattato, che lega le proporzioni dell’uomo al quadrato e al cerchio, rispettivamente simboli della Terra e del Cielo. Le note scritte a mano da Leonardo attorno al disegno descrivono queste proporzioni nel dettaglio (…)

Se si vogliono trovare in Leonardo riferimenti alla proporzione aurea, tanto vale cercarli dove ci sono: cioè, nelle famose illustrazioni per La divina proporzione di Luca Pacioli. Di cui esistevano tre versioni manoscritte, datate 1497. (…)

Le sessanta tavole a colori di Leonardo costituiscono altrettanti esercizi di prospettiva, una tecnica introdotta un secolo prima da Brunelleschi, e illustrata da Piero della Francesca nel trattato De prospectiva pingendi (1482)

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All’Università di Harward cantando la matematica e la fisica

Alla fine di un corso di fisica del semestre autunnale del 1950 Harward, il professore annunciò che l’ultima lezione sarebbe stata un ripasso per l’esame. Con gran sorpresa degli studenti, però, l’evento fu invece un concerto di canzoni ispirate la fisica e alla matematica, scritte e interpretate da Tom Lehrer, che allora era appunto un dottorando in matematica a Harward.                           

La canzone più famosa del concerto, da allora imitata ad nauseam in varie lingue e con vari strumenti, è sicuramente Gli elementi. La musica è quella del brano Sono un vero modello di general maggiore moderno: Lehrer mantenne le note ma cambiò le parole, e con un pezzo di bravura non usò nient’altro che i nomi degli elementi chimici: per questo motivo, oggi la canzone è usata nelle scuole anglosassoni come espediente menemonico per ricordare la tavola periodica di Mendeleev.

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Ars amatoria di Ovidio e il gioco dei sassolini

Nell’Arte amatoria Ovidio descrive vari giochi che potevano servire da preludi amorosi, di uno dei quali diceva: “Si dispongano ordinatamente dei sassolini su una tavoletta, come i mesi sul calendario, e vince chi ne mette tra in fila. È un peccato se una donna non sa giocarlo, perché induce spesso all’amore”.

Questo gioco, testimoniato anche da molti ritrovamenti archeologici, era chiamato terni lapilli, “tripli sassolini”. Si trattava di una variante del nostro Tris, che si gioca su una scacchiera tre per tre.

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Scienza e umanesimo, oggettività dei dati e soggettività delle impressioni

La scienza si distingue dall’umanesimo per la sua concentrazione sull’oggettività dei dati, invece che sulla soggettività delle impressioni. Ma l’oggettività è comunque relativa, perché i dati si esprimono in un sistema di riferimento. Per esempio, le coordinate cartesiane di un punto nel piano o nello spazio sono relative alla posizione dell’origine e all’orientamento degli assi, e non significano nulla in assoluto.

Una delle migliori illustrazioni di questa ovvia constatazione sono i dibattiti sui cambiamenti climatici. Quando si parla infatti di aumento della temperatura media del pianeta die due gradi entro il 2050, si dimentica quasi sempre di specificare quale sia il punto di riferimento.

L’IPCC, vincitore del premio Nobel per la pace nel 2007, indica nei propri rapporti “la seconda metà dell’Ottocento”. Il motivo di quella scelta è che esistono dati attendibili sulle temperature terrestri e marittime dell’intero pianeta solo a partire dal 1850 circa.

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“Il grandissimo libro dell’universo”,  la celeberrima citazione di Galileo

Dal Saggiatore (1623)

“La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto dinanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”.

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Lucrezio, poeta e scienziato

Tutti sanno che il De rerum natura di Lucrezio è un capolavoro della letteratura latina, ma pochi sanno che è anche un capolavoro della divulgazione scientifica. I suoi esametri dattilici catalettici nascondono infatti, dietro la forma poetica, un contenuto che anticipa molti aspetti della scienza moderna.

Anzitutto i versi 54-63 del Primo Libro costituiscono un riassunto dell’intero poema, e si possono sintetizzare in un’unica parola d’ordine: riduzionismo. Lucrezio intende infatti ridurre il funzionamento dell’intero macrocosmo, uomo compreso, al comportamento microscopico dei cosiddetti stoicheia: una parola che significa “messi in fila”, o “in serie”, e indica gli “elementi ultimi” della materia. Ascoltiamo la sua viva voce:

“È per te che esporrò il supremo sistema celeste. Per te spiegherò i principi della Natura che regolano la nascita, la crescita, il sostentamento, la morte e la dissoluzione di tutte le cose. Per te parlerò di ‘materia generatrice’, di ‘semi delle cose’, di ‘corpi primordiali’ da cui tutto ha origine”.

lucrezio caro - lucretius carus

Lucrezio Caro

Uno degli obiettivi del riduzionismo è la classificazione di questi “corpi primordiali” o “elementi ultimi”. Un altro, complementare, è la descrizione di come essi si combinino per dar luogo a tutte le cose. Entrambi gli obiettivi sono condivisi da Lucrezio e dalle scienze moderne, benché ciascuna di queste si limiti a ridurre un particolare livello a un altro più elementare. A seconda dei casi, dunque, gli “elementi ultimi” di Lucrezio potranno essere interpretati come le macromolecole della biologia, le molecole della chimica, gli atomi della fisica atomica e nucleare o le particelle elementari della fisica subatomica.

In più punti del suo poema Lucrezio introduce un parallelo tra atomismo fisico e atomismo linguistico. Ai suoi tempi, infatti, l’esempio più convincente di atomismo non veniva dalla Natura ma dalla scrittura: dapprima la geroglifica, e poi l’alfabetica. Già nel Teeteto Platone aveva riconosciuto che erano state proprio le lettere e le parole a costituire un’ispirazione per gli elementi e gli insiemi, che stanno alla base della sua teoria delle idee. E così i due procedimenti di sintesi e di analisi corrispondevano alla composizione delle lettere in parole, e alla decomposizione delle parole in lettere.

Anche Lucrezio indica nelle lettere e nelle parole una ispirazione per gli atomi e i composti, che stanno alla base della teoria di Epicuro a cui egli si ispirava. Ma perché le intuizioni filosofiche diventassero teorie scientifiche si sarebbe dovuto attendere un millennio e mezzo: l’atomismo infatti farà capolino nella scienza soltanto nel 1661, con Il chimico scettico di Robert Boyle, e la conquisterà soltanto nel 1808, con Un nuovo sistema di filosofia chimica di John Dalton.

Ma non sono solo le generalità a essere moderne in Lucrezio. Lo è anche una lunga lista di specificità, che costituiscono delle vere e proprie anticipazioni di alcuni momenti salienti dello sviluppo della scienza: lo spazio infinito di Giordano Bruno, il principio di inerzia di Cartesio, il vuoto di Torricelli, la legge di conservazione della massa di Lavoisier, l’epidemiologia di Borelli, l’evoluzionismo di Darwin e la teoria cinetica dei gas di Maxwell, tanto per citarne qualcuna. E fu lo stesso Maxwell a scrivere, in una lettera del 1866: “Le parole di Lucrezio sono una così buona illustrazione della teoria moderna che sarebbe un peccato che significassero qualcosa di diverso”.

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Platone e la chimica e i quattro elementi

La chimica degli antichi non era molto sofisticata, soprattutto per quanto concerne l’identificazione degli elementi fondamentali. Tra i monisti, Talete privilegiava l’acqua, Anassimene l’aria, Senofane la terra ed Eraclito il fuoco. Tra i pluralisti, l’ecumenico Empedocle li assumeva e riassumeva tutti e quattro.

In realtà, nessuno dei quattro elementi dell’antichità ha resistito alla “prova del fuoco”. L’acqua è risultata essere un composto di due atomi di idrogeno e uno di ossigeno. La terra e l’aria sono misure di vari elementi: principalmente silicio (60%) la prima, e azoto (75%) e ossigeno (205) la seconda. E il fuoco è un processo, non un elemento (…).

A voler essere generosi, ciò che oggi resta delle teorie dei presocratici è la primordiale intuizione di qualcosa di profondo. Furono Erwin Schrodinger e Werner Heisenberg, nei loro libri La natura e i Greci (1948) e Fisica e filosofia (1958), a suggerire di considerare l’acqua, la terra, l’aria e il fuoco come metafore degli stati liquido, solido e aeriforme, e dell’energia che permette di trasformare gli uni negli altri: in particolare, il ghiaccio in acqua e l’acqua in vapore.

E fu Heisenberg a vedere nel Timeo, un dialogo platonico di ispirazione pitagorica, una prima fortunata prefigurazione della struttura atomica dell’acqua.

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La felicità si calcola matematizzando la politica? l’obiezione di Bentham

Il famoso preambolo della Dichiarazione d’indipendenza americana del 4 luglio 1776 enunciava:

“Noi riteniamo autoevidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono stati dotati dal Creatore di alcuni diritti fondamentali, e che tra questi ci sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità” (…).

Che la vita e la libertà siano due diritti inalienabili dell’uomo è diventato da allora un luogo comune delle democrazie, almeno a parole, ma il diritto alla felicità non è stato recepito: in particolare, non dalla Costituzione americana del 1787, che non a caso George Mason (che aveva stilato la Dichiarazione dei diritti della Virginia del 12 giugno 1776, NdR)  rifiutò di votare, e nemmeno dalla Costituzione italiana del 1947. D’altronde, la felicità è un concetto soggettivo e relativo, difficile da quantificare: per questo era difficile dare un significato oggettivo e assoluto all’idea di Mason, che “tra tutti i vari modi e le varie forme di governo, la migliore è quella in grado di produrre il massimo grado di felicità e di sicurezza”.

Il governo inglese non rispose direttamente alla Dichiarazione d’indipendenza americana. Affidò invece una risposta indiretta al filosofo Jeremy Bentham, che in un Breve esame della Dichiarazione (1777) si prese gioco dell’idea che bastasse istituire un governo per assicurare i suddetti inalienabili diritti: “come se”, egli notò, “ogni azione governativa non costituisse invece un’alienazione di almeno uno di questi diritti”. Quanto all’idea di Mason, di massimizzare la felicità, Bentham notò che essa suggeriva la possibilità di matematizzare la politica, ma si scontrava con l’ovvia difficoltà di quantificare la quantità da massimizzare.

Per ovviare alla difficoltà, nell’Introduzione ai principi della morale e della legislazione (1780) Bentham analizzò il principio filosofico della massima felicità, e introdusse l’idea di un calcolo felicitario che doveva permetterne la realizzazione scientifica. La sua proposta fu di sostituire il concetto teorico e vago di felicità con la nozione più pratica e precisa di utilità, che si poteva misurare algebricamente mediante una quantificazione positiva dei piaceri, e negativa dei dispiaceri.

Sorgeva però un problema, che sarebbe sorto anche se si fossero ristretti i piaceri ai soli guadagni monetari, e i dispiaceri alle sole perdite: il fatto, cioè, che l’utilità non è una funzione lineare, nel senso che un guadagno o una perdita doppia non producono un piacere o un dispiacere doppio. L’aveva già scoperto Jakob Bernoulli nell’Ars conjectandi (1713), notando il principio dell’utilità decrescente: il valore del denaro non è assoluto, e una stessa somma può valere molto per chi ha poco, e poco per chi ha molto. In altre parole, costa di più soddisfare allo stesso modo un ricco che un povero e una stessa somma procura maggior soddisfazione a un dato numero di poveri che ad altrettanti ricchi (…).

Nel Novecento l’utilità ordinale ha preso il sopravvento su quella cardinale, e il calcolo felicitario si è differenziato in tre tranche: la teoria dell’utilità attesa di John Von Neumann e Oskar Morgenstern, la teoria delle scelte sociali di Kenneth Arrow e Amartya Sen, e la teoria dell’utilitarismo delle preferenze di John Harsanyi, che hanno contribuito a far vincere agli ultimi tre il premio Nobel per l’economia, rispettivamente nel 1972, 1998 e 1994.

Piergiorgio Odifreddi - Wikipedia

Piergiorgio Odifreddi

 

Piergiorgio Odifreddi  – Matematico, logico e saggista

Ha studiato matematica in Italia, Stati Uniti e Unione Sovietica e ha insegnato Logica matematica nell’Università di Torino e nella Cornell University di New York. Nel 2011 ha vinto il premio Galileo per la divulgazione scientifica. Ha scritto numerosi saggi teorici e di divulgazione, biografie di scienziati: tra questi Il computer di Dio, Il diavolo in cattedra, Pensieri di un matematico impertinente, Il museo dei numeri, Dialogo su fede e ragione con Benedetto XVI, La Repubblica dei numeri,  Abbasso Euclide, Pillole matematiche

 

Post scriptum

Le “pillole matematiche” (di cui si è riportato qualche cenno esemplificativo ,NdR )intendono mostrare, si ribadisce, non solo ai giovani ma anche agli adulti, come la matematica sia presente, a volte sommessamente e altre prepotentemente, in tutta la cultura , umanistica e scientifica: nelle discipline dove non stupisce, dalla fisica all’economia, ma anche in quelle in cui meno la si aspetta, dalla letteratura alla storia dell’arte alla musica, alla politica, all’economia, al gioco. Ciò a riprova della profonda e sostanziale circolarità e unità della cultura, al di là delle classificazioni e distinzioni.

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