Verso l’aporafobia, un altro morbo del nostro tempo

Uno dei più gentili scrive che “la pacchia è finita”. Un altro ride – con tanto di emoticon – di “tre milioni di persone in povertà” e reputa giusto che i “fannulloni”, ormai privi di reddito di cittadinanza, muoiano di fame. Un brillante economista si spinge ad affermare che gli indigenti, in regime di economia libera, sono parassiti.

Dopo gli immigrati – derisi quando erano sequestrati in mezzo al mare – adesso tocca ai poveri sopportare la gogna social. È bastato annunciare il taglio del reddito di cittadinanza, almeno per quelle migliaia di “occupabili”, perché torme di trinariciuti con la bandiera italiana in bella vista – il padre del Tricolore Giuseppe Compagnoni dovrà portare pazienza – seppellissero sotto messaggi d’incerta grammatica, ma di certo odio di classe, chi obiettava di non essere in grado di pagare vitto e alloggio con appena 720 euro al mese.

Ognuno – lo insegna Platone – combatte una battaglia di cui non sappiamo niente, ed essere gentili è prescrizione doverosa verso tutti: ma l’odio nei confronti degli ultimi – di cui i social sono megafono – non è solo questione di buona educazione: perdente, fallito, losers, morto di fame, barbone. Le offese classiste, malgrado siano prassi quotidiana, a differenza di quelle che colpiscono il colore della pelle o l’orientamento sessuale smuovono con minor forza il cuore delle anime belle: e le battaglie per l’ecologia del linguaggio – in altri paraggi condotte con spirito di crociata – non difendono neanche per sbaglio la dignità di quei 5,6 milioni di volti che fanno fatica a mettere insieme il pranzo con la cena.

Nessun giornalista si straccia le vesti per chiedere ai calciatori di indossare una fascia colorata contro le prediche e le pratiche d’odio verso i poveri.

Persino le leggi ordinarie, che pure puniscono azioni e slogan che incitano all’odio, alla discriminazione e alla violenza per ragioni razziali, etnici, religiosi e nazionali, ignorano il motivo dell’”aporafobia” (neologismo della filosofa spagnola Adela Cortina per definire il disprezzo verso i poveri): malgrado l’articolo 21 della Carta di Nizza vieti ogni discriminazione, compresa quella sociale.

Senza citare la Spagna – dove l’aporafobia dal 2021 è perseguita nei discorsi che promuovono o incitano direttamente o indirettamente all’odio –, basta leggere l’articolo tre della nostra Costituzione formale (piena eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzioni di condizioni personali e sociali) per capire dove si dirige quella materiale. Per le piazze italiane, che nel ’48 chiedevano “utopia, libertà, fratellanza e tutto il resto” (copyright Modena City Ramblers), il povero era il volto di Cristo in cui specchiarsi – come insegna il democristiano Giorgio La Pira in una lezione sui bisogni della povera gente- o Metello, l’operaio del romanzo di Vasco Pratolini in lotta per un po’ di giustizia sociale.

Oggi invece gli ultimi– grazie a quarant’anni vissuti al grido ‘non esiste la società, esistono gli individui’- sono tornati a vivere ai margini delle metropoli, in un capitalismo selvaggio di marca ottocentesca: schifati dalle “Contessa” di turno e giudicati colpevoli della loro condizione da quelli che ben pensano e ne considerano la dignità “al di sotto dei cani del principe Torlonia”, per dirla con Ignazio Silone. Basti pensare– ne parla la professoressa Chiara Saraceno in una recente intervista sul Manifesto – alla “filosofia del divano”, tanto diffusa a destra, al centro e persino a sinistra: per cui chi vive di reddito di cittadinanza non è vittima di un’economia di rapina – che investe in finanza e aumenta i poveri a colpi di delocalizzazioni – ma uno sfigato, inetto e colpevole per non essersi difeso dalla miseria.

Altro che Repubblica impegnata a rimuovere gli ostacoli che impediscono l’eguaglianza, i pasdaran della “meritocrazia selvaggia” – per cui la povertà è una colpa individuale – ritengono ogni soldo nelle tasche dei poveri come l’elemosina fatta a un parassita. Nel tessuto sociale italiano, un tempo coeso – fosse per un crocifisso, una bandiera rossa o la Carta del Quarnaro di Fiume – attorno ai valori di solidarietà, si è andata sostituendo la cultura dello scarto (più volte citata da Papa Francesco), veicolata da fiction made in Usa, con filosofie da college in cui i “winners” fanno della competizione una malattia e persino il sonno diventa una perdita di tempo: non c’è spazio per i bravi, bisogna essere i migliori.

I media e la cultura – tranne preziose eccezioni come Francesco Guccini che ancora tifa per i troiani – hanno finito per suonare il piffero all’uno su mille che per natura o cultura riesce a farcela: dimenticando che anche gli altri 999 hanno diritto di stare al mondo con dignità. E mentre l’Istat certifica – con buona pace di chi elogia l’esistente – l’aumento di povertà, disuguaglianze e sfruttamento, qualcuno già accusa le piazze prossime venture di odio di classe.

Giovanni Giolitti, che bolscevico non era, ebbe a dire al riguardo di chi lo accusava di arrendevolezza agli operai: “Io deploro quanto altro mai la lotta di classe: ma, siamo giusti, chi l’ha iniziata?”. Era l’inizio del novecento.

Andrea PersiliGiornalista praticante

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