L’esperienza del politico e del parlamentare di lungo corso che ha vissuto le fasi esaltanti e decadenti della Repubblica, variamente e impropriamente numerata (Prima, Seconda, qualche politico analfabeta costituzionale aveva già annunciato l’avvento della Terza).
La preparazione e la competenza del professore ordinario di Diritto pubblico comparato che ha un rapporto speciale con gli studenti, così come l’aveva Moro, suo conterraneo, e guida storica del suo stesso partito, la Dc. La brillantezza e la chiarezza di scrittura del giornalista, che con immagini efficaci spiega concetti e fenomeni politici complessi e complicati.
Con la miscela di questi tre elementi, di queste tre skill, come si dice oggi con lessico contemporaneo, non meraviglia scoprire che i libri di Pino Pisicchio risultino un puntuale appuntamento con l’intelligenza e l’animazione intellettuale, messe al servizio del confronto democratico e di una vera e propria pedagogia civico-politica.
Non fa eccezione il suo nuovo libro “La politica come mestiere” a cui l’autore con qualche civetteria aggiunge un sottotitolo dal vago sentore umoristico: “non-manuale per carriere, militanze e cittadinanza”. Editore Rubbettino, pagine 191, con un corredo bibliografico che Pisicchio mette a disposizione per approfondire i temi – e sono tanti – affrontati nel libro.
Sempre che si abbia voglia di leggere. Nel dubbio ma anche nell’attesa che il lettore voglia approfondire, l’autore intanto ha scritto questo non-manuale. Che è anche una formula e un modo per parare eventuali obiezioni del tipo: non hai parlato di questo, hai solo accennato a quello. Non-manuale anche perché il libro non ha la pesantezza e, diciamo pure, la difficoltà e la lettura impegnativa del trattato.
Ma In realtà, a dispetto delle intenzioni dichiarate dall’autore, il libro offre una serie di squarci, di scenari, di analisi che si svolgono su due registri paralleli ma che, alla fine, come le convergenze parallele di Moro, trovano un punto di congiunzione, nel prefigurare la necessità di una nuova politica, anzi di una rifondazione della politica che miri, come obiettivo finale, alla felicità dell’uomo, alla felicità umana e sociale dell’uomo che si realizza nel lavoro.
I due registri, o profili, sono in particolare: il profilo storico-teorico, nel tratteggiare il formarsi e la caduta delle ideologie e le corrispondenti filiazioni politico- partitiche e le formazioni storiche così come si sono determinate nel nostro Paese nel Novecento e fino ai giorni nostri (comunismo, socialismo, fascismo, liberalismo, ambientalismo, populismo, sovranismo, grillismo), di cui traccia sintetiche narrazioni che i giovani farebbero bene a leggere e i meno giovani a ripassare.
Poi c’è il registro politico-fenomenologico che spiega come e perché oltre alle ideologie, a tramontare rischia di essere la stessa politica come sovrana forma di governo della società. La politica con la P maiuscola, come arte e scienza del governare, per cambiare la società e realizzare il benessere della comunità. Ma la politica – osserva Pisicchio – conta sempre meno, rischia di non contare più. La politica sembra essersi ritirata.
Quali le ragioni di questo scacco? Pisicchio ne enumera diverse: la qualità degli attori, dei protagonisti dell’attuale “palcoscenico” politico; le leggi elettorali; l’applicazione che egli chiama “traversa” dei principi costituzionali; il declino della forma partito; il declino delle ideologie; l’avvento di una economia digitale che la fa da padrone e di una finanza sempre più pervasiva.
Il paesaggio certo non è esaltante. Perciò l’autore si pone la domanda: come può la politica riprendere il suo ruolo di strumento di autodeterminazione di un popolo per il governo democratico di uno Stato di fronte alla straordinaria forza d’urto della economia digitale e della finanza? Come può? Ma prima di dire come? la domanda è: può? Certo che può, risponde Pisicchio, ma – avverte – per riuscirci “occorre una salto culturale di proporzioni ciclopiche”.
Per dare una idea plastica della “ritirata della politica” dal campo di battaglia civile e sociale del nostro tempo, l’autore ricorre – e qui c’è la zampata del giornalista che soccorre il professore e il politico – a due immagini di grande efficacia.
La politica è diventata come una spiaggia che si è via via ristretta, mangiata dal mare che avanza. Questo mare qual è? Ma il capitalismo digitale globalizzato, l’economia globale e rispetto a queste realtà la politica svolge un ruolo ancillare. Prima, a genuflettersi alla politica era l’economia, ora accade il contrario.
L’altra immagine è quella che raffigura la politica come un gatto cieco che si agita in un sacco dalla bocca stretta.
Come se ne esce? Per restare alle metafore citate: come può la spiaggia della politica tornare ad allargarsi, difendendosi dal mare che se la mangia? E come può uscire dal sacco in cui si agita scompostamente senza costrutto?
Pisicchio non sembra pessimista, anzi indica una possibile via d’uscita. Ci vuole un nuovo inizio, e il nuovo inizio significa tornare ai fondamentali della politica, e tra questi fondamentali ci sono i partiti.
Nel libro l’autore fa un’analisi senza sconti della degenerazione dei partiti e della loro evaporazione, ridotti, come sono stati e in gran parte sono, a brand, a prodotti pubblicitari come fossero saponette da offrire agli elettori trattati da consumatori. Lo chiama il marketing della politica, che si nutre di slogan e di sondaggi.
Sono scomparsi soprattutto i tre pilastri che facevano funzionare i partiti, ai quali – non dimentichiamo – è la Costituzione stessa ad affidare il compito di “concorrere a determinare, con metodo democratico, la politica nazionale”.
Con metodo democratico? Qui casca l’asino. Cosa è rimasto di democratico nel funzionamento dei partiti personali di ieri e di oggi che, con l’eclissi dei capi, si sono inabissati e sono scomparsi o rischiano di scomparire?
I pilastri che facevano funzionare i partiti erano appunto: la democrazia interna, che consentiva di contendere la guida dei partiti; la leadership; il radicamento territoriale, che consentiva uno stretto rapporto tra l’elettore e l’eletto. Rapporto che è stato indebolito se non distrutto da leggi elettorali perverse, dalle liste bloccate, dalle candidature paracadutate dall’alto e subite dagli elettori. Né hanno giovato le primarie, una scimmiottatura di quelle americane, che se proprio vogliamo copiare dovrebbero essere regolamentate per legge, altrimenti rischiano di finire in burletta.
Ritornare dunque ai partiti? Sic et simpliciter? E come? Pisicchio non è un venditore di illusioni e fa vedere con chiarezza la difficoltà di una inversione di rotta, e forse l’impossibilità di una riproposizione delle stesse forme organizzate, perlomeno nei modi come li abbiamo conosciuti. Però una nuova configurazione dei partiti e soprattutto l’attuazione degli articoli della Costituzione ad essi relativi potrebbe aiutare.
L’ottimismo della volontà alla fine sembra prevalere sul pessimismo dell’ intelligenza. E allora sembra di cogliere un filo di speranza. Voltare pagina insomma si può. Rinnovare si può. Riscoprire le alte ragioni, il senso stesso del fare politica, nella accezione originaria dei filosofi greci di Platone e Aristotele, per il quale l’uomo è un animale politico e non può chiamarsi fuori dall’agorà e dal governo della comunità, è possibile. Di più: è necessario!
Questa speranza Pisicchio la ricava soprattutto dai giovani, e cita i nipoti che gli chiedono, vogliono informarsi, sapere di più sul nostro tempo. E cita i suoi studenti, con i quali ha una consuetudine quotidiana, e che vogliono impegnarsi, studiare, approfondire. Dai giovani dunque arriverà al nostro Paese il messaggio “io ti salverò”?
Sì, verrebbe di condividere questa speranza, nel presupposto o alla condizione che i giovani conoscano il passato del loro Paese, studino la storia e l’economia, come già consigliava Andreotti a coloro che volevano fare politica; si preparino, capiscano i tempi in cui si trovano a operare, si nutrano di fermenti che solo la Storia, nelle sue varie declinazioni tematiche, può dare, la storia delle figure che hanno fatto grande la Repubblica: Moro De Gasperi, Togliatti, Nenni, Croce, Calamandrei, per citarne solo alcuni; e tanti altri parlamentari sconosciuti ma operosi di cui la storia non parlerà.
I leader sono necessari, ma non sono tutto e soprattutto non fanno tutto. Già Brecht si chiedeva: “Chi costruì Tebe dalle sette porte? Dentro i libri ci sono i nomi dei re. I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?”
Alla fine della fiera, come dicono a Milano, si capisce che l’autore ha imbastito questo libro come un grande gesto pedagogico di rianimazione civica e culturale, che mette in chiaro alcuni punti importanti: La politica non è solo un mestiere, la politica dovrebbe essere mossa da passione. La politica va esercitata con professionalità e competenza, e svolta negli incarichi pubblici con dignità e onore, come prescrive la stessa Costituzione.
Pur essendo un giornalista professionista, Pisicchio non si lascia frenare da solidarietà corporativa, e fa bene a non risparmiare legnate anche all’informazione, talvolta “alluvionale, superficiale, frammentata e parecchio cialtrona”.
E perché non sembri un attacco indiscriminato, uno sparare nel mucchio, l’autore fa un esempio preciso, uno dei tanti: la rinuncia di Draghi all’indennità che gli spetta come presidente del Consiglio, fatta con discrezione assoluta e senza alcun clamore o ostentazione. Ma di questo gesto – scrive Pisicchio – si “è impadronito il voyeurismo politico che è poi il cibo di cui si nutre il populismo, e così la scelta di Draghi è deflagrata sui media”.
Con il risultato che non solo questa scelta è stata sporcata, ma anche fraintesa, strumentalizzata, inducendo in modo subliminale ma non troppo l’idea che in fondo chi esercita incarichi pubblici non dovrebbe essere pagato. A tal proposito Pisicchio ricorda, ai demagoghi e ai qualunquisti, che alla Costituente fu proprio Costantino Mortati a proporre la formula (articolo 69): “i parlamentari ricevono una indennità stabilita dalla legge”.
Draghi, un tecnico chiamato in soccorso dell’Italia. Pisicchio fa questa riflessione: la politica già in crisi da anni, “si è ritirata sulla battigia dell’autoreferenza per difendersi dallo tsunami in arrivo, chiedendo soccorso alla techne. E i tecnici sono arrivati. Ma se c’è qualcuno che manca, si chiama politica. Una mancanza che non si sana senza assunzione di responsabilità”.
Certo, con Draghi sta passando la nuova parola d’ordine delle competenza che va al potere. Ma la competenza non basta, ci vuole la politica, sottolinea Pisicchio in questo libro al quale starebbe bene anche un altro titolo: nostalgia della politica che conta e che decide, della politica intesa non solo come gestione del potere ma anche come progetto e visione…
Forte è la tentazione di illustrare altre parti di questo libro, ma vogliamo lasciare la curiosità al lettore: basterà accennare a qualche divertissement dell’autore nell’indicare alcune sindromi connesse con l’agire politico, specialmente di alcuni personaggi. Per esempio: la sindrome di Fomo (un acronimo inglese) che significa paura di non contare più; o la sindrome di Stendhal (applicata non ai capolavori dell’arte, davanti ai quali lo scrittore francese restava rapito fino a perdere i sensi, ma alle poltrone di Palazzo Chigi).
In conclusione: non è un nostalgico, Pisicchio, perlomeno non è un nostalgico contemplativo del passato, di cui pure indica glorie e vergogne, ma un nostalgico del futuro, di un futuro per così dire travestito di passato quando la politica, pur con tutte le degenerazioni che egli non sottace – corruzione, clientelismo, personalismo, scandali vari – era una cosa seria, e soprattutto si svolgeva con competenza, passione, decoro e dignità.
Pissicchio non è neanche un nostalgico delle ideologie, anzi si domanda: siamo sicuri che sia poi un male “il ritrarsi di ogni sovrastruttura ideologica dall’agire politico?” Certo, non è un male, par di capire. L’obiettivo vero della politica è infatti quello di dare risposte ai bisogni dell’uomo, considerato nella sua dimensione di singolo e nel suo essere sociale. “Va dunque scardinata la vecchia prigione bidimensionale delle vecchie ideologie”, basate soprattutto sull’economia e i profili giuridici.
Al punto che un redivivo Carlo Marx, osserva qui il Pisicchio professore, non potrebbe oggi scrivere il suo Capitale senza tener conto della genetica, della psicanalisi, della fisica, della cibernetica. Da qui Pisicchio si spinge ancora oltre e dice: “la felicità è l’unico movente della politica post moderna”, poiché la felicità è sfuggita alle categorie della vecchia politica.
Eppure nella Costituzione americana si parla di diritto alla felicità; e nella Costituzione francese del 1793, figlia della Rivoluzione dell’89, c’è un precetto costituzionale – ricorda l’autore – che impone l’assistenza pubblica ai “cittadini malhereux, cioè privi di felicità” e di procurare loro un lavoro. Da qui a dire che il lavoro è una componente fondamentale, quasi ontologica, anche se non unica, della felicità il passo è davvero breve.
Ebbene, l’articolo 1 della nostra Costituzione fonda sul lavoro addirittura la vita della Repubblica.”E così – conclude Pisicchio – il cerchio si chiude. E si apre un nuovo orizzonte di impegno consapevole”.
Mario Nanni – Direttore editoriale