Un nome più banale era difficile da scegliere: Paasch Eyland, in olandese, isola di Pasqua. Jacob Roggeveen, l’abile capitano che comandava una nave della Compagnia delle Indie che raggiunse 300 anni fa una delle isole più remote del Pacifico non si impegnò nel battezzare quei 170 chilometri quadrati di terra: era il 5 aprile del 1722, era Pasqua. Per lo sbarco si attenderà il 10 per via delle condizioni del mare.
Questo di Pasqua non è che uno dei tanti nomi dati all’isola, anche se il più famoso; e che 300 anni dopo è stato cambiato in onore della identità sociale e antropologica dell’isola tornata a chiamarsi Rapa Nui, isola Grande.
In questi 300 anni l’isola, che qualcuno – sbagliando e vedremo perché – si ostina a definire una metafora del pianeta terra: risorse limitate, alto rischio ambientale, un territorio diventato parabola dell’autodistruzione. Colpa – era parso – delle guerre fratricide per le poche risorse, forse del ricorso al cannibalismo, devastazione ambientale come gli alberi tagliati per trasportare le enormi statue di tufo (moai) innalzate in nome di dei e/o antenati.
Tutto vero? No. Molto o quasi tutto falso per una terra alla quale troppo spesso è stato collegato il nome di mistero, ricorso che si fa quando si vogliono vedere ufo quasi ovunque e lasciare poco spazio alla scienza e agli studi incrociati.
Perché il mondo intero, quello occidentale sia chiaro, si è concentrato su Rapa Nui – isola di Pasqua prima dell’avvistamento europeo. Noi invece, grazie anche alle indicazioni del professor Davide Domenici, antropologo, archeologo, docente dell’Università di Bologna – mesi di studio passati sull’isola – cerchiamo di scoprire cosa sia accaduto in questi ultimi 300 anni, dopo la “scoperta”. Virgolette per significare che con ottica pasquense non si è scoperto niente, c’è stato solo un “incontro”.
Anche per questo Davide Dominici sottolinea come: “Quando pensiamo all’Isola di Pasqua, immediatamente ci sovviene l’immagine di un passato intriso di fascino e mistero: ma quell’immagine è in gran parte il frutto della storia moderna dell’isola, cioè successiva alla “scoperta” europea del 1722, una storia spesso tragica ma anch’essa straordinariamente avvincente”. L’Isola – 1800 famiglie – si trova all’estremo est della Polinesia; l’altra isola più vicina abitata è Pitcairn, a 2112 chilometri mentre le coste del Cile si situano a 3700.
I NOMI – Alcuni autori sostengono che l’isola venne chiamata in antichità Te Pito o Te Henua, ‘Ombelico del Mondo’; verosimilmente si tratta di un toponimo leggendario. Il nome ‘Rapa Nui’ è relativamente recente: si fa sentire nel XIX secolo. Ma si è chiamata anche Tierra de Davis, Easter Island, San Carlos, Île de Pâques, Hau Maka, Matakiterani, a seconda della nazionalità degli ultimi visitatori/scopritori. Il parlamento cileno, con un cambio della costituzione ha chiamato definitivamente il luogo Rapa Nui – Isola di Pasqua. Per approvare il trattino tra i due nomi si è discusso per un anno e più.
SCHIAVI – Tra il 1862 e il 1863 i circa 4500 rapanui furono ridotti a 1500; gli altri deportati (o uccisi se facevano resistenza) a lavorare nelle isole del guano peruviane, gestite dagli inglesi. I pochi rimpatriati, una quindicina dopo un’azione di pressione internazionale e su richiesta del vescovo di Tahiti portarono però il vaiolo nell’isola; e nel 1867 vi fu un’epidemia di tubercolosi. Nel 1877 la popolazione era ridotta a 111 abitanti.
E OVINI – Nel 1868 Jean-Baptiste Dotrou-Bournier (“un avventuriero” secondo molti storici) acquista gran parte dell’isola e la trasforma in un allevamento di pecore; nel 1875 possiede l’80%, con 4000 pecore. Gli isolani non impegnati forzatamente nella pastorizia vennero confinati in pochi spazi sul bordo marino e trattati come schiavi dal francese che si autoproclamò re dell’isola. Verrà assassinato dai Rapa Nui.
RELIGIONE – Fu Eugène Eyraud, missionario cattolico, a Rapa Nui tra il 1864 e il 1868 a battezzare tutti gli isolani. Lui assistette all’ultima cerimonia dell’uomo-uccello nel centro cerimoniale di Orongo: gli isolani attraversavano ogni anno a nuoto l’impetuoso tratto di oceano che divideva l’isola da un isolotto Motu Nui, dove il primo che raccoglieva un uovo deposto da starne che lì si posavano lo doveva portare dal gran sacerdote nell’isola: lui sarebbe stato poi onorato come una specie di divinità .
E CILE – È il 1888 quando il capitano di corvetta Policarpo Toro annette l’isola al Cile. Fa firmare un controverso trattato al re locale che di fatto consegna al paese latino americano il possesso dell’isola. La lotta per eliminare questo trattato è durata decenni.
ITALIANI, INGLESI FRANCESI E TEDESCHI – SI chiamava Raffaele Cardinali, marinaio livornese. Nel 1897 la sua vita cambia: in prossimità dell’isola di Pasqua il mercantile “Apolline Emile” dove era imbarcato, affonda. Lui e pochi altri si salvano. Quando si tratterà di tornare nel continente Cardinali decide di restare, si sposa con Maria Magdalena Pakomio Angata. Una pronipote di Cardinali qualche anno fa fu governatrice dell’isola. L’archeologa e studiosa inglese Katherine Routledge, arrivata in veliero nel 1914 e fermatasi nell’isola fino al 1915 darà uno dei massimi contributi culturali per la conoscenza dell’isola. Grazie anche al preziosissimo aiuto del pasquense Jaun Tepano (che sarà di appoggio a tutti gli studiosi che successivamente arriveranno nell’isola – muore nel 1947) riesce a raccogliere documenti e testimonianze sulla cosmogonia e la cultura dell’isola. Nel 1919 scriverà I misteri dell’Isola di Pasqua. Senza dimenticare gli studi Alfred Metraux (1934-35) si deve al tedesco padre Sebastiam Englert (1935-1969) una tra le documentazioni linguistiche storiche e archeologiche più importanti per l’isola, dove visse gran parte della vita come missionario.
LA MODERNITÀ – L’isola è riportata nel palcoscenico mondiale dal 2 aprile al 7 agosto 1947 e poi dal 1955-56 grazie alla spedizione di Thor Heyerdahl con la zattera KonTiki – un viaggio dalle coste peruviane fino all’isola per dimostrare una tesi (non accreditata) che l’isola venne popolata da abitanti dell’America del Sud. L’Isola di Pasqua entra nella modernità con la costruzione dell’Aereoporto Internazionale Mataveri, nel 1965; eseguito con fondi americani; diventò l’unica pista di atterraggio possibile per lo Shuttle nel caso di difficoltà sopra il Pacifico.
L’INDIPENDENZA – È grazie a un movimento capeggiato da Alberto Hotus e Alfonso Rapu Ahoa, che nel 1966 gli isolani ottengono la cittadinanza cilena e il diritto di voto. Sergio Rapu Haoa, cugino di Alfonso Rapu Ahoa, archeologo e studioso è eletto nel 1984 come primo sindaco nativo dell’Isola. L’isola è da allora anche parco nazionale, condotto direttamente dai residenti.
TRA FILM E FUMETTI – Dopo la missione missione archeologica del Centro Studi e Ricerche Ligabue di Venezia (1991-1993, una delle pochissime indagini italiane) nel 1994 il film Rapa Nui di Kevin Kostner propone una quantità di falsificazioni che nemmeno l’ingresso nel 1995 dell’Isola come patrimonio dell’umanità riescono a cancellare. E del resto i fumetti di Disney ma anche Hugo Pratt con Corto Maltese, Martin Myster e Geronimo Stilton si erano già impossessati dell’immagine dell’isola dei misteri.
PERCHÉ – Perché l’isola è quasi un deserto, perché si sono costruite le statue (moai), perché ci sono così tante storie e quasi nessuna concorda ancora sulla popolazione dell’isola, la vita, la cultura pasquense? Tutti abbiamo sentito che la vegetazione fu distrutta per trasportare ed erigere le enormi statue (circa un migliaio). Non è così: la colpa della deforestazione sarebbe da attribuire ad una serie complessa di fattori, anche climatici, ma che hanno come origine l’approdo in un’isola incontaminata di un piccolo ratto, arrivato con i primi visitatori stranieri.
Gli archeologi hanno dimostrato che fino al XVII secolo era continuata l’erezione dei moai. Chiamati – secondo una leggenda- le statue che camminano. Perché, come ha spiegato Domenici, le prove fatte con poche persone- usando corde e opportuni bilanciamenti – permettono di far muovere in una specie di danza le statue di pietra vulcanica. Che, una volta arrivate sul posto , venivano riproporzionate eliminando la “pancia”, volume che aiutava il movimento basculante. Il libro di Terry Hunt e Carl Lipo del 2011 Le statue che camminano dimostrano bene questa realtà. Quindi niente alberi abbattuti inutilmente.
RIVOGLIAMO LE STATUE – Il “programa de Repatriación Rapa Nui Ka Haka Hoki Mai Te Mana Tupuna” (Recuperiamo il patrimonio dei nostri antenati) è stato avviato con la richiesta, nel 2018, alla nuova Zelanda (inascoltata) di riavere le statue lì portate. Ma non è un fallimento: 2019 il British Museum ha annunciato un ripensamento per gli oggetti pasquensi in suo possesso. Il museo del Cile ha avviato una restituzione riportando sull’Isola di Pasqua una delle tradizionali (e rare perché una delle tre scolpite in basalto) statue con sembianza lavorate dalla popolazione locale oltre 500 anni fa, che fu portata sulla terraferma dall’avventuriero/governatore Jean-Baptiste Dutrou-Bornie.
LA STORIA CONTINUA – L’altra storia per l’Isola di Pasqua, senza ufo, senza collasso della civiltà prima dell’arrivo degli europei ma con l’esportazione di schiavi e l’importazione di omicidi e malattie; senza guerre civili, ma con problemi ecologici potrebbe finire qui. Senza più colpevolizzazioni delle vittime, cioè gli abitanti dell’isola: perché le risposte a tante domande che quella terra porta con sé sono sempre state complesse.
L’ultimo atto per ora l’ha scritto, nel 2020, un pickup guidato da un cileno, che ha danneggiato gravemente una delle famose statue. Dopo l’arresto dell’uomo è scoppiata una violentissima polemica per il rischio devastante del numero eccessivo di turisti sull’isola arrivando a chiedere un contingentamento. Che i turisti (150 mila all’anno) fossero il vero pericolo della modernità se ne erano resi conto in tanti. I rapanui però hanno accettato di chiudere la loro isola per la paura del covid, soffrendo economicamente ma salvaguardando la salute. Adesso che la normalità sta riprendendo occorrerà vedere quello che accadrà.
Finite le finte battaglie tra tribù dalle orecchie lunghe e corte, tolto di mezzo il devastante rituale religioso della follia edificatrice resta la realtà dell’economia turistica, l’unica del luogo. Che, se non razionalizzata, sta assomigliando molto (troppo) alla siccità devastante e al topolino roditore che si mangiò tutti i semi caduti dalle palme da cocco trasformando l’isola in un deserto.
Adriano Favaro – Giornalista